La lezione del passato per le sfide di oggi: ospitalità e accoglienza – 1

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STEFANO CASARINO

Il nostro tempo è funestato da problemi gravissimi: un mondo diventato improvvisamente troppo piccolo assiste impotente da una parte ai recenti, tremendi fatti di Bruxelles, Parigi, Nizza, Londra, Berlino, Barcellona e dall’altra a quasi ininterrotti naufragi, sbarchi, esodi di fortuna lungo tutte le coste del Mediterraneo.

Alti, troppo alti i costi di vite umane; difficile ragionare a caldo sul dolore e sulla rabbia che certe notizie immediatamente suscitano, estremamente arduo fare la tara delle tante speculazioni pseudoreligiose e pseudoideologiche che fanno di tutto per rinfocolare l’odio e lo scontro tra le civiltà. Dobbiamo, però, comunque provarci: e in ciò possiamo, dobbiamo farci aiutare dalla cultura, proprio da quegli studia humanitatis oggi così negletti, che invece ci danno indicazioni, suggerimenti: ci insegnano, insomma, ancora e davvero qualcosa di importante.

L’OSPITALITÀ NEL MONDO GRECO

Una regola che si può ricavare dallo studio della storia è che i popoli si spostano: la cultura occidentale, a esempio, è nata dall’incontro e dalla fusione delle popolazioni indoeuropee con quelle mediterranee. Una complessa serie di migrazioni, oggetto di svariate teorie che tentano di fornire spiegazioni circa le cause e la cronologia di ciò, ma che è pienamente attestata dagli studi linguistici di Georges Dumézil e di Emile Benveniste.

Dal riscontro di puntuali e costanti analogie siamo certi della parentela delle “lingue indoeuropee” e da tali studi ricaviamo indicazioni preziose per la comprensione della nascita e dell’evoluzione di concetti importanti. È il caso di “ospite”, la cui etimologia è stata analizzata da Benveniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee: il termine “hospes” è in stretta relazione col termine “hostis”, “nemico”, ma secondo lo studioso questo secondo significato di “ostilità, inimicizia” si origina nel tempo, giacché inizialmente predominava il valore unico di “ospitalità”.

Nessuna cultura più e meglio di quella della Grecia classica può aiutare a comprendere ciò, attraverso lo studio della lingua e della letteratura: in greco esiste una distinzione fondamentale tra ξένος (lo straniero di stirpe greca) e il βάρβαρος (“lo straniero due volte”: es. il Persiano).

La differenza è – ancora una volta – essenzialmente linguistica: per i Greci chi non parlava la loro lingua (o comunque una lingua affine alla loro) emetteva dei fonemi incomprensibili, dei “bar–bar”, da cui appunto il termine. L’affinità linguistica è, però, anche e soprattutto, riflesso di un’affinità culturale: si noti, a esempio, che Omero non definisce mai i Troiani “barbari”, proprio perché egli rappresenta una fondamentale condivisione di valori tra loro e gli Achei.

Il termine ξένος ha una doppia valenza semantica: significa sia “straniero” che “ospite”: i Greci hanno elaborato il particolare istituto della ξενία, della “ospitalità” appunto, al riguardo della quale scrive Benveniste: La xenia, posta sotto la protezione di Zeus Xenio, comporta scambio di doni tra i contraenti che dichiarano la loro intenzione di legare i loro discendenti con questo patto. È, cioè, un legame biunivoco, basato sulla piena reciprocità (l’ospitato diverrà a sua volta ospitante) e trasmesso all’interno del γένος, della famiglia: si eredita di padre in figlio, vincola i discendenti.

Lo si comprende leggendo nell’Iliade l’incontro di Glauco e Diomede (Il. VI, 119-236): dopo aver ascoltato le parole con le quali il primo ripercorre la storia della sua stirpe, l’eroe greco alla fine esclama: «Ma dunque tu sei ospite ereditario e antico per me»; e immediatamente , invece di venire alle armi, i due si scambiano doni ospitali.

Esisteva poi anche un importante istituto, quello della προξενία: il pròsseno (da pro + xenos, lett. davanti allo o a favore dello straniero) era residente in una città e scelto da un’altra città perché tutelasse gli interessi dei cittadini appartenenti a quest’ultima quando si recavano in visita alla prima: una sorta di antenato del nostro console o ambasciatore, insomma.

Il prosseno utilizzava tutta l’influenza di cui godeva nella sua polis per promuovere politiche di favore e di alleanza nei riguardi della città che rappresentava: come fece, a esempio, l’ateniese Cimone nei confronti di Sparta. Tornando all’ospitalità, nell’Odissea Omero ci fornisce i due paradigmi opposti, quello della piena accoglienza garantita dai Feaci e quello dell’assoluta ripulsa di ciò rappresentato da Polifemo. Nel primo caso sono degne di nota le parole che Nausicaa, la figlia del re dei Feaci, pronuncia per fare coraggio alle ancelle, fuggite via terrorizzate al solo apparire del “profugo” Odisseo: «Questi è un misero naufrago, che c’è capitato, e dobbiamo curarcene: vengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri» (Od. VI, 206-8); per l’altro basta rammentare l’atroce sorte che il Ciclope riserva agli sventurati compagni di Odisseo.

Il messaggio è chiaro: civile e umano (ispirato anche dalla devozione religiosa, si noti la citazione di Zeus Xénios, “protettore degli ospiti”) è chi pratica l’ospitalità; brutale e criminale (antropofago, addirittura) chi non la rispetta. Se si guarda poi alla storia greca, anche lì emergono con chiarezza due modelli opposti: quello spartano e quello ateniese. Serviamoci come “guida” di Plutarco, che nelle sue Vite parallele5 parla di due mitiche figure di sovrani, lo spartano Licurgo e l’ateniese Teseo. Del primo si legge (Plut. Vita di Licurgo, 27,6-9) che «non concesse ai suoi cittadini di vivere all’estero a proprio piacimento e di viaggiarvi, col pericolo di contrarre abitudini straniere e imitare il modo di vivere di popoli privi di educazione e retti da sistemi politici diversi dal loro. Anzi espulse da Sparta la folla degli oziosi che vi confluivano senza esercitare nessuna utile attività […] Licurgo stimò più necessario preservare la città dall’intrusione e dalla propagazione di cattivi costumi».

Un regime, quindi, chiuso, misoneista, che vieta ai suoi cittadini di viaggiare e di stabilirsi all’estero e che, con simmetrica coerenza, nega agli stranieri accoglienza e ospitalità, praticando la ξενηλασία, “il bando” o “la cacciata” degli stranieri: come si vede, “respingimenti” e roba del genere non sono affatto una novità. Tutt’altra la politica di Teseo (Plut. Vita di Teseo, 24 e 25): «Teseo concepì un piano grandioso e ammirevole. Radunò, cioè, ad abitare in città tutte le genti sparse per l’Attica, e di un popolo sino ad allora disunito, sordo ad ogni chiamata quando si trattava di interessi comuni, anzi, spesso sceso a litigi e talora a guerre intestine, egli fece una sola città. […] Nell’intento di ingrandire ulteriormente la città, invitò tutti a trasferirvisi alle medesime condizioni dei nativi. La frase: “Venite tutti qua, gente”, sarebbe stato il proclama di Teseo, quando dava assetto ad una popolazione eterogenea».

La sopravvivenza e la prosperità di Atene sono motivate dal suo essere sempre stata, da Teseo in poi, un formidabile “magnete” culturale, in grado di attirare gente della più diversa estrazione sociale, garantendo plurime forme di ospitalità: è il caso, a esempio, della figura del “meteco”, lo straniero che diventava residente, al quale erano riconosciuti pienamente i diritti civili (non però quelli politici) e che poteva far fortuna, arricchendo a sua volta la città che l’ospitava, sia economicamente che culturalmente.

Basta fare qualche nome: meteci furono Lisia⁸, il più importante oratore del genere giudiziario; Ippocrate, il padre della medicina; Erodoto, il padre della storiografia; e infine filosofi come Anassagora, Protagora e Aristotele. Atene fu consapevole e orgogliosa di questa sua identità di città ospitale, tanto da alimentare un vero e proprio mito.

Tucidide fa dire a Pericle nel suo Epitaffio ⁹: «(noi Ateniesi) offriamo la nostra città in comune a tutti, né avviene che qualche volta con le cacciate degli stranieri (ξενηλασίαις) noi impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa».

Esplicitamente qui si rivendica il mantenimento della tradizione dell’ospitalità, voluta da Teseo, anche in tempi certamente difficili (in piena guerra) e ci si contrappone a chi invece scaccia gli stranieri perché ha paura di loro: apertura e chiusura; inclusione ed esclusione, ancora una volta. Le prime derivano da un certo livello di civiltà e di consapevolezza culturale, le altre dall’esatto opposto.

Il tema di “Atene ospitale” diventa un leit-motiv di tutto il teatro greco, i tragediografi non perdono occasione per utilizzarlo ed esaltarlo. È ad Atene che Eschilo immagina che Oreste trovi rifugio e giustizia e che Euripide inventa il ricovero di Medea dopo l’uccisione dei propri figli, una volta che ella si è garantita l’ospitalità da parte del re Egeo, il padre di Teseo. Atene accoglie persino l’uomo più sciagurato di tutti, Edipo, l’autentico “scandalo” vivente, l’assassino del proprio padre e il marito della propria madre: nei versi del novantenne Sofocle l’ospitalissimo Teseo così lo accoglie: «Chi mai potrebbe respingere la benevolenza d’un uomo come lui, al quale per prima cosa è sempre aperto il nostro focolare, disposto a difendere l’ospite anche con le armi? Per giunta s’è presentato da noi come supplice degli dei, e ci paga un tributo non piccolo. Rispettoso di ciò, non rifiuterò mai la grazia ch’egli elargisce, anzi da noi gli darò residenza».

Nell’Ecuba di Euripide, la vecchia regina chiede e ottiene dal vincitore Agamennone la possibilità di vendicarsi di Polimestore, il re della Tracia che non ha rispettato la ξενία e le ha ucciso il figlio Polidoro, che lei e Priamo avevano mandato da lui come ospite con un grande tesoro. L’avido re viene attirato coi suoi due figli nella tenda di Ecuba con la falsa promessa di ricevere altro oro: sorpreso e immobilizzato, gli tocca assistere all’uccisione dei suoi figli e venire accecato. A lui che reclama giustizia contro Ecuba da parte di Agamennone così risponde il capo della spedizione achea: «Mi pesa giudicare i guai degli altri, ma è necessario: presa questa briga, sarebbe vergognoso declinarla. Sappi che, a mio parere, non per me né per gli Argivi tu ammazzasti l’ospite, ma per tenerti l’oro in casa tua. Sei nei guai, tiri l’acqua al tuo mulino. Forse uccidere un ospite (ξενοκτονεῖν) non conta nulla: per noi Greci è un’onta. Come evitare critiche, assolvendoti? Non posso. Ciò che osasti non è bello: ora soffri una sorte non gradita».

I Traci qui sono considerati βάρβαροι, “selvaggi”, “incivili”; l’omicidio dell’ospite è il crimine peggiore, quello più esecrato dai Greci. La condivisione di questa concezione dell’ospitalità non deve però farci occultare anche le contraddizioni e le “zone d’ombra” che anche nell’ospitale Atene del V sec. certamente esistettero: del resto, un’accurata opera di “demitizzazione” è stata operata da Luciano Canfora nel recente Il mondo di Atene. Ai fini del nostro discorso, se dalla tragedia ci si sposta alla commedia, negli Acarnesi di Aristofane troviamo la seguente battuta, detta dal protagonista Diceopoli:«Siamo tra di noi […]: non sono ancora presenti stranieri (ξένοι) e non sono arrivati né i tributi né gli alleati dalle loro città. Ma ora siamo noi soli, il fior fiore della farina: a mio parere, i meteci sono la crusca dei cittadini.

Né va ovviamente dimenticata la famosa legge sulla cittadinanza di Pericle (451 a.C.) che limitava solo ai figli di entrambi genitori ateniesi il godimento dei diritti politici, sociali ed economici connessi alla cittadinanza ateniese. In definitiva, mi pare equilibrato il giudizio di Cinzia Bearzot a riguardo dei meteci e, più in generale, riguardo alla condizione degli stranieri in Atene: «Lo straniero […] resta sempre ben distinto dal cittadino, ma può ricevere una serie di concessioni che ne migliorano la condizione e ne favoriscono, se non l’integrazione, almeno la sicura convivenza con i cittadini della comunità che più o meno stabilmente li ospita, nella misura in cui essi offrono a tale comunità prestazioni che essa riconosce utili, soprattutto di ambito economico».

(1- CONTINUA)

(foto di Bruna Bonino)