Sul porto di Livorno

Libeccio a Livorno file definit

STEFANO ADAMI

Canticchiare sul treno la mattina alle sette, col vento diaccio che entra dal finestrino rotto, può non essere un bell’affare. Sembra bello, all’inizio. Tutti gli altri sono insonnoliti e poco ben disposti. Eppure lui cantava; perché il sangue gli scorre a rotta di collo nelle vene, da tempo è così. Meraviglioso. Felice. Scorre impetuoso e non può farci niente, e poi trova degli ostacoli, degli sbalzi, dei salti, e scoppia in qualche macchia di calore. Allora gli veniva da ridere. Sospesa la grande battaglia. Poi quelle macchie diventavano fredde d’improvviso. Allora bisognava sgranchire. Che bello, bellissimo. Leggere? Non se ne parlava nemmeno. E chi l’aveva la concentrazione. E non c’erano neanche i libri, non li ha portati apposta. Ma canzoni? Quali? Prima un bacio, poi un altro, ogni sera un addio… Le solite, solo che fra tutte la parte da regina la fa Insensatez. Perché era proprio in quel modo lì.
Sul porto di Livorno ho lasciato il mio cuore.
Arrivare a Livorno è un golgota, non si arriva mai. Sì, bello il panorama, quegli spigoli di luce sul mare, i salti di pietra. Ma s’è visto tante volte. Come quando ci andava, tante vite fa, d’estate. O Montenero, per esempio. Insomma, alla fine in qualche modo s’è arrivati. Proprio mentre attraversa la stazione di Livorno, è partito quasi due ore fa, gli squilla il telefono. È lei. In ritardo. Lo sapeva. C’è da aspettare un altro paio d’ore. E che fare? Due sono gli amici livornesi a cui può telefonare a quest’ora della mattina. Giulia. La chiama, è in Piemonte. Federico è qui.
Ma di horsa, ‘un c’ha tempo, un caffè al massimo, al Washington bar? Noe, noe, bisogna si spicci, in Piazza Garibaldi, Dio bono.
Insomma, Livorno è proprio bella, ‘un c’è che dire. Da sempre. Queste gran vie che ricordano ancora una vecchia eleganza. Questi canali quasi olandesi, questi cieli lunghi, le fonde strisce di luce seminate nel blu. A piazza Garibaldi, il caffè. Che ci fai a Livorno? È una lunga storia. Se vuoi te la racconto, mi garba, com’è bello raccontarla. Noe, ‘un c’ho tempo. E voi co ‘sto sindaco novo? Se ne riparla. La mia musica, la senti ancora? Tua? Mica è tua! Te lo rihordi Vivaldi? Eccome. E Hasse, che mi toccò fare le giunte a me? Devo andà a Firenze. Deh. No, ‘un mi di’ così.
Via, si ribeve.
Caldo, a Livorno, quella mattina. In qualche modo, ci s’è trascinati fino all’ora dell’appuntamento. Ha contribuito il signore che voleva vendere la barca sul canale, 35-40 mila euro, se ne riparlerà la prossima volta. Al momento, non ce li ho dietro. Poi la libraia, simpatica, che non aveva Marco Aurelio. Il barbiere, fermarsi a farsi spuntare i capelli? Magari, qui m’arrivano i vecchi clienti. O bimbo, sveglia, la guerra è finita. Deh, chissà, si chiedeva la giovane barista, cicalando con l’amica, dove si potrà mangiare una buona carbonara in città? In altri tempi, quand’ero ne’ mi’ cenci, gliela facevo io la carbonara. La sangrija la fate bona, però. O ‘sto sindaco novo?
Di nuovo alla stazione, l’appuntamento è lì. Sembra di stare in Messico. La macchina c’è, quindi entra. È lei, è proprio lei… che non si può dire.
Proprio non si può, troppo indietro le parole, solo gli occhi velati, le mani attraversate dal lampo. Sorrisi, baci, abbracci. Baci? Abbracci? Sarà il caso di ricordare meglio.
Insomma dove andiamo? Sul mare?
Lei, lei, lei.
Lei. Non c’è nient’altro, tutto sparito, ingoiato col mare di Livorno.
Seduti a cavalcioni sul parapetto sopra il mare, c’è finalmente tutto il tempo buono. Il tempo aperto. Non c’è più il tempo cattivo smanioso del giorno prima e della notte inutile e delle ore in giro per la città. Non c’è più il tempo che formicola nelle mani; questo sì che è il tempo bello.
Quello che fa sorridere. Ti senti una freccia lanciata sulle nuvole. È
tutta un’altra cosa.
Un pensiero continua a sbattere contro il vetro. Non lo vede, il vetro, e ci sbatte contro. Lui lo dice, ma a che serve? Il cuore sbattuto sul banco da macellaio, tagliato dalle reti a mare di Livorno.
Poi si mangia qualcosa, a un tavolo. Si riesce a ridere, a scherzare, a far spumeggiare qualche carezza. Durasse! Ora, domani, per sempre… E poi c’hanno anche il porto, che fortuna. Durasse…
Durasse… Ma le ore tornano a farsi cattive e il tempo viene avanti.
Perché? Prima era il tempo di guardare il mare. Adesso di tornare verso il treno. Perché?
Dignità, elemosina, rincorsa… schivare i colpi, non farsi schiavi… non ti disperdere, tieniti unita… mi ricorderai… parole. Parole amare, impregnate, sporche di salsedine. In macchina. Tante altre. Parole inutili che gli fa male anche pronunciare.
Mi sfidi?, lei gli chiede, dura. Ma quale sfida? Che stiamo dicendo, Gesù?
Perché sfidarti? La sfida, la stupida sfida, la soffriamo ogni giorno, da sempre. È in questo polveroso piazzale messicano, la sfida. Non sono qui per sfidarti. Al contrario. Sono qui per difenderti. Sono qui per te. Da mille anni sono qui per te.
Cominciato così, si finisce a discutere davanti alla stazione di Livorno.
Lui non ci riesce a fermare i singhiozzi. Allora, se è davvero così, non ci sentiamo più, non ci vediamo più. Non dobbiamo più nemmeno sapere se siamo vivi o se siamo morti. Che dolore, dirlo.
Siamo morti. Entra nella stazione con le mani che gli tremano forte.
Sbattono il rettangolo del biglietto. Un caffè ci vuole. Al bar. Cosa le ho detto, che cosa le ho detto… Sta per arrivare il suo treno.
Ma siamo morti. Sono morto. Mi hanno sparato, e sono morto. Nello scompartimento sdrucito, sottosopra, il controllore, stanco, nervoso, appare a metà viaggio. Si fruga nelle tasche. Biglietto…?
C’è quello di andata. Ma il ritorno? Dev’esser qui.
Il controllore sorride soddisfatto. Non ce l’ha signore, vero?
Una sequenza gli emerge negli occhi sempre più chiara. Il caffè bevuto di fretta. Il biglietto timbrato nella macchinetta. Il biglietto timbrato, lasciato dalle mani scosse sul banco, accanto alla tazzina.
Eh, va bene, signore, ma io debbo farle la multa. Perché, di fatto, lei il biglietto non ce l’ha. Nome? Cognome? Indirizzo?
Faccia, faccia pure. Gli porgo il passaporto, per la multa. Da quant’è, che me le fanno… che le pago… Già, ripeto guardando lontano dal finestrino, Il biglietto non ce l’ho. È proprio così. Forse non ce l’ho mai avuto, il biglietto per entrare.
E ora? che cosa succede ora?

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