Il Cinema dei Pupi.

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LORENZO BARBERIS.

Dire che Pupi Avati è tra i miei registri italiani preferiti sembrerebbe troppo una opportuna piaggeria, dato che è venuto a Mondovisioni proprio sotto casa mia a presentare il suo ultimo libro (che a questo punto leggerò: ne riparleremo). Però è un dato di fatto che Avati è il “Polanski della Pianura Padana”, come è presentato (e non se ne schermisce, in fondo), il più unico che raro alfiere dell’horror – e di un horror esoterico – nell’Italia del tetragono “eterno realismo” che solo oggi si va screpolando.

Quindi, benché il mio immaginario sia più inevitabilmente anglosassone, e il Polanski originale – da Rosemary’s Baby a La Nona Porta (di fatto, la miglior possibile trasposizione “obliqua” del Pendolo di Foucault) – mi abbia probabilmente segnato di più, per Avati ho una sincera ammirazione e interesse.

Pupi Avati si dimostra grande intrattenitore, e sfrutta le domande per un racconto avvincente e romanzesco (il che non vuol dire romanzato) del suo percorso artistico. La ricerca dell’effetto comico è sempre stemperata in un umorismo pirandelliano, e la sua affabulazione non cerca il facile applauso, ma una più sottile seduzione integrale dell’ascoltatore.

C’è molta auto-ironia quindi nel racconto degli esordi, tra veterinaria avviata per compiacere una ragazza che aveva un barboncino odioso e dal morso fatale, e scienze politiche dove, per compiacere la famiglia che lo attende in festa in Via Saragozza, inventa un 26 (“punto di equilibrio tra il 18 e un non credibile 30 e lode”). Da qui Avati trarrà il suo “Festa di laurea” (1985).

C’è molta nostalgia dell’ingenuità degli anni ’50, non priva di un certo manierismo generazionale che tende a ritenere tutti gli under-60 inesperti di un mondo senza telefoni, e ignari di Gary Cooper e Kim Novak. Interessante la visione del cinema che emerge, però, il culto di una “sana cialtroneria” opposta al cinema asettico dei cineforum, l’elogio dell’entrare al cinema per il cinema, a metà spettacolo, per stare tra amici più che per vivisezionare un film di cui si sa già tutto.

Avati non ha mancato, tra l’altro, nelle interviste sui giornali locali di sparare a zero sui blog di cinema, sentina di tutti i vizi, di tutti i mali e di tutti i frustrati: e non so (spero) se il fatto di non scrivere abitualmente di cinematografo (unita alla mia tendenza a parlar bene, al massimo unito a qualche bonaria ironia) mi metta al riparo dagli strali avatiani.

Comunque sia il racconto di Avati procede godibile, e si arriva alla svolta di “Otto e mezzo”, che spinge l’allora dirigente della Findus a cambiare vita, e passare coi suoi amici a fare film. “Il momento, Odifreddi” dice al matematico impertinente che siede tra il pubblico, e che parlerà dopo, notorio mangiapreti “In cui Gesù dà il nome ai discepoli: io farò la musica, io i costumi… ognuno si sentiva investito di un ruolo in modo quasi mistico, e sacrale.” Finché un amico non gli rivela il suo destino, dicendogli: “Io sarò il tuo aiuto regista”.

Otto E Mezzo è del 1963, Avati lo vede nel 1968, “quando l’impossibile era ancora possibile”. Si inviano i ciclostili ad ogni produttore e possibile contatto culturale (“sapete, non c’erano le e-mail”: grazie Avati della precisazione), l’unico che risponde è Ennio Flaiano (“voi non sapete chi era etc. etc.”): “Non scrivetemi più”.

Questo primo glorioso film, su cui Avati non si sofferma contenutisticamente (non l’ho mai visto, ad esser onesto) è “Balsamus” (1968), in cui si ricostruiscono le vicende del Conte di Cagliostro (forse ispirazione per Eco, che nel Pendolo di Foucault scrive le vicende di un immaginario Saint-Germain, il maestro di questi).

Del cinema di genere comunque Avati parla: “ho rendicontato la mia opinione degli anni in cui vivevo, in quaranta e passa film della mia carriera, senza snobismo verso il genere”. Il cinema italiano invece reputa il genere come minore, l’intellighenzia non lo ama per questo.

Anche qui, non si parla direttamente de “La casa delle finestre che ridono” (1976), suo primo grande successo dove scandaglia i misteri e gli orrori della bassa padana, radicalizzando certo Guareschi, anticipando certo Sclavi (che semplicemente sposta di peso questa Bassa in una fantomatica brughiera inglese), e seguito da numerosi altri film su questo filone, da “Macabro” scritto per Lamberto Bava, figlio di Mario, nel 1980, “Zeder” nel 1983 co-sceneggiato con Maurizio Costanzo, il thriller “L’Amico d’Infanzia” e “L’arcano incantatore” del 1996. Preceduto, inoltre, da una sceneggiatura significativa come quella de “Le 120 giornate di Sodoma”, cui Avati partecipò, film irriducibile all’horror, ovviamente, ma centrale nell’Orrore Italiano (e non solo) nel suo complesso.

In qualche modo Avati sembra poco interessato al suo universo filmico se non per aneddoti apparentemente marginali: e non è solo il pretesto del libro da presentare a deviare il discorso o sull’estremamente generale o sull’estremamente particolare (comunque molto interessanti). C’è, come spiegato dall’autore, un certo distacco da ogni film, una certa inquieta evoluzione che porta a non riconoscersi in nessuno pienamente, una volta ultimato, nella consapevolezza serena di “non aver fatto il mio grande film” anche perché sarebbe il segno di uno “scollinamento” definitivo verso il declino.

Molto interessanti però appunto sia gli aneddoti sia le riflessioni, specie quella sul rapporto tra film e letteratura: l’approdo alla scrittura dipende dall’impossibilità del film di dire “le digressioni, gli indugi, le riflessioni, le introspezioni”. La scrittura è poi percepita come più centrale, “un buon film è una buona sceneggiatura” (posizione significativa, perché affatto scontata). Infine c’è il rapporto uno a uno, l’Autore e il Lettore, si può “modulare la voce”, il tono si fa meno urlato, ci sono più sfumature in questo dialogo (e qui in qualche modo Avati liquida tante teorie affascinanti ma astruse come l’eccessivo trovarobato narratologico, i Narratori di Livello N e le Focalizzazioni con cui sono impestati i manuali e i programmi di letteratura odierni).

Il tema del romanzo odierno di Avati, “Il ragazzo in soffitta” (2015), sua opera d’esordio in questo campo, è poi una riflessione sulla follia, sulla nascita del mostro, tema che ritorna nel suo cinema intrecciato a quello più generale delle dinamiche famigliari e amicali. “Noi registi e gente di cinema siamo carta moschicida per i pazzi. Appena metti una macchina da presa in una piazza, la gente “normale” ti osserva da lontano, contegnosa, il matto del paese arriva subito, diviene il tuo miglior amico.” Seguono aneddoti divertenti e terrificanti al tempo stesso su alcuni stalker ossessivi, degni di una sceneggiatura horror (e penso molti li abbia utilizzati).

Seguono aneddoti su “Regalo di Natale” sul poker, su suggerimento di un amico baro di professione, che porta alla riscoperta di Abatantuono, dopo il default di un Banfi troppo appassionato di ostriche (e quindi troppo caro per un film che dev’essere in povertà di mezzi dopo un flop, “quattro attori e un mazzo di carte”), o su Katia Ricciarelli inventata attrice dopo una serata alcoolica nel casting di “La seconda notte di nozze” (l’attrice vincerà poi il Nastro d’Argento per il ruolo femminile).

Insomma, un excursus realmente interessante, in cui Avati si conferma davvero un Maestro della parola a più livelli. Spunti interessanti, specie quelli sulla centralità della scrittura, sulle sue specifiche, sul suo ruolo del cinema, che non mancherò di rivendermi in classe specie quando affronteremo il fantastico, che le antologie liquidano ancora con una certa sbrigatività, ma che le migliori iniziano comunque a trattare. “Non ho lasciato traccia, se non su me stesso”, dice Avati, concludendo con il costante understatement che ha contraddistinto l’intervista. Ma ovviamente non è vero: senza il fumetto dei vari Alan Moore e Sclavi, senza l cinema dei Polanski e anche quello dei Pupi, la nostra cultura sarebbe ancora legata a uno stanco neorealismo postbellico. E Avati per primo lo sa benissimo, in fondo.