L’analitica spietatezza di Magda Szabò

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STEFANO CASARINO.

Dieci anni fa, il 19 novembre 2007, moriva novantenne Magda Szabó,  nata il 5 ottobre 1917, una delle più importanti scrittrici ungheresi: doppio anniversario, dunque, per lei, centenario della nascita e decennale della morte.
Vittima del regime comunista instauratosi nel suo Paese nel 1949 che la considerò autrice non gradita e le proibì di pubblicare sino al 1958, fu grazie all’interessamento di Herman Hesse che ottenne fama e riconoscimenti internazionali con Via Katalin (1969) e con La porta (1987). Oltre a questi due, il lettore italiano può leggere, grazie alle traduzioni di Bruno Ventavoli e sempre edite da Gli Struzzi Einaudi, altri due romanzi: La ballata di Iza (1963) e L’altra Eszter (1969): quattro opere molto particolari, che consentono alla Szabó di occupare un posto di tutto rispetto nella narrativa europea del Novecento.

Ho iniziato la mia conoscenza con questa autrice con La ballata di Iza.
Storia di un complesso rapporto madre anziana / figlia in carriera, che ha un sapore di fortissima attualità (comprendiamo davvero i nostri genitori quando sono diventati anziani? la distanza anagrafica diventa incolmabile, determina un’incomunicabilità persino tragica, che la Szabó analizza con chirurgica precisione), l’opera presenta caratteri forti, indimenticabili: da Vince, il padre di Irma, vecchio giudice epurato dal regime comunista e poi riabilitato dopo molti anni (tema chiaramente autobiografico, che torna spesso nelle opere della Szabó), all’ex marito Antal, uomo generoso e di animo nobile, alla madre, figura di straziante verità esistenziale, costretta a vivere in un’età che non comprende e che non sente più sua (non si fida né del telefono né del frigorifero, non riesca a frenare il “modernismo” di Iza, a farle capire che le persone anziane hanno passato la vita insieme ai loro oggetti, per loro ogni cosa possiede un valore molto più profondo che per i giovani), sino ad arrivare alla stessa Iza, donna abituata ad eccellere, sempre e solo in sintonia con se stessa, incapace di imparare ad esserlo con gli altri, giudice rigorosa di tutti, persino dei suoi genitori (Non erano persone moderne.[…]Né mio padre né mia madre. Poverini, erano figli di un’altra epoca).
Si chiude il libro con un profondo senso di disagio e una grande tristezza: davvero, possono esistere persone sentimentalmente sorde, incapaci di amare con semplicità e spontaneità. Costoro possono fabbricare, con le migliori intenzioni, un autentico inferno per le persone alle quali credono di voler bene. Credo vada letto con attenzione, questo libro, proprio ora che corriamo sempre di più il rischio di trasformarci tutti un po’ in Iza e di aver bisogno, prima che sia troppo tardi, di un’educazione all’affettività.

Ancora più duro e molto più cinico il secondo romanzo da me letto, L’altra Eszter. Adottando la prima persona singolare e ricorrendo alla tecnica del monologo interiore con esiti non sempre felici, Magda Szabó tratteggia qui il ritratto di una figura decisamente antipatica: Eszter finge sempre (So soltanto mentire o tacere. Tutto il mio curriculum è una menzogna), recita intenzionalmente forse più nella vita reale che sulla scena (è un’attrice ben diversa dalla Donata del pirandelliano Trovarsi); non si vergogna di rivelare insensibilità (La musica mi nauseava), avidità (Se non avessi suggerito risposte deliberatamente sbagliate a Gizike lei sarebbe stata promossa e non avrebbe avuto bisogno delle mie ripetizioni: non potevo permettermiil lusso di offrire il mio aiuto gratuitamente; che colpa ne avevo se la mia esistenza si fondava sul fatto che gli altri dipendessero da me?) e, soprattutto, invidia e odio implacabile per Angéla, di cui invece finge di essere la migliore amica.
Una personalità che ha tratti in comune con lo Jago shakespeariano e che così si descrive da ragazza: Ero una pessima compagna di classe, scontrosa, irascibile, invidiosa. Non suggerivo, non aiutavo mai nessuno, alla maturità feci il compito per denaro, e per passare il foglio alle altre prima pretesi di avere in mano dieci pengő.
Indubbiamente molto intelligente, è, come Iza nella precedente opera, più cervello che cuore: ma mentre la prima è tutto sommato incapace di qualsiasi autentico sentimento, Eszter sa provare benissimo una passione esclusiva, l’odio per chi è più buono (Ho sempre sospettato delle persone buone. Non ho mai creduto, nemmeno da piccola, che la bontà sia una condizione naturale), bello, fortunato e felice di lei. Per Angéla, appunto, che in fondo non aveva altri doveri se non quello di essere la benefattrice dell’umanità.
Eszter è cosciente della propria condizione esistenziale: Vivere senza amore, per me, era la cosa più naturale del mondo, è una condizione che non mi ha mai meravigliata, né tutto sommato ferita.
È un’altra figura che ci interroga sulla possibilità concreta di vivere senza amore: quante Eszter ci sono tra di noi?
Per quanti, come per lei, è del tutto naturale fingere, mentire, tramare, pensare sempre e solo al proprio tornaconto personale?
Senza, però, essere mai davvero né felici né realizzati.
Anche qui, forse, dopo aver letto questo libro si avverte più forte la necessità di un’educazione al Bene, di una sistematica correzione della pura intellettualità.

Più simile a La ballata di Iza, anche La porta – opera che diede alla sua autrice una notorietà internazionale – racconta l’evoluzione di un complicatissimo rapporto umano tra la voce narrante (qui nuovamente vi è il ricorso alla prima persona singolare, ma si fa esplicito riferimento a Magda, siamo dunque autorizzati a pensare che sia proprio lei, visto anche che si parla di una scrittrice che viene riabilitata e che ottiene pubblici onori e riconoscimenti) e una sconvolgente donna di servizio, la “regale” Emerenc (una gran dama, regale, pura come le stelle).
Un rapporto che permette all’autrice di arrivare ad un’importante autoconsapevolezza (immaginavo la realtà come avrei voluto che fosse; io non pensavo a nient’altro fuorché a me stessa) e di scoprire quanto sia difficile comprendere un’altra persona, interpretare i suoi gesti e le sue parole nel modo più giusto, senza fraintendimenti.
Non basta certo voler bene e avere intenzione di fare bene (Io volevo il suo bene, anche se le cose sono andate in modo diverso, può non credermi ma io volevo soltanto il suo bene); è duro sentirsi dire: Lei non è capace di amare, eppure m’ero illusa che lo fosse.
Ed è più duro ancora constatare, senza nessuna attenuante possibile, di essere stata la causa di rovina e di infelicità, quando invece si voleva proteggere, curare, salvare.
Qui emerge una morale al negativo, amarissima: Impedire a qualcuno di soffrire è il miglior regalo che si possa fare.
Dietro Emerenc c’è la storia di una vita complessa, di un coacervo di dolori e di speranze: ma a volte comprendere non è sufficiente, in definitiva neppure serve. Certe porte devono restare chiuse: ciò che c’è oltre, anche se non è un grande segreto, una volta scoperto, determina conseguenze irrimediabili.

Via Katalin è l’opera più complessa, forse il capolavoro della Szabó.
Inizia con un incipit notevole: Diventare vecchi è un processo diverso da come lo rappresentano gli scrittori, e somiglia poco anche alle descrizioni della scienza medica.[…] Nessuno aveva spiegato loro (agli abitanti di via Katalin, nda) che la fine della giovinezza è terribile non tanto perché sottrae qualcosa, quanto piuttosto perché lo apporta. E quel qualcosa non è saggezza, né serenità, né lucidità, né pace. È la consapevolezza che il Tutto si è dissolto.
Il lettore inizialmente davvero non comprende, non può comprendere: la prima parte, intitolata Luoghi (pp. 9-38) confonde tutti gli elementi, dà per scontate informazioni che vengono fornite solo nell’abbondante seconda parte Date ed episodi  (pp. 39-198) e scandite in modo cronologicamente ordinato in sei sotto parti, intitolate Millenovecentotrentaquattro, Millenovecentoquarantaquattro, Millenovecentocinquantadue, Millenovecentocinquantasei, Millenovecentosessantuno, Millenovecentosessantotto.
Il tempo ordina e dà senso allo spazio: ciò che appariva strano e incomprensibile al primo impatto, diventa chiaro quando con sapiente bravura l’autrice conduce il lettore a raccordare momenti ed episodi. Via Katalin aveva visto intrecciarsi in modo tremendo le vicende di tre famiglie (gli Elekes, i Bíró, gli Held): nella narrazione riaffiorano i primi momenti dell’incontro tra i quattro bambini (Henriette, Irén, Blanka e Bálint) che, diventati grandi, sono i veri protagonisti della storia.
Si ascolta in prima persona la voce di Irén, un’altra donna molto simile a Iza e Eszter, più cervello che cuore, che si sentirà dire: È davvero terribile come tu non sia mai riuscita a comprendere le cose più semplici […]La vita. La morte. L’acqua fresca. La vita non è la scuola, Irén. La vita sfugge alle regole.
Nell’ultima parte compare (ricompare) anche Henriette, della quale è bene non dire nulla, per non privare chi volesse leggere il libro della sorpresa di scoprire quale è stata la sua (terribile) sorte.
Una cosa va detta: è impressionante la composizione delle corrispondenza tra vivi e morti, l’intreccio dei loro destini. Per la Szabó la differenza tra i morti e i vivi è solo qualitativa, non conta granché; i morti non muoiono […] chi ha vissuto per qualche tempo e sotto qualche forma in questa terra è immortale.
Via Katalin è un’opera potente, la si legge d’un fiato e al termine si resta disorientati, sconvolti, come raramente accade con un romanzo.

Magda Szabó è una grande scrittrice. Può non piacere, non piacerà certamente a chi vuole empatia, a chi ama scrittori più “caldi”, più sentimentali oppure scrittori più briosi, che sanno fare ricorso anche all’ironia.
Lei ha un freddo, assoluto controllo delle vicende che racconta. E sono sempre vicende di donne: gli uomini hanno un’importanza tutto sommato marginale.
Ogni sua opera è, almeno così a me pare, una denuncia dell’assenza, della sparizione dell’amore disinteressato, semplice, spontaneo. Le sue protagoniste ragionano troppo, calcolano troppo: sono in questo perfettamente novecentesche. E causano dolore e  rovina, propria e di quelli che hanno a che fare con loro. Sono tutte, in fondo, storie di solitudine, di impossibilità ed incapacità di stabilire relazioni profonde che diano un senso all’esistenza.
L’amore con cui veniamo amati è sempre una sorta di misericordia, scopre Irén. E con lei lo scopriamo anche noi lettori: una lezione sempre valida e da tenere sempre ben presente.