Giuseppe Griseri. Due ricordi.

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APOTOS & L.BARBERIS

Margutte rende omaggio al prof Giuseppe Griseri, recentemente scomparso, con questi due ricordi dell’insigne studioso che ha lasciato un segno (appunto) su più generazioni di liceali monregalesi. Il giovane professore nelle parole di Apotos, il preside in quelle di Barberis (suo anche il disegno di copertina). Un ricordo del prof. Griseri si terrà inoltre il prossimo 25 settembre, presso il castello di Rocca de’ Baldi, organizzato dal prof. Rinaldo Comba dell’università di Milano.

IL GRISO,  IL PROFESSORE E LA SUA INCOMPIUTA.

(APOTOS, La Piazza grande, n. 28 – anno XXVIII – 30.8.2016, pag 18)

Il Griso. Per noi del terzo anno del liceo classico (anno scolastico 1966/67)  era stato dal primo giorno di scuola il Griso. Niente a che vedere con il capo dei bravi al servizio di Don Rodrigo nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.

Una semplice storpiatura del cognome del giovane professore monregalese che era arrivato da un liceo lontano (La Spezia?), come eravamo soliti storpiare i cognomi dei compagni di scuola perché, in fondo, lo sentivamo uno di noi.

Il Maestro Michelangelo Giusta ci aveva lasciato per l’Università di Torino dopo appena un anno che l’avevamo conosciuto e il suo carisma ancor ci accompagnava, come modello di riferimento. Ma dai suoi successori nelle materie umanistiche trasparivano “ampi margini di miglioramento”, per usare il linguaggio che ho poi imparato nei corsi di management alcuni decenni dopo. Allora, il giudizio di noi studenti di seconda liceo classico nei loro confronti era ben più sbrigativo e di sintesi gergale. Di latino e greco ci era capitato un transeunte dalla provincia di Torino e che colà mirava di tornare, che non preparava le lezioni e improvvisava; nella cultura, come nel business, puoi vivere di rendita se hai il capitale e il nostro non ce l’aveva per niente. Tanto per dire, la frase latina (vi dispenso dall’originale completo) “separare il grano dalla paglia (palea)” diventava, nella sua traduzione a braccio, “caricare il grano con la pala”. Con ironia avevamo iniziato e, nel corso dell’anno, avevamo continuato con sarcasmo a chiamarlo l’Ottimo; chi aveva studiato seriamente con il Maestro traduceva di rendita e gli altri andavano a ripetizione.

Di italiano, in seconda liceo, eravamo capitati sotto le grinfie di una virago neo laureata (e anche lei transeunte, con l’obiettivo di approdare l’anno successivo in una scuola superiore della sua provincia di residenza) che aveva pensato di applicare come guideline didattica il motto dell’imperatore Caligola “oderint dum metuant”. Obiettivo raggiunto solo al 50%: l’abbiamo odiata – parecchio – senza temerla.

Intanto, il mondo si muoveva e il 68 già lo sentimmo venire, come l’autunno nella poesia di Vincenzo Cardarelli. Avevamo tante domande e, purtroppo, non trovavamo le risposte nel vento, come suggeriva Bob Dylan nella sua canzone. Le cercavamo dai professori ma non le trovavamo. Il professore di filosofia era di lungo corso, persona per bene e anche, a suo modo, un personaggio, con le Giubek spezzate a metà e fumate di corsa nell’intervallo (la legge anti fumo era lontanissima da venire), i suoi disegni alla lavagna per spiegare Platone, i suoi – noiosissimi – racconti di quando aveva fatto il militare. Ma se gli chiedevi come mai in Italia non c’era ancora il divorzio, si faceva il segno della croce e una volta aveva confuso Marcuse con il dottor Mabuse.

Ai più irrequieti di noi quella scuola stava stretta, ci mancava qualcosa e aspettavamo qualcuno che ci rassicurasse che il mondo della scuola poteva essere anche un’altra cosa. Per me, che ero il più irrequieto tra gli irrequieti, questo qualcuno fu il Griso. Scattò un feeling che conservai nei suoi confronti fino al giorno in cui ci ha lasciati (il 25 luglio di quest’anno) e che nel mio cuore conservo ancora, intatto. Le sue lezioni erano conversazioni, univa ascolto e sollecitazioni a riflettere e a vedere tutti i lati del prisma del reale. Nessuna domanda lo imbarazzava, accettava la discussione, invitava ad approfondire e ci faceva cambiare idea, se era il caso, ma con procedere maieutico, con mite autorevolezza e senza ombra di autoritarismo.

Per noi era anche l’anno dell’esame di maturità, che a quel tempo voleva dire un casino di scritti, tutte le materie (una decina) più i riferimenti dei due anni precedenti. Una dura prova, così la ricordiamo ancora, a distanza di quasi 50 anni. E il Griso ci aveva guidato, con la preparazione puntuale e completa nelle sue materie e poi da membro interno, con serenità, rassicurandoci, senza creare ansie e se, le vedeva in qualcuno di noi, ci aiutava a superarle.

L’esame di maturità era stato un exploit per i risultati di alcuni di noi e, in generale, per tutta la nostra classe.

Eravamo poi passati, in gruppo, a salutarlo, con gratitudine,  sull’aia della casa colonica dei suoi genitori e, trascorsa l’estate, ognuno di noi aveva scelto la sua strada. La mia aveva incontrato, ma era destino, il 68 in cui ho militato con anima e corpo, condividendo speranze, illusioni e più tardi delusioni e disillusioni. E il Griso l’avevo trovato vicino, seppur lontano, nelle sue riflessioni su quanto di nuovo stava portando il movimento studentesco, che sviluppava sui giornali a cui collaborava. A livello nazionale, tra i leader della Democrazia Cristiana solo Aldo Moro aveva guardato a noi giovani con attenzione. Ricordo ancora un articolo (del 1970 o giù di lì) di Adolfo Sarti sulla Vedetta, il settimanale della DC della provincia di Cuneo che rimproverava il professore di mettere sempre il 68 nei suoi articoli come se fosse il prezzemolo nelle pietanze. “E basta Griseri” aveva scritto testualmente.

Ci eravamo poi persi di vista per ritrovarci, vent’anni dopo, fianco a fianco a un pranzo di storici (io ero un imbucato e in quell’occasione avevo capito che tra lo storico – per diletto qual ero io – e uno storico – comme il faut – qual era il Griso c’era un abisso). Avevamo parlato a lungo del periodo giolittiano a Mondovì, che avevo studiato da dilettante, e delle forti personalità di quel periodo: il sindaco Giovanni Antonio Comino, il leader socialista Giovanni Antonio Gallizio – sindaco nel 1912 e 13 - il liberale Guido Viale e l’avvocato Giovanni Battista Bertone, primo sindaco cattolico del Piemonte nel 1910, che fu poi tra i fondatori del Partito Popolare, uomo di governo con Giolitti e Facta e nel secondo dopoguerra di nuovo al governo con De Gasperi. Il professore, tra le molte altre ricerche in corso, aveva in mente di scrivere una biografia di G.B. Bertone ed io ero entusiasta di questo suo progetto e gli avevo augurato di pubblicarla con la UTET nella collana “La vita sociale della nuova Italia”. Da allora, quando avevamo occasione di incontrarci (a convegni di storia, alla fiera dei libri a Cherasco o semplicemente incrociandoci per la strada) la conversazione era un Bertone’s speaking e le nostre rispettive mogli dovevano richiamarci agli impegni di genitori o di nonni che ci attendevano per quel che restava di quel giorno.

Nel 2009 il professore pubblicò, in un quaderno monografico degli “Studi Monregalesi” la prima parte della – da me – agognata biografia con il titolo ”Giovanni Battista Bertone e l’ingresso dei cattolici in Parlamento (1905 -1919)”. Gliene fui grato ma non mi bastava: Quante volte gli ho in seguito domandato “Professore, quando la concludi?” e lui mi elencava tutte le altre ricerche che aveva in corso (e che hanno dato origine a molte pubblicazioni) ma, al tempo stesso, mi rassicurava che continuava a lavorare a quel progetto. L’annuncio, all’inizio di quest’anno, di una sua conferenza sull’uomo politico monregalese era stata per me una lieta novella, purtroppo rattristata dal leggere che era stata spostata per problemi di salute del relatore. Mi ero recato a Piazza Maggiore per la seconda data della conferenza ma sulla porta del Centro Studi monregalesi avevo letto, con preoccupazione, che era stata annullata per problemi di salute del relatore.

L’avevo ancora  visto un mese dopo, da lontano, passando in macchina, con il suo cappello e il suo impermeabile, elegante, distinto e solo leggermente curvo; mi ero rallegrato di vederlo “fuori dal letto” come si diceva un tempo in Piemonte.

Ogni volta che, in questi anni, ho avuto occasione di incontrare la sua sposa ho rinnovato la raccomandazione “Dica al professore di terminare la biografia di G.B. Bertone”.

Ora che non è più tra noi, un modo per farlo sentire a noi vicino è che qualcuno – storico comme il faut, com’era lui – prenda in mano le sue carte (stava seguendo almeno tre diversi filoni di ricerche), le ordini e le pubblichi.

Ciao Griso, ciao Professore, con tanto affetto.

IL PRESIDE GRISERI.

LORENZO BARBERIS

La mia conoscenza del professor Giuseppe Griseri è legata all’ultima fase della sua carriera d’insegnante, quando ricoprì il ruolo di preside del Liceo Scientifico di Mondovì, il “Giambattista Vasco”; anche se naturalmente ne apprezzai molto, in seguito, anche l’attività di storico particolarmente acuto e preciso, come chiunque abbia un qualche interesse per la storia monregalese.

Griseri preside si presentava a noi studenti degli anni ’90 come un gentiluomo d’altri tempi, quasi ottocentesco, sempre formale in grisaglia (omen nomen) ma con un fondo di garbata ironia. Svolgeva il ruolo di preside con attenzione, com’era possibile in quell’epoca scolasticamente felice, dove ad ogni istituto corrispondeva un singolo preside. Ci fermava per informarsi dei nostri studi nei corridoi, o anche fuori (soprattutto quando lo incrociavo in biblioteca, anche dopo la fine dei miei studi liceali). Consegnava le pagelle personalmente: nel mio caso ricordo del primo quadrimestre di prima, quando aveva ironizzato – con bonario richiamo – sul mio doppio voto di latino, 5 di orale e 8 di scritto (studiavo poco gli elenchi di eccezioni, ma me la cavavo con le facili traduzioni del biennio); quando, come rappresentante degli studenti, avevo contestato in consiglio di classe non so più che scomodità della nostra aula, aveva replicato che mi trovavo in un edificio storico, dovevamo adattarci ed apprezzare.

Nelle inevitabili vignette clandestine sui professori, Griseri rimaneva sullo sfondo come la mente di quella organizzazione diabolica che era il corpo docente. Per sorta di prudenza carbonara lo avevo rinominato Grayson (con una maccheronica traslazione in inglese dell’etimologia del nome, come del resto gli altri docenti), e lo immaginavo sempre alla presa con qualche cervellotica “sperimentazione scolastica”. Qualche – cauta – vignetta la pubblicai anche sul giornalino d’istituto, che lui aveva voluto, assieme ai docenti di Lettere, anche in risposta ai cugini del Classico, che avevano rispolverato il loro glorioso “Asino Rampante” (come quella in copertina).

Soprattutto nel triennio, infatti, serpeggiava una certa polemica tra gli studenti sull’indirizzo sperimentale che aveva voluto imprimere allo Scientifico dei nostri anni, potenziando le materie appunto specificamente scientifiche, matematica e fisica (lui coltissimo umanista). Lo Scientifico subiva infatti l’inedita concorrenza del Liceo Scientifico-Tecnologico (“senza latino!” esclamavano esterrefatti alcuni docenti, come di fronte ad una incomprensibile eresia). Nella sua concezione molto seria della scuola, la risposta – certamente giusta, ma allora sgradita a noi futuri studenti di Lettere Moderne e similari – era stata rafforzare la severità dello scientifico storico, potenziando i programmi anche in connessione col Politecnico che, allora, fioriva in città (e dove finiva circa la metà degli allievi delle nostre classi, tra Architettura e Ingegneria).

Griseri andò in pensione l’anno della mia maturità. Da studente di Lettere ne seguii con interesse la preziosa attività di studioso, come detto: ma per me rimase soprattutto il Preside per antonomasia, l’idea platonica del Preside che mi viene in mente quando penso al concetto come archetipo slegato da una singola persona. Credo che capiti un po’ a tutti coi propri docenti, ovviamente: lui però era davvero perfetto nel ruolo.