Felice Momigliano, tra profetismo e socialismo mazziniano

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ATTILIO IANNIELLO

Il 6 aprile 1924 moriva suicida a Roma il monregalese Felice Momigliano. Un suo amico, Dante Lattes, così ricordò l’evento venticinque anni dopo: «Tutta la sua vita è stata un nobile altissimo apostolato esercitato dalla cattedra, sulla stampa e con la parola per dare una base etica al movimento sociale… E alla minaccia fascista che già incombeva sul paese rispondeva: “Un trentennio di organizzazione socialista non si cancella e le esperienze dolorose servono a disciplinare e temprare i partiti”. Ma quando tutte le violenze furono disfrenate, calpestati tutti i diritti, irrisa ogni nozione di giustizia, non è da escludere che anche questa atroce offesa a quegli ideali di bontà, di elevazione umana, di giustizia sociale che egli aveva coltivato e propagandato con tanta fede, non abbia avuto il suo posto nella tragica determinazione che ha precocemente chiusa la sua nobile esistenza» (Nel venticinquesimo anniversario della morte di Felice Momigliano, Mondovì, 1949, pp. 6-7).

Felice Momigliano nasceva a Mondovì il 27 maggio 1866 in una famiglia ebraica residente nel quartiere Piazza, in via Vico nelle case che costituirono storicamente il ghetto.

La morte della madre quando era ancora bambino segnava in modo indelebile in carattere di Felice rendendolo fragile dal punto di vista emozionale. Dotato di grandi capacità intellettuali, Felice Momigliano veniva educato religiosamente alla luce dell’Ebraismo e laicamente agli ideali del Risorgimento, in particolare alle teorie di Giuseppe Mazzini. Ventenne si avvicinava agli ideali socialisti.

A Mondovì infatti tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta del XIX secolo tra gli operai metallurgici e i ceramisti si affermava la propaganda socialista sia marxista che utopista. Circoli socialisti si costituivano nei vari quartieri operai della cittadina. Tra questi la Cooperativa Operaia Monregalese, promossa nel 1893 da Domenico Balocco, la Società di Mutuo Soccorso tra Stovigliai, la Lega Socialista, la Cooperativa Tipografica, la Fratellanza Operaia ed altri ancora. Il giovane Felice aderì subito a questi circoli e quando nel 1894 per decreto prefettizio vennero sciolte sia la Lega Socialista sia la Società di Mutuo Soccorso tra Stovigliai di Carassone, fu processato come pericoloso sovversivo insieme allo studente Fiorenzo Sciolla, all’avvocato Iacopo Calleri, al negoziante Domenico Balocco, e all’industriale Emilio Unia, tutti ritenuti i leader del movimento socialista di Mondovì.

Riportiamo il resoconto dell’autodifesa di Momigliano nel corso del processo tenutosi nel novembre 1894: «Assente da Mondovì all’epoca della fondazione del Circolo si iscrisse tra i soci nell’ottobre 1893. Prese parte attiva ai lavori del circolo fino al maggio ultimo scorso e dopo il qual tempo, pure restando nella lega, per ragioni di interesse privato, non frequentò più le sedute del circolo stesso. Non sa nulla dello scioglimento perché in quei mesi egli si trovava a villeggiare alla Serra di Pamparato. Tuttavia non reputò opportuno dare le sue dimissioni perché riteneva fermamente che le leggi eccezionali non colpissero i socialisti…  Afferma che si sente offeso non solo moralmente ma anche intellettualmente supponendolo capace di predicare la rivolta a mano armata e l’odio tra le classi sociali. Afferma che la lotta tra i vari fattori sociali è una necessità storica: dal cozzo dei vari elementi che formano la società scaturisce il progresso. Tocca il concetto di rivoluzione dichiarandosi seguace della filosofia evoluzionista, la quale ammette il trasformarsi lento e continuo delle istituzioni finché si arrivi ad un mutamento radicale per via di successive trasformazioni. Dimostra come la storia dia esempio di rivoluzioni radicali e decisive senza guerre fratricide. Ricorda il cristianesimo e il rinascimento… Insiste sulla sua propaganda pacifica e morale…» (Processo dei socialisti, in “Supplemento alla Gazzetta di Mondovì” del 1 dicembre 1894).

In quell’occasione Felice Momigliano venne condannato ad un mese di confino, e quella non fu l’unica volta che il monregalese dovette fare le valigie e abbandonare la famiglia a causa dei suoi ideali.

Insegnò Filosofia in diversi Licei a Prato, Udine, Genova, Torino per approdare infine alla facoltà di Magistero dell’Università di Roma dove rimase dal 1912 alla sua morte.

Nell’insegnamento cercava di promuovere la sua missione emancipatrice: «Educare i fratelli al riscatto» come scrisse il 19 febbraio 1902 in una poesia dedicata alla sorella Giuditta.

La sua appartenenza al Partito Socialista terminava nel 1915 poiché il Momigliano non comprendeva e di conseguenza non appoggiava il non interventismo dei compagni di partito in merito alla I Guerra Mondiale. Pur considerando la guerra e l’uso della forza come extrema ratio nell’evolversi della storia umana, Felice Momigliano auspicava che l’evento bellico che iniziò nel 1914 a sconvolgere l’Europa fosse il doloroso travaglio attraverso il quale sorgesse un’alba di democrazia e di unione dei popoli nel Vecchio Continente. Gli ideali mazziniani di un’Europa unita e democratica che animavano Momigliano sarebbero stati frustrati ben presto. La guerra non solo fu “un’inutile strage” come la definì il papa Benedetto XV ma per di più fece scivolare l’Europa verso sistemi politici totalitari che soffocarono ogni embrione di democrazia.

Felice Momigliano visse negli anni del primo dopoguerra con profonda sofferenza intellettuale il doloroso spettacolo di una nazione che si allontanava sempre di più da quegli ideali di democrazia popolare e di socialismo liberale e mazziniano che erano stati il fondamento del suo impegno educativo nei vari orini di scuola in cui aveva insegnato.

Il suo pensiero attraverso la spiritualità del profetismo ebraico era approdato agli ideali mazziniani di democrazia e attraverso questi ultimi ad un socialismo libero da ogni ortodossia marxista (Momigliano era a conoscenza e condivideva in parte le critiche al marxismo sia dei liberali che degli anarchici).

Il dolore nel vedere che tanta storia, tanto umano impegno per la democrazia annegasse di fronte ad un popolo italiano sempre più affascinato dalle violenze e dalle liturgie fasciste, il dolore nel vedere che coloro che avevano portato la bandiera di nobili ideali popolari non erano politicamente in grado di frenare le mire mussoliniane, convinsero Felice Momigliano che tutto era perduto, che era finito il suo compito nel convivio umano ed era finito con una sconfitta storica. Non volle fuggire, non volle nascondersi e non aveva appigli per sperare in un cambiamento repentino della realtà italiana. E mentre altri intellettuali si preparavano ad una lunga e clandestina opposizione al fascismo che emergerà poi nella Resistenza vera e propria e nella Liberazione dell’Italia, Felice Momigliano prepara il suo suicidio quale novello Werther o Jacopo Ortis.

Il 29 marzo 1924 in Roma scrive il suo “testamento spirituale” in cui tra l’altro si legge: «La mia vita è stata dura per le lotte sostenute. Ero nato da una generazione che viveva la vita del Ghetto ed ho conquistata la libertà dello spirito a prezzo di travagli interni terribili. Mistico fui e sono ed appunto per questo avversai le parti più aride e meschine del Talmudismo. Ho dato tutto me stesso, negli anni in cui potevo assicurarmi presto e facilmente una brillante carriera universitaria, all’idea sociale che era poi l’idealità massima. Sono lieto anche adesso di aver sopportato per il socialismo nel ’94, nel ’98, nel ’900 confino, arresto, sbalzi e traslochi per le meno desiderate residenze di tutta Italia, processi, perché ho con questa prassi celebrata la parte migliore di me. I miei nipoti imparino a non chiedere mai altro compenso che la soddisfazione di obbedire alla voce del dovere» (Nel venticinquesimo anniversario della morte di Felice Momigliano, Mondovì, 1949, pag. 14).

Una settimana dopo aver stilato il testamento, il 6 aprile, Felice Momigliano si uccideva.

«La sua scomparsa, allora, fu quasi ufficialmente ignorata», scrisse Dante Lattes. «La prudenza ammutoliva già ogni voce che potesse spiacere ai tiranni. Era infatti uno spirito libero, un grande esempio di carattere, un campione di umanità che con lui spariva. Le stesse riviste che si erano onorate per tanto tempo della sua concettosa, dotta, battagliera collaborazione, non ebbero in quel momento l’ardire di dedicargli qualche riga di rimpianto e di omaggio».

Nel testamento chiedeva anche di essere tumulato nel cimitero israelitico di Mondovì, la sua cittadina e che amava profondamente tanto da ricordarla in numerose sue poesie.

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Quest’ultimo desiderio era soddisfatto il 20 giugno 1925 quando il suo corpo veniva deposto nel cimitero monregalese in un marmoreo sarcofago scolpito da Agostino Giusta (In memoria di Felice Momigliano, in “La Stella di Mondovì” del 27 giugno 1925).

Solamente dopo la Liberazione dal nazifascismo Mondovì poté celebrare degnamente la memoria di Felice Momigliano. Il 23 ottobre 1949 un nutrito comitato d’onore dopo aver ascoltato una conferenza sul Momigliano stesso tenuta dal senatore socialista Enrico Gonzales, scopriva sulla facciata della casa natale dell’intellettuale monregalese in Mondovì Piazza, via Vico n. 65 una epigrafe dettata da Attilio Momigliano, docente dell’Università di Firenze. Allora ed anche adesso i Monregalesi che passano possono leggere:

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