Pellegrino tra acque e rocce

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GABRIELLA MONGARDI.

Questo è l’ultimo weekend in cui è possibile visitare, nei locali dell’Associazione Culturale “La Meridiana Tempo” a Mondovì in piazza S. Pietro, la mostra di fotografie di Michele Pellegrino “Impressioni”, aperta fino a domani. Una mostra che fa onore e dà lustro alla “La Meridiana Tempo”, ma che avrebbe meritato ben altra visibilità, data la caratura artistica dell’autore.

Michele Pellegrino è nato a Chiusa di Pesio (CN) nel 1934, e si è avvicinato alla fotografia a trentatré anni, da autodidatta. Nel 1968 ha aperto uno studio fotografico a Mondovì e dal 1969 ha iniziato ad esporre le sue fotografie. Nel 1972 esce il suo primo libro fotografico, Genti di provincia, a cui seguiranno nel 1975 Il profondo Nord, nel 1976 Scene di matrimonio, nel 1980 Visage de la contemplation, nel 1984 Incanti Ordinari. A partire dagli anni ’90 si volge alla Montagna, alla montagna in quanto wilderness, riserva di natura selvaggia, senza traccia umana. La mostra presenta ventidue ‘ritratti’ di ciò che non ha volto.

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Nella prima sala ci accoglie un’esplosione di colori: arancio, azzurro, grigio – sei scatti che sembrano quadri di arte astratta, e solo se guardati da vicino si rivelano per quello che sono, rocce. Rocce ricoperte di licheni, guardate a distanza molto ravvicinata da uno sguardo ‘geologico’ che ne coglie la ragnatela di striature, i piani di sfaldatura, la scistosità, le pliche, le rughe. Uno sguardo che sembra quello di uno scienziato, di un fisico che sa che la materia, lungi dall’essere solida e compatta, è fatta di un brulicare incessante di particelle, è un complesso vibrare di campi quantistici, un interagire momentaneo di forze (Carlo Rovelli) e invece è quello di un artista affascinato dalla misteriosa bellezza delle cose, delle cose inanimate, delle cose senza l’uomo.

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La seconda sala è dedicata all’acqua, in movimento e ferma. Acqua di cascate e di torrenti, acqua di lago, neve e ghiaccio, riflessi e geometrie. Il bianco e nero permette di giocare con l’ombra, che scava e pietrifica, incide e dà risalto. È con l’ombra, più che con la luce, che sono realizzate queste foto, tutte rigorosamente senza didascalie né titoli, per non vincolare il visitatore in nessuna direzione, per non suggerire chiavi interpretative.

La terza sala accosta acqua e rocce, visualizzandone lo scontro grazie al potente chiaroscuro del bianco e nero: l’urto del flutto del torrente contro la pietra, le marmitte dei giganti e altri fenomeni idrogeologici, la grana luminosa della neve primaverile, “sale grosso” che si sta per liquefare… Il fotografo, costringendoci a guardare la natura con i suoi occhi, ci fa dono di una realtà minerale che altrimenti ci sfuggirebbe, mentre anche il regno minerale è uno dei regni della Natura, il più alieno a noi e proprio per questo il più affascinante. Compito dell’arte è appunto metterci in contatto con ciò che è ‘altro’ da noi: come scrive George Steiner, solo l’arte può rendere parzialmente accessibile, può far lievitare fino a una certa comunicabilità, l’alterità puramente inumana della Materia.

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L’artista, in questo caso il fotografo, sente il richiamo, la sfida della Natura – per Pellegrino rappresentata dalle sue montagne – e si mette in cammino, in pellegrinaggio, per rispondere. Nello zaino degli attrezzi mette innanzitutto l’umiltà e l’apertura, l’attenzione e il silenzio, il bisogno di dimenticare se stesso, per riconoscersi immagine / passeggera // Presa in un giro / immortale.