Mi spezzo alla luminosità perduta

angelo

La poesia di Paola Musa

Nell’ora in cui

Nell’ora in cui
i nomi indugiano tra i sensi
alzarsi
per affacciarsi ad est.

Sentire bruma nella bocca
occhi come pozzi
su cui scende l’umido
dei prati
l’alito acerbo dei papaveri.

Sotto la tangenziale
una sirena ora guizza
tra le onde dei muri,
frantumandosi.

Dal tremolio delle finestre
mi spezzo alla luminosità perduta
di tante primavere di paese
tra collina e nulla,
quando il mare giaceva su di me,
il mio principe.

La mia mano scava ancora nell’aria
con mosse da vecchio illusionista
rimestando immagini ormai infrante.

Uno stinto azzurro irrompe tra le imposte
con gli accordi dell’alba.

***

La misera consolazione della specie

Noi fummo tra quelli che irruppero
scardinando il nulla
senza porte e pareti.

Tracciammo con stupore
la nostra incerta fede
tra le scintille stinte
di una vita incarnata

senza sapere esattamente
senza sapere davvero
quanto tempo era passato
quanto tempo fosse già corrotto
tra l’istante in cui irrompemmo
e quello in cui abitammo

e se fossimo davvero noi gli arbitri,
gli eredi incontrastati della terra
i detentori del vero, o invero

gli impostori, gli ingannati, magari,
giacché nel tripudio d’infiniti mondi
solo uno fu nostro, e in questo

il cielo è ancora una trincea
contro il quale scagliamo ciechi
i salmi dell’abbandono.

Spezziamo la tiepida ferocia
del patto tra Dio e uomo
che langue, grumo nero,
sul volto della palude.

Ci basti la misera consolazione della specie
che nel sangue ha disegnato i suoi limiti
e se evolve in un punto
è già involuto in un altro.

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Il tuo nuovo vestito

La profezia di un’ora senza fame e avvento,
masticando soltanto la fragranza della terra
eletta ancora a ventre e senso.
Obliata la tenebra,
smarrito il pendio da cui precipitasti,
nell’accecante stupore dell’ora meridiana
lasciare camminare una formica
sulla foglia della mano,
la brezza orchestrare le note delle fronde
le api affollarsi sul nettare annegato
dei tuoi vasi.

I nomi delle cose già dispersi nelle falde.
Dissolti i volti amati in un nuovo alfabeto.
Vaghe immagini da pietra a pietra
conversando, senza più domandare.
Non una curva,
un sentiero in cui smarrire ora,
o stupire all’improvviso.

Udire solo una voce di madre
canterellare, mentre cuce
il tuo nuovo vestito.

***

Venendo da dove

Venendo da dove.
quando nessuno ti ha chiamato
ma si ostina a cercarti.

Non hai contorni, breccia, orma –
ma scavata nell’aria appari,
tra musica e verbo,
una sosta.

Riposata nell’altro
non sapendo come

un tacere che intesse
lo sguardo caduto
e quello nascente,

venendo da dove.

***

I transiti

Nel sottofondo di tutti i nostri ieri
la vita già passata
si smercia dal monotono megafono
di un deflusso calcolato.

I nostri volti si appannano,
seguiamo con fiducia
le regole dei transiti.

L’influsso di un pianeta dispettoso
sfrega il dito contro un vetro in partenza
e nel vapore compare il nostro nome.
Resterà incolume, per nostra distrazione.

Non si potrebbe in alcun caso più indugiare.
Occorre salire con passo più deciso,
accelerare e non guardarsi
a destra e a manca.

È tutto risaputo, ma il megafono ripete:
sostare non si può.
Non transenniamo, ingombranti,
il compito dei transiti.

Un’ombra alla nuca però
ci assale a tradimento, e ci voltiamo.

Fugaci assistiamo
alla macchia di vernice
che da noi si stacca,
l’intonaco di un gesto,
i lineamenti rubati ad uno specchio
la frase che sembrava assomigliarci
l’io ancora tronfio d’intenzione,
schiacciati da un passante distratto
che transita un po’ dopo.

Vorremmo chinarci, indugiare,
fissare finalmente
con oggettiva e lucida coscienza
quanto di perduto ci appartiene.

Ma nei transiti sostare non si può,
e la volontà del caso
è una veloce spazzina.

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Cos’era

Ci è avanzato del pane.
Un bicchiere sbeccato.
Qualche sedia vuota.

La fronte che preme sul palmo.
Il gomito, il collo, la notte.
Un grigio lenzuolo di fatti.

Il profilo di un corpo.
Un vetro coperto di schiene.
Un sussurro, una scarpa.

Una porta sbattuta.
Il pomello nel pugno.
Un non essere certi
se andati o rimasti.

Nessun aggettivo che afferri cos’era,
- e com’era.

Più nomi, che verbi,
più impersonali,
che indicativi.

E dei nomi
solo il vago ronzio
che crepita lento all’altezza degli occhi

si sfibra

graffiato da lame di ciglia.

***

In questo debito di tempo

Ciò che vale ma non si avvalora
che si appresta e non si compie
che crepita ma è spento
in questo debito di tempo
dilazionato in giuramenti.

Dalle finestre di ogni sguardo
solo il soffio tremolante degli infissi,
un sibilo d’intenti
s’increspa e si disperde
perché stanca essere, sostare,
o trattenere l’altro in tanta fragile presenza.

Abbiamo visto tanto, ci siamo mostrati.
Ma anche veduti non ci siamo soffermati.

L’astro morente del nostro io
pulsa nello spazio dei ricordi
il suo idioma intraducibile.

Così, per rimpiangere vaghiamo:
issando bandiere sugli anni senza nome
sui volti già sbiaditi
che credemmo eterni,
orbitando inquieti
intorno a ciò che è stato.

***

Le statue

Dispotica bellezza sitibonda di epoche,
ci sopravvive il cimelio silenzioso.

Residui di memorie e di potere ovunque,
inganno della storia sul peso di altre pietre
varcate dal bagliore effimero del giorno.

Nei ponti che hanno i fasti del passato
le statue si ergono con le orbite vuote
divenute ricovero di uccelli.

Poco oltre, la tangenziale –
finestre corvine senza sguardo
ricurve nel frastuono di se stesse

e la nuova scultura palpitante di genti
che smussa nel grigio un credo,
un inno, o una bestemmia.

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La china del verbo

Ho la fatica degli argini
la cieca resistenza al compimento
un’ombra tra narici e labbra
mi esonda in respiro.

La china del verbo
che ho diviso come pane
ha gore tra i ciottoli,
è acqua lenta in mezzo ai sassi.

A tratti riluce nel fango
nello stupore di strade sterrate.

Intervista a Paola Musa

Com’è la tua vita di scrittrice?
È una vita normalissima, se togliamo l’ansia e il senso di vuoto che si avverte quando si termina un lavoro e se ne inizia un altro. Non sono comunque una persona ossessionata dalla scrittura, forse per questo ho cominciato a pubblicare molto tardi nella mia vita. Ho la fortuna però di avere sempre voglia di sperimentare, attraverso generi tra i più disparati, altrimenti mi annoio. Ultimamente mi sono dedicata molto di più alla narrativa, anche perché, purtroppo, la poesia è difficile da diffondere e pubblicare.

Come  quando è nata la tua poesia?
Scrivo poesie dall’età di nove anni. Il segno della mia scrittura deriva proprio dalla poesia. La mia maestra elementare ha incoraggiato subito la mia sensibilità e capacità di trasporla in versi. Era un mezzo per rendere decifrabile a me stessa il mio senso di stare al mondo, e tuttora, tra tutte i vari generi di scrittura in cui mi cimento, solo la poesia continua a mantenere questo senso misterioso di rivelazione ed epifania del mio più profondo sentire. Col tempo anche in poesia però ho cercato di raccontare la mia versione del sociale. Il mio “battesimo” in questo senso l’ho ricevuto giovanissima: avevo appena 18 anni quando sono stata invitata al premio internazionale di poesia “Il Minatore”, con poeti del calibro di Walter Perrie, Waldo Rojas  e Richard Berengarten. Loro ovviamente già pubblicavano, io ancora mi portavo in giro il mio quadernetto da adolescente. È stata un’esperienza incredibile, che mi ha anche un po’ spaventata. Non mi sentivo pronta.

Quali sono i temi e quale la poetica?
I temi sono cambiati, nel tempo. Inizialmente ero fortemente ermetica e proiettata soltanto sul mio sentire. Poi si è sviluppata una forte capacità di osservazione del mondo circostante, e la pratica nella scrittura narrativa mi ha aiutata a usare a trovare ciò che da sempre andavo cercando: una densa semplicità espressiva, senza mai rinunciare al ritmo e alla musicalità, elementi per me imprescindibili, nella poesia. La poetica più “sociale” si può trovare nella raccolta “Ore venti e trenta”, pubblicata nel 2012 da Albeggi edizioni. Le poesie invece più personali hanno lo scopo di creare una sintesi estetica e contenutistica su una condizione esistenziale elaborata non più come esperienza personale, ma come condizione umana condivisibile. Questa credo sia la ragione per cui non scrivo poesia così coerentemente e costantemente come faccio con la prosa: attendo che arrivi il momento, magari per riprendere vecchi versi che ancora non mi soddisfacevano. Ci lavoro soltanto se ho trovato la corrispondenza tra il processo e la definizione di ciò che sto esplorando.

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Paola Musa è nata in Sardegna e vive a Roma. È scrittrice, traduttrice, poetessa, paroliere. Ha ottenuto diversi riconoscimenti in ambito poetico. Collabora da anni con numerosi musicisti come paroliere. Ha firmato diverse canzoni per Nicky Nicolai insieme a Stefano Di Battista e Dario Rosciglione. Per il teatro ha composto le liriche per la commedia musicale Datemi tre caravelle (interpretata da Alessandro Preziosi, con musiche di Stefano Di Battista) e La dodicesima notte di William Shakespeare (per la regia di Armando Pugliese, sulla musica di Ludovico Einaudi).  Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, Condominio occidentale (Salerno Editrice), selezionato al Festival du Premier Roman de Chambery e al Premio Primo Romanzo Città di Cuneo.Ha scritto con Tiziana Sensi la versione teatrale del romanzo, portato in scena in vari teatri romani da attori non vedenti e ipovedenti. Lo spettacolo ha ottenuto la medaglia del Presidente della Repubblica e la menzione speciale per il teatro al Premio Anima. Condominio occidentale è diventato anche un film per la Rai con il titolo Una casa nel cuore (2015). Nel giugno 2009 è uscito il suo secondo romanzo Il terzo corpo dell’amore (Salerno Editrice). Nel marzo 2012 è stato pubblicato il suo primo libro di poesie intitolato Ore venti e trenta (Albeggi edizioni). Con Arkadia Editore ha pubblicato nel 2014 il romanzo Quelli che restano, e nel 2016 Go Max go – romanzo musicale. Sue raccolte di poesie sono apparse in volumi e riviste (Fermenti, Arpanet 2005, con prefazione di Elisabetta Sgarbi; Italian Poetry Review Vol. VI; Versante ripido, Poetarumsilva, Meditarranean Poetry,  Mosaici – Learned Online Journal of Italian Poetry). Ha tradotto diverse poesie del poeta inglese Richard Berengarten.

https://www.facebook.com/paola.musa
http://www.versanteripido.it/due-poesie-di-paola-musa/ -
http://www.odyssey.pm/?p=1708

(Foto: Bruna Bonino)

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