Dalla terra selvaggia del poeta irlandese Cathal O’Searcaigh

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Campi recintati

Laggiù oltre la scogliera
scorgo campi recintati
perdutamente sottosopra.
Se non fosse per le pecore
rannicchiate lì, premendo
come fermacarte,
sarebbero come foglie
spazzati via
nel nulla.

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Quando dicevi il mio nome

Quando dicevi il mio nome, amore,
in sommessi sospiri affettuosi, quello non era più il mio nome
ma il gladiolo in fiore
che ingiallisce nella bocca del vento.
Quando al cuore mi stringevi,
con forza selvaggia, io non esistevo più, diventavo
un ruscello d’estate
che sgorga e rompe gli argini.

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Domenica a Mín ’a Leá,
Domenica a Gaza

Una domenica gentile
a Mín ’a Leá
sono impassibile
nel giardino
la mia controparte a Gaza
corre a perdifiato
implora
di sfuggire
al prossimo attacco dei missili
alle esplosioni che seguiranno.
Una dolce indolente distesa domenica
a Mín ’a Leá
la notte scenderà in silenzio
la luna sorgerà
rilassata nell’aria
ma a Gaza
il cielo si accenderà
in fiamme brucianti
le abitazioni cadranno a pezzi
le ossa andranno in frantumi.
In questa tranquilla domenica
a Mín ’a Leá
com’è facile
affliggersi per Gaza
mentre siedo in giardino
comodo
e mi godo il profumo
dell’erba appena tagliata
senza un cruccio al mondo
se non scrivere una poesia.
Senza un cruccio al mondo
se non scrivere una poesia?

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Cathal O’Searcaigh, Dalla terra selvaggia, introduzione e traduzione dall’Irlandese di Gabriel Rosenstock, Edizioni Onslaught, Oxford 2016.
Copertina ed illustrazioni di Mathew Staunton.

Dall’introduzione:
«Cosa si intende per grande poesia? Cos’altro, se non una voce inconfondibile, in sintonia con l’intelligenza creativa dell’universo, voce che agli interrogativi eterni risponde attingendo a tutto ciò che è distillato da una vita vissuta da una mente sensibile e indagatrice, una mente che ha assorbito il meglio di quello che la propria tradizione nativa sa offrire, una mente aperta alla letteratura mondiale, che abita un organismo che vive e respira in un preciso ambiente, adesso, ma sottilmente consapevole della condizione umana precedente questo incontro con il tempo. Un poeta di oggi, ieri e degli anni a venire, consapevole del suo destino di poeta.
(…)
La voce di O’Searcaigh è la vera voce della poesia, una voce che rende l’oggetto dei suoi versi “vivo alla visione immaginativa”; vivo, si; una voce nella terra selvaggia, che non può vivere in alcun altro luogo.
(…)
Cathal non è mai stato più di tanto un animale politico, non avrebbe tempo per un Che Guevara o un combattente di guerriglia, né nel suo paese, né altrove nel mondo, ma gli interesserebbe sapere e lo consolerebbe il fatto che una voce proveniente da una terra selvaggia venga udita nel più improbabile dei luoghi. La voce di Cathal la si sente ora, a casa propria o nel mondo, e la si udirà sempre, ovunque la poesia si ami e ovunque di essa si senta il bisogno.
(…)
Non è certamente del tutto vero che lui sia un poeta apolitico, e il suo “Una cartolina a Yusuf in Iraq” merita un posto in ogni antologia di poesie contro la guerra. Inoltre scrivere in una lingua così poco parlata è esso stesso un atto politico. Asserisce la bellezza, l’integrità e la dignità di quelle vite che ritrovano voce e significato lontano dalla folla furiosa.
O’Searcaigh è una voce politica, inoltre, pur senza screditare pubblicamente nessuno, quando descrive le aree intorno a Gaeltacht, desolate a causa della disoccupazione e dell’ emigrazione e quando parla della apparente incapacità degli Irlandesi, come popolo, di conservare (per non dire poi fare rivivere) la loro lingua.
Se la delusione e la rabbia si percepiscono in molte delle poesie, c’è anche un senso di accettazione, un’accettazione che è più forte della provocazione, la quale sembra suggerire che tutto è destinato al bene. Il poeta non può che scegliere di accettare la propria vocazione e di sacrificare la vita per essa, insieme alla gioia, al dolore ed ai propri viaggi nell’ignoto.
(…)
Il compito del traduttore, nel caso di Cathal O’Searcaigh, sta nell’assorbire, ricreare o transcreare ciò che si vive nell’originale. Dicendo assorbire si intende, in questo caso, entrare nella vita della poesia, ipnoticamente, attraverso il fluire dei suoni. A questo proposito, tutte le traduzioni delle poesie irlandesi non raggiungono il bersaglio e non sono altro che un linguaggio come quello dei segni per i non udenti. Essendoci così pochi lettori di poesia irlandese, oggi, a chi, potremmo chiederci, si rivolge il poeta? A fantasmi, il più delle volte, colleghi poeti, artisti e scrittori di altri tempi, altri climi, o a giovani vittime della violenza in Medio Oriente; oppure si rivolge ad entità che non possono comprendere la sua lingua, come il Monte Errigal. E solo il rozzo materialista, razionalista, direbbe che quegli esseri sono indifferenti alle cose da lui proferite.
Il traduttore di O’ Searcaigh che traduce dall’irlandese all’inglese non può mai dimenticare che sta forgiando qualcosa dandole la forma di ciò che, dopo tutto, è la lingua storicamente imperialista, una lingua che minaccia di inghiottire l’irlandese e i suoi sotto dialetti. Infatti, O’Searcaigh potrebbe benissimo essere l’ultima voce dell’irlandese Min ‘a Leà. Per fortuna, esistono registrazioni della sua bellissima voce.»

Traduzioni di Marika Mangini (esclusa la poesia “Domenica a Mín ’a Leá, Domenica a Gaza” tradotta da Silvia Pio)

Cathal Ó Searcaigh  in Mín a' Leá

Cathal Ó Searcaigh nella sua Mín a’ Leá

Cathal Ó Searcaigh (nato nel 1956 a Donegal) è considerato uno dei maggiori poeti moderni in lingua irlandese.

https://en.wikipedia.org/wiki/Cathal_%C3%93_Searcaigh

Gabriel Rosenstock in Margutte:
Uttering Her Name
Proferire il Suo nome

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