La volpe di Prato Nevoso

Zanotti nevicata

MANUELA ZANOTTI.

Nevicava forte quella sera. Nella roulotte, invece, regnava una calda intimità. Mamma stava preparando la minestra e Papà mi spiegava le  immagini di una rivista: era la famosa “Pikappa” di Peter Colosimo che parlava di civiltà misteriose e di segreti dell’Universo, una di quelle che stavano lassù, in uno sportello in legno. Suscitava un certo qual interesse quell’armadietto pensile pieno dei giornali di Papà, ma per me era irraggiungibile, mi fossi anche messa in piedi sul divanetto!

In roulotte portavo babbucce di panno scozzesi: un insieme di tinte calde che rendeva ancor più l’idea del tepore in mezzo alla tormenta. Sì, perché quella che c’era fuori era una vera tormenta. Al di là dei vetri ghiacciati a stento si vedeva il muro della casupola che gli uomini degli impianti usavano per ricoverarci gli attrezzi. C’era anche una tettoia per gli spazzaneve e i battipista. Li sentivo partire la sera con quel rumore meccanico, i lampi di luce gialla saettanti dal tettino, il rumore dei cingoli sulla neve ghiacciata. Andavano a battere le molte piste di Prato Nevoso, le stesse sulle quali di giorno mi “lanciavo” con i miei piccoli sci di legno verniciato di rosso ( a dire il vero, scendevo solo dalla pista del “baby”…).

Ora, assieme a quelli lunghi di Mamma e Papà, i miei sci dovevano essere fuori. Invece il bel completino rosso imbottito, con il cappuccio e l’interno di lana bianca, (quasi da Cappuccetto Rosso), Mamma, dopo averlo asciugato vicino alla stufa, l’aveva messo a riposare nell’armadio e pure i guanti, il berrettino di lana rossa che finiva con un pon pon dello stesso colore… le “pape gosce”, ossia i doposci di cavallino che usavo a sciare e a giocare nella neve erano ancora vicino alla stufa a gas, assieme ai doposci pesanti di Mamma e Papà, simili ai miei, ma molto più grandi. Li provavo per gioco dopo aver infilato i loro spessi calzettoni di lana rossa o blu, con le punte e i talloni di color melangè. Nell’armadio c’erano pure la giacca a vento granatone di Papà e quella azzurra di Mamma. I pantaloni da sci, invece, li avevano ancora addosso: mamma quelli blu, con quel bel cinghietto a vita. Papà aveva ancora il suo bel maglione giallo, dello stesso giallo degli occhiali da sci e della luce dello spartineve. Ma quella sera gli spartineve non si erano mossi.

Avevo già addosso il pigiama e, sopra, un maglione. Il letto era già lì ad aspettare, con la bella coperta a quadrettoni sul verde. Dormivo con Mamma e Papà e anche per questo era più bello nella roulotte che a casa. Sì, questa era un vero rifugio nella tormenta!

Ma quella notte non riuscii a dormire, continuavo a fare domande a Mamma, mentre Papà già russava. Ero ansiosa di cosa potesse fare la volpe. Forse l’avrei sentita gridare nella notte, per questo, invece di dormire, stavo con le orecchie tese. Intanto la volpe non mi faceva più paura perché io ero lì nella roulotte e lei fuori.

Ma quel giorno sì che la paura era stata grande! L’avevo trovata lassù da “Paoluccio”, dentro il bar, sopra una mensola di legno. Non si muoveva, ma ne vedevo la bocca semiaperta piena di denti affilati, gli occhi come di vetro, la folta coda a pennacchio. Aveva un colore tra il rosso e il marrone. Mamma e Papà avevano dovuto proteggermi da lei e mi avevano portata da Paoluccio, che stava preparando il caffè al bancone del bar: mi aveva rassicurata dicendo che quella volpe restava sempre lì, non si muoveva mai, ma io avevo ugualmente paura. Continuava a tenere la bocca aperta, con quella lunga fila di denti!

Allora per farmi coraggio, mi aveva fatto vedere il Sanbernardo con la botticella piena di liquore, quello che solo i papà potevano bere, come pure tutti i liquori lassù, sugli scaffali dietro il bancone. Ma vedevo  che quel Sanbernardo era finto, e faceva solo su e giù con la testa, quando qualcuno lo muoveva (ero piccola, ma non me la davano a bere!)… invece la volpe era vera e il semplice fatto che non si muovesse non m’incoraggiava per niente!

Un’altra volpe era al mare, in un altro bar, dentro una strana macchina simile ad un flipper, in cui le si sparava e quella, spaventata, si metteva a gridare. Anche la volpe di Ceriale mi aveva fatto paura, perché gridava forte. Per il resto era piccolina ed era chiusa in quella sorta di gabbia…

L’indomani Papà dovette scavare quasi una galleria perché noi potessimo uscire dalla roulotte, tanto aveva nevicato, e, mentre lui liberava i finestrini, Mamma mi aveva portato a vedere i lunghi candelotti di ghiaccio che pendevano dai tetti del porticato degli spazzaneve. Questi, finalmente, erano usciti e sotto il portico si sentiva ancora l’odore della nafta.

Volevo mettere gli sci, ma Mamma mi aveva detto che erano rimasti sotto la neve: mi misi a piangere, finché Papà non riuscì a tirarli fuori. C’era neve anche sulla strada, neve solo un po’ pestata dai cingoli del “gatto”: mi avrebbero portata a spasso con il bob.

E così fecero, nel pomeriggio. Io stavo sul bob,  Mamma e Papà mi tiravano. Le luci di Prato Nevoso si stavano accendendo tutte intorno e si vedevano gli sciatori che riponevano gli sci sulla macchina, e i ragazzi che pattinavano sul laghetto. Anch’io avrei voluto andarci, ma Mamma e Papà non mi avevano lasciata: il ghiaccio poteva rompersi ed io finire a bagno nel lago! Qualcuno mi aveva anche raccontato che lì sotto, sul fondo del lago ci stava una strega, ma io volevo andare a vedere dove quella bruttona si rintanava! Così mi portarono, con la promessa che stessi al di qua dello steccato: ma io non ero “imprudente” (quanto mi piaceva quella nuova parola difficile!) come i pattinatori! Anzi mi tenevo ben lontana da quel ghiaccio insidioso. Aveva una luminosità azzurrognola che con il calare della sera si faceva blu scuro. La strega era senz’altro lì sotto e forse qualcuno degli “imprudenti” avrebbe rotto il ghiaccio finendoci dentro. Mi allontanai spaventata. Ma era quello che mi piaceva: avvicinarmi alle cose pericolose, ma solo per starle a guardare da una certa distanza di sicurezza.

Vicino, c’era il capanno dove i ragazzi andavano a mettersi i pattini: era tutto in legno, con il tetto molto spiovente e pure lì pendevano lunghi candelotti di ghiaccio. C’era pure un bell’albero di Natale e si sentiva della musica.

Poi guardai verso le luci accese di Prato Nevoso e chiesi a Papà dove fosse il bar di Paoluccio. Lui mi mostrò una luce lontana lontana, in alto, dalla parte opposta del paese. Non saremmo potuti arrivare fin lì con il bob, ma io ero quasi contenta: pure la volpe ci avrebbe messo del tempo ad arrivare fin da noi, dalla nostra roulotte!

La foto di copertina è dell’autrice

QUI il racconto La canonica di Manuela Zanotti, con un suo breve profilo

Per leggere altri suoi racconti su Margutte cliccare sul tag “Manuela Zanotti”