La posta in palio. Recensione.

LORENZO BARBERIS

“La posta in palio”, l’ultimo libro di Stefano Casarino e Mauro Selis, è un affascinante viaggio culturale nella storia – letteraria e clinica – del gioco d’azzardo. Il saggio, nato (come abbiamo scritto qui) da una serie di lezioni presso l’ASL savonese sul tema dell’azzardopatia, crea un percorso dove l’umanista Casarino introduce le tracce storiche del gioco d’azzardo in letteratura (e altre arti) dall’antichità a noi; e lo psicologo Mauro Selis riprende poi il discorso inserendo casi clinici da lui seguiti – in forma ovviamente anonima.

Le due parti dell’opera, pur distinte, appaiono bene amalgamate da un “comune sentire”, pur nella differenza derivante dalla diversa prospettiva specialistica e dallo stile personale dei due autori. Fattore accomunante appare una critica dell’azzardopatia come patologia sociale complessa, spia di un malessere collettivo di ieri e di oggi, e nella valutazione positiva, invece, delle altre sfumature del gioco, da cui il rifiuto del termine “ludopatia” (come diceva Nanni Moretti in “Palombella Rossa” a una sciatta giornalista, “le parole sono importanti”). Infatti il volume si apre con una citazione di Schiller, “L’uomo è completamente umano solo quando gioca”, che anticipa Huizinga e il suo Homo Ludens.

La condanna va invece, sempre con distinguo e ponderazione, verso l’azzardo, di cui si indagano anche le origini etimologiche nell’arabo Al Zahr, azzardo, il “giuoco della zara” di dantesca memoria.

Molta attenzione è anche volta al rapporto tra l’azzardo e una concezioni mistica, finanche esoterica, del Caso e dei modi per evocarlo. “Il gesto dell’indovino, che lancia per aria degli oggetti sacri per predire il futuro a seconda di come si dispongono cadendo, si è trasformato in quello del giocatore che affida a tale lancio la sua fortuna” spiega infatti Casarino, nella prima parte dell’opera, quella letteraria, su cui ci soffermeremo maggiormente in quest’analisi, per affinità di competenze (pur essendo molto valida e illuminante anche la seconda parte, “clinica”, a cura di Selis).

L’opera è ricchissima di spunti di lettura e riflessione; il modo migliore, a mio avviso, per invogliarne alla lettura è coglierne qui alcuni (invero pochissimi, rispetto all’abbondanza del volume) tra quelli che mi hanno maggiormente colpito, assicurando l’eventuale curioso che resteremo comunque ben lontani dall’esaurirli.

L’invenzione della “zara” risale, per Platone, all’egizio dio Toth, inventore “del calcolo, della geometria, dell’astronomia, del gioco della scacchiera e di quello dei dadi, e soprattutto delle lettere” (e sulla permutazione delle lettere in modo casuale, cabalistica ma non solo, molto ci sarebbe da dire,
e molto ha detto ad esempio Eco nel “Pendolo di Foucault”).

Anche gli stessi Dei quindi giocano, a dispetto di quanto pensava Einstein (“Dio non gioca a dadi con l’universo”) nel cassare, a suo avviso, la meccanica quantistica. Ercole, nel suo tempio, vince a dadi una notte d’amore con Larenzia, amatissima prostituta romana: e a Roma l’azzardo ha una assoluta rilevanza nella cultura, come rileva Casarino ripercorrendo le vite di vari Cesari.

Simmetricamente, il cristianesimo rifiuta invece il gioco d’azzardo, percepito come residuo del vitalismo dionisiaco (e quindi diabolico) del paganesimo antico, unito anche a un momento forte della Passione, il giocarsi a dadi la veste di Cristo. I dadi appaiono infatti, come simbolo della Passione, anche negli affreschi monregalesi di Santa Croce, nell’Arma di Cristo; Casarino cita invece dipinti rinascimentali in cui i dadi appaiono associati alle anime dell’inferno.

Colpisce invece la leggerezza con cui il catechismo odierno considera i “peccati di gioco”: “Truccare le scommesse o barare nei giochi costituisce una mancanza grave, a meno che il danno causato sia tanto lieve da non poter essere ragionevolmente considerato significativo da parte di chi lo subisce”, si dice infatti nella versione più aggiornata; e un facile sociologismo potrebbe essere quello di cogliere la differenza, anche qui, tra cultura cattolica e cultura protestante, dove il “cheating”, anche nella scuola, è sempre colpa grave, macchia indelebile nel codice d’onore del gentleman.
Ma questa è la chiesa moderna: quella medioevale, anche sulle soglie ormai del Rinascimento, è quella di San Bernardino da Siena, che nella Quaresima del 1423 compie un rogo degli strumenti da gioco, “tabularia, taxilli e carticulae”. Un “autodafé” simmetrico a quello, a fine Quattrocento, operato dal Savonarola contro la pagana, e quindi corrotta, arte rinascimentale della Firenze di Lorenzo de Medici.

Saltiamo un po’ di marinismi e affini e passiamo al Settecento, dove riscopriamo un Casanova che non è solo un seduttore ma anche gran esperto di carte (oltre che, nota nostra, esperto di cose esoteriche e magiche, anche se spesso usate ai fini suoi personali che si posson immaginare).
Ma anche un altro avventuriero settecentesco fa la sua demoniaca apparizione in un racconto di Puškin, “La dama di picche” (1833), in cui una donna, indebitata nel gioco, “aveva evitato il disonore solo grazie a un sogno, nel quale le era apparso un misterioso personaggio, il conte di Saint-Germain” (l’occultista intorno al quale Umberto Eco costruisce tutto il suo “Pendolo di Foucault).
Altra gustosa curiosità (spigolatura tra le mille di cui il saggio di Casarino è una vera miniera) molto significativa di questo Settecento del gioco è il fatto che  in questo periodo viene attestato per la prima volta il termine “camorra”, in un documento ufficiale del 1735 del Regno di Napoli per indicare una “tassa sul gioco” da pagare a chi proteggeva i locali per il gioco d’azzardo dai rischi di liti e risse.

L’Ottocento industriale e borghese che, per molti versi, fonda la nostra società moderna, vede il sovrapporsi tra gioco e affari. Huizinga in Homo Ludens riscontra che “Si gioca alla roulette e si gioca in borsa. Nel primo caso il giocatore ammetterà che la sua azione è un giocare, ma nel secondo no”. Proprio come Asso Shaw in Spoon River: “Non vidi mai alcuna differenza / fra giocare a carte per denaro / e vendere bene immobili e proprietà”, recita il suo lapidario epitaffio. Ma anche un capitalista sui generis come Zeno Cosini, da noi, passa con disinvoltura da “succhiellar le carte” a giocare in borsa.

E in qualche modo, l’Ottocento ci fa perdere un po’ quella matrice mistica – sacrale e demoniaca – del gioco, che pure affiora a tratti tra pagine maggiormente di denuncia sociale.

Ad esempio, in Mattia Pascal, che osserva «io ebbi proprio il sentimento di una forza quasi diabolica in me, in quei momenti, per cui domavo, affascinavo la fortuna, legavo il mio al suo capriccio.» (Mattia Pascal è figura ricca di ambigue sfumature mistiche, a partire da quel nome posticcio, Adriano Meis, che egli carpisce dai nomi dei protagonisti di una disputa “ferroviaria” sulla bellezza di Cristo).

Casarino inserisce molteplici, ricchissime e stimolanti citazioni letterarie tra Otto e Novecento, e vi lasciamo davvero il piacere di scoprirle leggendo il saggio, agile e intenso al tempo stesso (e da lì, come un labirinto, potrete poi perdervi in infiniti “boschi narrativi” seguendo le mille biforcazioni che l’autore suggerisce). E potremmo anche concludere qui.

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Per proseguire il gioco proposto dall’autore, mi azzardo a svilupparne però (in sintesi) una, quella più eclettica, ma più vicina ai miei specifici interessi.

Tra gli altri, Casarino cita anche Heinlein, il “padre eretico” e reazionario della fantascienza americana (opposto alla triade ortodossa e progressista ABC, Asimov – Bradbury – Clarke). Heinlein, con la sua schietta, consueta brutalità, osserva: “Non esiste il “gioco d’azzardo sociale”. O sei lì per strappare il cuore a un altro e divorarlo… o sei un fesso. Se questa scelta non ti piace… non giocare.”

La citazione (non strettamente di science-fiction, in realtà) mi ha fornito lo spunto per una riflessione sull’azzardo in fantascienza. Senza escludere influenze più antiche, è la SF sociologica del secondo dopoguerra a immaginare società distopiche future rette da bizzarri ma in fondo possibili sistemi totalitari: e tra questi, spesso la casualità dell’azzardo ha un suo spazio nei metodi adottati per il controllo e la repressione sociale.

Il primo esempio celebre è probabilmente “Lotteria dello spazio” di Philip Dick, che nel 1955 immagina il “sistema minimax”, il governo perfetto in cui il capo dell’umanità è eletto tramite un gioco a sorteggio, divenendo il Quizmaster.

Asimov, in “La macchina che vinse la guerra” (1961), ipotizza ironicamente che il vero “computer” in grado di “calcolare” le possibilità di vittoria è la monetina usata sul campo dal vero combattente, scettico rispetto ai calcoli più complessi, comunque dotati di una parte di casualizzazione.
Un concetto che ritorna, ampliato, in “Seconda fondazione”.

“Pelorat sembrava a disagio. — È prudente lasciare questa scelta al computer?
      — Perché no, Janov? È un computer efficiente. E poi, in mancanza di riferimenti, che male c’è a prendere in considerazione la scelta del computer?
      Pelorat si illuminò. — Hai ragione, Golan. Sai, alcune delle leggende più antiche raccontano di persone che per scegliere lanciassero dei cubi a terra.
      — Ah? E cosa ottenevano?
      — Vedi, ogni faccia del cubo rappresentava una decisione… sì, no, forse, rimandare, e così via… Il lato rivolto verso l’alto, quando il cubo si posava sul terreno, era quello col consiglio da seguire. Oppure si faceva rotolare una sfera su un disco con tante fessure lungo il bordo, e ogni fessura rappresentava una particolare decisione. La decisione da prendere era quella scritta nella fessura in cui si fermasse la sfera. Alcuni mitologisti ritengono che queste attività fossero dei giochi d’azzardo, più che dei sistemi divinatori, ma io non ci vedo una grande differenza.”

Anche in un romanzo di transizione importante come “Gateway” (1977) di Fredric Pohl, che mette definitivamente in crisi il “mito dello spazio”, l’inetto astronauta Robinette arriva sul Gateway, la “Porta dell’Universo”, vincendo una lotteria con cui compra il suo “biglietto d’andata” verso le stelle; e qui scopre, con suo disappunto, di dover di nuovo “vincere una lotteria”: gli uomini non sanno come funzionano le astronavi dei perduti alieni Hee-Chee, e quindi ogni navicella potrebbe portarlo a reperti ricchissimi o a finire all’interno di un sole (causa gli spostamenti cosmici intervenuti).

In tempi recenti, il più muscolare dei registi di sci-fi action, Michael Bay, ha girato con “The Island” (2005) uno dei suoi film relativamente più complessi: Il protagonista, Lincoln-6-Echo, aspetta da tre anni di vincere la lotteria che lo porterebbe fuori dal mondo alienante in cui vive; ma scopre alla fine che il premio per la vittoria è in realtà il peggiore degli incubi possibili, rivelandogli il vero ruolo suo e dei suoi simili in una spietata tecnocrazia futura.

Solo alcuni esempi, per evidenziare come anche la “Letteratura del futuro” usa spesso l’archetipo della Lotteria per le sue intricante allegorie del medioevo prossimo venturo. E, quasi sempre, anche qui, l’Azzardo rappresenta il volto apparentemente giocoso di una società in realtà dispotica e spietata.

QUI la presentazione del libro dalla viva voce del prof. Casarino.