Una “Tosca” fra tradizione e innovazione

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STEFANO CASARINO.

Assistere a teatro ad una rappresentazione di Tosca, una delle opere più popolari e di maggiore impatto, è sempre un piacere per chi già la conosce e può rivelarsi un’autentica scoperta per chi per la prima volta si accosta al particolarissimo mondo del melodramma.

A patto però che, almeno a parere di chi scrive, ci siano:
-  una regia sufficientemente rispettosa del libretto;
-  costumi del pari consoni, senza quelle follie pseudomodernistiche che troppo spesso inquinano i teatri;
-  un suono dell’orchestra pieno ed avvolgente, con un direttore che si metta al servizio di Puccini;
-  un cast adeguato, in grado di far cogliere la bellezza (e la difficoltà) del canto e dell’interpretazione.

Quattro requisiti pienamente rispettati da quanto è andato in scena domenica 8 maggio alla pomeridiana del Carlo Felice a Genova: la scena mobile costituita da una sorta di prisma inclinato di marmo bianco (il regista Davide Livermore ha forse inteso rendere omaggio al genovesissimo Lele Luzzati, straordinario ed indimenticato maestro delle scenografie mobili?) si è adattata perfettamente a raffigurare l’interno della Chiesa di Sant’Andrea della Valle – l’ambientazione del Primo Atto – e l’esterno degli spalti di Castel Sant’Angelo – quella del Terzo Atto –, ma decisamente meno alla sala da pranzo del barone Scarpia a Palazzo Farnese. I costumi erano proprio quelli tradizionali di inizio Ottocento (Deo gratias!); l’orchestra, diretta da Dimitri Jurowski, ha suonato benissimo, evidenziando magistralmente i momenti salienti della partitura (tra quelli indimenticabili il Te Deum conclusivo del Primo Atto e lo splendido esordio del Terzo).

Ma l’opera è opera se i cantanti sanno cantare e recitare parimenti bene: e in questo caso siamo stati particolarmente fortunati, noi settanta monregalesi (tra studenti liceali e loro familiari, docenti e appassionati) che abbiamo avuto tale opportunità grazie al “Progetto Teatrando”, curato ormai da anni dal Liceo Vasco-Beccaria-Govone di Mondovì.

Bravi coloro che interpretavano le pur importanti parti minori: dall’Angelotti di Giovanni Battista Parodi allo Spoletta di Enrico Salsi; dallo Sciarrone di Raffaele Pisani al carceriere di Filippo Balestra. Menzione particolare per la gradevole voce bianca del Pastorello e per la caratterizzazione misuratamente comica del Sagrestano realizzata da Matteo Peirone.

Veniamo ai tre ruoli di spicco, quelli che assorbono in maniera quasi esclusiva l’attenzione del pubblico: in quest’opera c’è uno dei più memorabili ruoli di “cattivo”, il barone Scarpia, lo spregevole capo della polizia pontificia, assolutamente privo di scrupoli e di moralità, di pietà e di lealtà.

Per interpretarlo ci vuole una voce particolarissima, che possegga le sfumature della falsa galanteria, della subdola insinuazione, della potenza sprezzante, dell’agonia strozzata: un autentica sfida interpretativa che non ha sempre visto vincente il baritono Angelo Veccia, talora parso un po’ a disagio, ma comunque sempre corretto e “in parte”.

Migliore, anche se non sempre aderente al tremendo ruolo della protagonista, la prestazione di Amarilli Nizza: il timbro non particolarmente bello della voce è stato compensato dal coinvolgimento interpretativo, con momenti migliori nei duetti e nelle soluzioni di forza piuttosto che nella celeberrima aria “Vissi d’arte” che avrebbe richiesto una maggiore trepidazione.

Trionfatore assoluto è risultato certamente Francesco Meli: chi scrive considera un privilegio averlo visto e sentito finalmente dal vivo – dopo averlo ascoltato tante volte in registrazioni e nella ripresa televisiva dell’inaugurazione scaligera del dicembre 2015 nella “Giovanna d’Arco” di Giuseppe Verdi.

Meli debuttava come Mario Cavaradossi: dopo anni di belcantismo, ora è venuto per lui anche il tempo per Verdi e Puccini, cioè per ruoli più drammatici. Dal “Recondita armonia” iniziale sino al “E lucean le stelle” – bissato a furor di popolo, per l’impeccabile esecuzione, il magistero tecnico nell’impiego della mezza voce e l’incredibile pathos che ha saputo trasmettere (chi ha voglia di ascoltarla può andare su https://www.youtube.com/watch?v=dw2a_6izOsk) – tutta la sua interpretazione ha scosso gli spettatori e resta impressa nel ricordo come una magnifica prova di bellezza vocale e di intelligenza scenica.

Il genovese Meli cantava nel “suo” teatro: ha risposto con generosità al calore del pubblico, lo ha ammaliato nelle parti più liriche e lo ha gratificato con lo squillo luminoso di alcuni acuti, privilegiando però sempre la dolcezza alle soluzioni di pura forza.

Un Cavaradossi esemplare, intenso e malinconico, appassionato e struggente: interpretato così, “l’amante di Tosca” è diventato anche l’”amante”, il beniamino del pubblico.

QUI alcune “Note a margine sulla Tosca”