L’Iraq visto con gli occhi della nostalgia

illabirinto
L’alba…
L’alba è rimasta annegata, di alberi tenebrosi
e fuochi densi.
Sorgente di vapore, specchi luminosi
volano.
La tua camicia trasparente
come l’acqua, come aria desertica
ti chiederanno nuda sull’ultima pagina
del giornale
o nei solchi profondi
quelli che hanno scritto i nostri nomi palesemente.
Tu fuggi solo negli incroci stradali,
chiudi la porta del cuore, le finestre nel mio viso.
Ti vedo triste sul marciapiede,
tu stai andando verso il vetro della città,
stai cercando con i piccoli, erba e polvere.
Tu fuggi veloce come una stella.
Diventerai secca con la nebbia.
I tuoi sogni verdi hanno scordato la primavera.
Forse i boschi di fuoco sono rimasti divorati.
Tu fuggi sola
per leggere un quaderno di poesia.
L’ha scritta un poeta sconosciuto.
Il fiume si traveste verso di te,
arrivato dall’oriente, pietrificato nel dolore.
Il fiume brilla con la bellezza del tuo viso.

***
Le città stanche
Stanche queste città, per scordare
il nome del paese.
Scordare l’Iraq che ha fatto morire
cento anime.
Erano paradisi nello spirito che ha ucciso tutto.
Armi in cimiteri spaventati dai chiodi
d’oro sulla bara mimetizzata.
O miraggio misericordioso nei passi del padre.
Peccati mistici di soldati con il pane duro,
secco in tasca.
Era l’ultima cena prima della fine.
Prima o dopo la morte.
Gloria ai seni delle donne
quando schiaffeggiano il fiume e l’acqua
con la rabbia.
Gloria ai bambini vigorosi, randagi
come una pianta delle città stanche
verso altre città stanche e svuotate.
Sono ceneri fredde
dove la nuvola dell’arancio
è un arancio amaro che sta cercando
un altro albero amaro.
A volte spara canti di mare, navi o
di zingari amanti.
La loro lacrima è per la morte di un poeta.
Aveva cantato in anticipo.
Adesso entriamo nelle città stanche, ne usciamo
subito.
Non abbiamo riva, non abbiamo terra.
Sono città vivaio che violentano un re vivo.
Senza riva, senza alberi, senza un corpo eterno.
Quanti sogni divisi come un filo d’acqua
segreto.
Noi tramontiamo e la pioggia torna più
distruggente.
Perché brucia il fuoco nel fuoco.
Perché caccia i cantori della loro notte
triste.
Le città stanche cercano altri gradini.
Un saluto alle città stanche
un saluto a Michelangelo e a Dante.
Un saluto alla donna che mi ha donato
la camicia invernale nell’estate.
Saluto in questa città una vecchia
che mi ha regalato una coperta.
A mia madre rimasta senza vista.
Aspettava dall’esilio un orologio
dalla mia città Nassiria.
Se muoio lontano
saluta la mia fanciulla
che ricamava la notte per me,
senza chiudere un occhio.
Questo è rimasto delle città stanche.
Io sono solo, vivo con il mio nome,
le città ancora stanche
come… me.

***

Nel mausoleo
È fuggita.
Perché sei fuggita, perché sei
fuggita
in fretta?
Lei ha lasciato impronte sacre
sul mio corpo.
Perché lei ha tradito il mio corpo
in fretta?
Ero un uomo tranquillo,
ma quando sei entrata
hai rovinato
il resto
della mia vita.
Nelle ombre dei nostri corpi
mi proteggevo
dal fuoco che usciva dall’Eden
della sua età.
Il mio è un cuore solo nella sua
solitudine,
è una spiaggia della malinconia
e delle vedove.
Vorrei essere nelle prigioni
ai confini
per vivere senza terra il domani.

«Il labirinto di Hasan Atiya Al Nassar è il labirinto della propria vita quotidiana e della propria esistenza, fatte di una lontananza dalla propria terra natia che dura ormai da oltre trent’anni, e che lo inserisce fra i massimi poeti d’esilio viventi – tutt’ora in attività – nonché probabilmente della storia della cultura universale. Sebbene da un punto di vista strettamente storiografico, credo sia più complesso stabilire se la vicenda di Hasan sia riconducibile o meno a quella di un esilio, piuttosto che a quella di un rifugiato politico o di un profugo.

Poeta che potrebbe troppo facilmente essere considerato pessimista o “leopardiano”, e per questo emarginato da un mercato editoriale e da un panorama culturale, incentrati sul profitto, sull’apparire e sul risultato immediato. Là dove invece la vicenda biografica, va ad incidere ed influire in chiave decisamente prolifica e a suo modo positiva, sia sulla produzione poetica che sul senso della sua poetica stessa.»

Dalla Prefazione di Edoardo Olmi

hasan

Un viaggio in versi verso i luoghi delle proprie origini Sono passati quindici anni da quel 12 novembre 2003, eppure se si parla di Nassirya torna subito alla mente l’attentato nel quale persero la vita 28 persone, tra cui 19 militari italiani. Per Hasan Atiya Al Nassar, che proprio a Nassirya è nato e vive in esilio a Firenze dal 1981 (da quando è costretto a fuggire dall’Iraq in quanto renitente alla leva nella guerra contro l’Iran), Nassirya è e rimane Ur, terra d’origine ma anche ricordo doloroso, nella sua raccolta di poesia.

“Il labirinto” fa parte della produzione poetica in lingua italiana di Hasan; nel libro si mescolano le caratteristiche della poesia medio-orientale e un’attenta ricerca semantica e di suono, unendo alla nostalgia per la propria patria una «ricerca della bellezza nei paesaggi e nelle persone che lo hanno accolto» (dalla prefazione di Edoardo Olmi).

“Il labirinto”, pubblicato in formato digitale da Matisklo Edizioni e disponibile su tutte le principali librerie on-line, è un’occasione per riflettere su quanto luoghi lontani, conosciuti attraverso le cronache tristemente frequenti dei conflitti in essere, possano essere per alcuni di più: la propria origine, il proprio passato, la propria casa.

Sul blog di Bibbia d’Asfalto – Poesia urbana e autostradale, è ospitata una vera e propria rubrica è dedicata al poeta.

Per approfondire: www.matiskloedizioni.com/illabirinto

Matisklo è la parola