Una bandiera per l’Umanità

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GIANNINO BALBIS

La prima chiave di lettura della nuova raccolta poetica di Gabriella Mongardi – Inventario in metrica, Giuliano Ladolfi Editore, settembre 2021 – è offerta dalla stessa autrice nel testo in esergo, con cui introduce la silloge e, nello stesso tempo, ne suggerisce una possibile sintesi a priori. Il testo si intitola Bandiere ed è ispirato al Canto d’amore e morte dell’alfiere Christoph Rilke di Rainer Maria Rilke, poema in prosa ritmica in cui il grande scrittore austriaco evoca la leggendaria figura di un presunto antenato morto combattendo contro i Turchi nel 1664. Ich trage die Fahne, “Io porto la bandiera”, è il grido di battaglia dell’antico alfiere ed è il primo verso della raccolta della Mongardi, a significare che anche lei si accinge, con i propri versi, a portare in guerra una bandiera: in quella guerra senza confine alla quale ci costringono i tempi nei quali viviamo e che va affrontata impugnando la bandiera della Vita e dell’Umanità, che ancora nessuno… ha disegnata, che nessuno… sventola e fa garrire. Credo che il messaggio principale di Inventario in metrica sia proprio in questa guerra da combattere, in questa bandiera da inventare, cucire e sventolare.

È un ambizioso e ammirevole progetto di engagement, dettato da profonda istanza morale. Progetto da condividere con tutto il mondo dell’arte e della cultura. Ma quanto mai arduo, sublimemente utopistico (come, nella lirica Nel deserto, i tappeti dagli arabeschi variopinti sui quali si può immaginare di sedere dopo la traversata del deserto): tanto più utopistico, poi, in quanto affidato a quella fragile e inascoltata ambasciatrice di verità nelle infinite tragedie del mondo che è, oggi più che mai, la poesia (i poeti sanno il peso / delle parole / e delle lacrime… il peso delle stelle / e della verità). Ne è consapevole l’autrice, che non a caso pone fra i primi testi della raccolta una Recusatio, nella quale confessa la propria inadeguatezza (Poeta è una parola larga, / troppo larga per le mie spalle… La mia penna si perde / fra nuvole e stelle). Ma si tratta, appunto, di una presa di distanza retorica, che vale sostanzialmente al contrario (e infatti, se qui Gabriella dice di non avere il necessario sguardo infallibile d’aquila, qualche pagina dopo, nell’Autoritratto, si definisce invece un’aquila che gioca col vento e sfida i vortici senza stordirsi): dunque la poesia, nonostante i suoi limiti e le sue fragilità, resta l’unico vero strumento di analisi profonda dell’io e del mondo, l’unico possibile linguaggio interculturale e, dunque, l’unica speranza di globalizzazione autentica, l’unica vera bandiera dell’Umanità. La poesia ovvero l’arte. Soltanto l’arte può riuscirci, non le ideologie positive della modernità (filosofie, religioni ecc.), men che meno la politica asservita al profitto economico. Solo l’arte. E quell’arte del sapere che è la scienza, quando è realmente ed esclusivamente finalizzata al bene dell’uomo.

Vale la pena allora di frugare in tutto quello che si ha in casa, nei risparmi di sapere accumulati in  anni di studio e di ricerca, nei cassetti dell’anima, nei bagagli dell’io, e di chiamare a raccolta i maestri e i modelli, silenziosi consiglieri e compagni di vita, per fare un inventario di quello che può essere recuperato, che può servire da arma ed armatura per la guerra, per la bandiera da portare in battaglia: un inventario fatto bene, con precisione e misura, in metrica, come dice il titolo della raccolta, che è anche il titolo della prima sezione e di una delle sue prime liriche. Un inventario dei tesori interiori, insomma, da fare con decisione e coraggio (in arsi, non in tesi – / in battere, non in levare –), per segnare un nuovo inizio, per dare intensità e fulgore alla pur breve luce di gennaio. È nel contesto di questa auto-esplorazione, di questo lavoro di selezione e riordinamento della biblioteca delle conoscenze e dei sentimenti, il vero senso del richiamo alla metrica: che è sì la metrica dei metri canonici e, in qualche caso, perfino delle rime, ma è prima di tutto la metrica dei ritmi interni, delle pulsazioni emotive e mentali, che vanno ricatalogate, rimesse al loro posto nell’equipaggiamento del nuovo aspirante alfiere-portabandiera.

Fanno parte dell’equipaggiamento, come è ovvio, molti scrittori e poeti: da Catullo (cui è intitolata la sezione finale, Velut flos) ai provenzali (evocati dagli accordi di ghironde nel finale di Non disturbare e dal profumo di lavanda in Baciami), da Pascoli a Eliot, da Rilke a Calvino e a molti altri. Al primo posto metterei però Leopardi: in sottotraccia il Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (proiettato su scala planetaria) e più esplicitamente il Leopardi della Ginestra, la cui eroica forza di rinascita si ritrova nella sassifraga che fiorisce dove la roccia / è più ripugnante / e verticale (Sassifraga dell’Argentera) o nei narcisi che si oppongono all’assalto della grandine (I narcisi e la grandine), e la cui dignitosa coscienza di nullità di fronte allo strapotere della Natura si ritrova nel fiore che impara a morire in silenzio / … contento / di essere stato (Come un fiore, il testo che, con questi versi, chiude mirabilmente la raccolta).

L’inventario non risulterà dunque da un frugare disordinato e casuale in cianfrusaglie di vita e di pensiero, ma sarà l’esito di una recherche guidata e ponderata, sufficientemente sicura del proprio itinerario e della propria meta. Sufficientemente, non pienamente: perché nessun intellettuale d’oggigiorno, neppure il più impegnato e onesto, neppure il più folle clone di Don Chisciotte, può permettersi il lusso della certezza assoluta, dell’illusione permanente. Ha sempre una guerra personale da vincere, mentre aspira a portare in campo aperto la bandiera dell’Umanità: la guerra contro la risorgente vocazione all’indifferenza (al falco alto levato di Montale la Mongardi sostituisce l’immagine del gatto nero… anima sovrana indifferente, nella lirica Il gatto e l’ambulanza), contro la tentazione della fuga nell’assenza e nella distanza / per non essere graffiati (Telo lunare), contro la sensazione di vivere in una perenne vigilia (Vigilia), in un guado senza fine (Il guado), dove si assottigliano gli appigli (Appigli) perché la vecchia scuola è finita / e per la nuova / non abbiamo maestri (Alla giusta distanza). E qualche volta allora, per vincere l’impasse, ci vuole il coraggio di rinunciare a sciogliere il nodo di Gordio, ovvero la risolutezza nel decidere di mettere da parte l’eccesso di intellettualismo e di passare all’azione, tagliare di netto il nodo con la lama di una spada di ghiaccio (Cesura). È lo stesso coraggio che occorre al lago di acqua ferma per chiedere nuova linfa al ruscello, puer aeternus che scorre, salta, scherza e chiacchiera (Accordo mancato). C’è in questa immagine, forse, il richiamo al saggio di James Hillman, ma, credo, per rovesciarne il significato in chiave pascoliana: il puer non è la condizione da cui bisogna affrancarsi per accedere alla realtà della vita, ma, al contrario, la condizione aurorale da ritrovare per ridare senso alla realtà degradata del mondo.

Come per Zvanì anche per Gabriella, allora, il punto di partenza della via della salvezza sarà nell’ingenua purezza del fanciullino (…Non più spingere forte l’altalena /… ma lasciarsi cullare / dal vento indifferente nella danza), nella sua sovrana leggerezza (che è di Pascoli ma anche di Calvino) capace di seminare bellezza  e dissolvere la crudeltà (Aprile e i ciliegi), e sarà nello stupore con cui l’animo-puer sa cogliere ed interpretare le epifanie di bellezza che miracolosamente punteggiano la banalità quotidiana (alle quali è in gran parte dedicata la sezione Sorprese): il silvestre tulipano, l’artemisia boreale, la clematide, la regale genziana gialla, la stella alpina, che appaiono improvvise sul sentiero dell’attesa, o l’Oratorio di Natale di Bach, che risuona in tutto il suo splendore geometrico nel bel mezzo di un mercato delle pulci, tra le cianfrusaglie / e i rimasugli delle vite altrui (Brocante de Noël).

L’aeternus puer, insomma, è l’aspirante alfiere-portabandiera che, prima di affrontare le guerre del mondo, deve superare i riti di iniziazione alle guerre dell’anima, dall’alfa all’omega (come recita il titolo della seconda sezione): guerre che sono, per così, dire riassunte e metaforizzate nel macro-tema dell’amore, che nella suddetta sezione L’alfa e l’omega è rappresentato in forma di viaggio, da un inizio ad una fine appunto, ed è ripreso nella sezione finale, Velut flos, ispirata ai versi del carme 11 di Catullo (…cecidit, veluti prati / ultimi flos, praetereunte postquam / tactus aratro est, “il mio amore è caduto come il fiore sul margine del prato dopo che è stato reciso dal passaggio dell’aratro”). Si parla di un viaggio nell’amore fra due persone – con tutte le sue tappe e sfumature: dall’eros (come lichene aderisce alla pietra / così vorrei aderire ai tuoi inguini) alla lontananza fisica (il paese lontano / dove abiti adesso – e non sei più lo stesso), dal desiderio al rimpianto (Com’erano belle, / com’erano fresche le rose…), dal distacco all’attesa (Ho cambiato casa, per non pensarti /…/ ma non ho smesso di aspettarti), fino alla separazione ultima nella morte (Questo corpo / senza respiro / senza battuti / senza sangue…) – ma si comprendono in esso e si sottintendono altri percorsi di iniziazione: in particolare quello nel tempo contro il Tempo (Il passo del Tempo, Trascrizione,  D’autunno ecc.) e quello nello spazio fisico (Mondovì con i suoi palazzi, la sua Piazza e le sue mongolfiere, i cieli lontani in cui migrano gli uccelli, l’Argentera ecc. ), a sua volta metafora delle molteplici occasioni, dimensioni e migrazioni dell’esistere.  E infine non può mancare la riflessione meta-linguistica, ovvero il viaggio della poesia nella poesia, nelle lingue che la poetessa possiede e vuole sottoporre a verifica attraverso una serie di splendide auto-traduzioni: dall’italiano al tedesco e al francese (Dal nulla al sogno > Vom Nichts zum Traum > Du Néant au Rêve), dal piemontese all’italiano (’Na cuèfa ’d nèggia > Un velo di nebbia) e ancora dall’italiano al tedesco e al francese (Nella pioggia > Beim Regen > Les rafales de la pluie). Per finire con il già citato tocco di latino catulliano. Non puri esercizi di stile, ma effetti personali dai quali l’alfiere non può separarsi e che perciò, preparando lo zaino, ripone con cura nella tasca più a portata di mano.

A questo punto l’alfiere è pronto a imbracciare la bandiera e partire. Non c’è più nulla da dire. Ora è il tempo per lui di mostrare il coraggio di tacere e finalmente di combattere, disposto anche a morire in silenzio, contento di essere stato l’alfiere che è stato.  Ich trage die Fahne! Io porto la bandiera!

(Gabriella Mongardi, Inventario in metrica, Giuliano Ladolfi editore 2021)