L’estate con Frida

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GABRIELLA VERGARI
Se devo riandare al ricordo di quell’estate con Frida, la prima impressione è la nebbia, che ci avvolgeva tutti come una cortina di ovatta.
No, l’ovatta dà forse un’idea troppo corposa.
Più una nuvola di zucchero filato grigiastro che, a tratti, si sfilacciava ai bordi o si squarciava nel mezzo, lasciando intravedere guizzi colorati. La pozza cilestrina alla fine del poggio dove si trovava la nostra villetta, l’immancabile bianco delle pecore stese sul prato come grandi margherite lanose, il verde squillante dell’erba appena rorida degli ultimi residui di rugiada non ancora evaporati al sole.
Un sipario da abile vedutista, subito però prossimo a cedere ad un velo che, da lattiginoso, poteva presto farsi denso e impenetrabile come una cappa.
Una sospensione perenne che ci induceva, adulti e bambini, a percepirci in modo diverso dal solito.
I contorni delle cose e delle persone sempre pronti ad assumere nuove e strane dimensioni, così che non erano neppure rari i momenti in cui, persino all’interno della casa, sembravamo galleggiare più che muoverci.
C’erano poi pomeriggi soffusi di luci incerte e baluginanti, nei quali non era difficile credere che tutto potesse accadere, e vaghe mattinate, in cui anche solo fare colazione poteva trasformarsi nel preludio a chissà quali avventure.
A dispetto di tanta indeterminatezza, Frida era una bambina combattiva e tenace.
Nulla la spaventava e amava gettarsi a capofitto nelle imprese più disparate, con tutte le sue trecce bionde e la pioggia di lentiggini che le tempestava le gote rubiconde di chi vive all’aria aperta.
Si arrampicava sugli alberi meglio di uno scoiattolo e si tuffava nel piccolo fiume che circondava la vallata, come se l’acqua fosse sempre stata il suo elemento naturale. Addentava il pane, burro e marmellata che la madre le preparava con cura ogni giorno, con una dentatura sana e forte da donna guerriera. E tale si proclamava, vantando chissà quale ascendenza germanica, alla quale ero prontissima a credere, senza porle alcuna domanda indagatrice.
Salivamo insieme sulla casetta che Helmut, suo padre, le aveva costruito su uno degli alberi vicini e, una volta tirata su la scaletta di corda che ce ne consentiva l’accesso, ci ritenevamo impenetrabili al mondo e sicure.
Fino a quel pomeriggio.
Ce l’eravamo trovato davanti all’improvviso, sul vialetto di casa, e l’avevamo osservato sconcertate. Un uomo d’età con una lunga barba bianca come quella dei personaggi delle saghe nordiche che amavamo leggere la sera accanto al cammino benché, data la stagione, rimanesse spento.
Aveva bofonchiato non so cosa, dandoci tutto l’agio di notare i suoi abiti sporchi e ciancicati, tipici di chi sia abituato a dormire all’aperto o a sdraiarsi tra le foglie, all’umidità del sottobosco.
«Chi sei?» l’aveva subito apostrofato Frida, così d’impatto e senza tante cerimonie, mostrandosi forse più spavalda di quanto in quel momento non si sentisse, ma con un fare tipico del suo essere diretta.
Per tutta risposta, lo sconosciuto ci aveva rivolto un sorriso sghimbescio, palesando ai nostri occhi ancora incerti una chiostra incompleta e giallognola. Poi aveva accennato con la testa agli alberi dietro alle sue spalle e si era portato un dito alla bocca, come ad invitarci al silenzio.
Indecisa sul da farsi, avevo mosso un passo indietro e volentieri ne avrei mossi anche degli altri se Frida, al contrario, non si fosse ancor più avvicinata all’uomo, per ripetergli: «Sei forse sordo? Ti ho fatto una domanda, chi sei?»
Lui l’aveva guardata a lungo, prima di articolare un suono che interpretai per Hans, ma non ci avrei scommesso, dato che non so da dove le fronde cominciarono a stormire con più forza e un paio di uccelli si levarono in volo con acuti stridii.
«E che ci fai qui? Che vuoi? Hai fame?»
Frida.
Era proprio da lei bersagliarlo con quella selva di domande che, date le circostanze, mi parvero decisamente inopportune. Con un’occhiata esplorativa al vialetto dietro le nostre spalle, quindi a quello che ci si apriva davanti, io intanto traevo conferma di ciò che già mi aspettavo: nessun adulto in vista.
Solo la nebbia, che continuava a fluttuare leggera e ci faceva sentire come in un mondo a parte, segreto, chiuso e celato all’invadenza di ogni sguardo estraneo.
Avrei posto volentieri fine all’incontro, se solo avessi trovato un modo dignitoso per farlo.
Hans, o comunque si chiamasse, scrutò di nuovo Frida, come a volerla soppesare per bene. Uno sguardo che non riuscivo ad interpretare e nel quale leggevo un qualcosa di indefinito, misto a curiosità e perfino a una punta di divertimento.
Sufficiente a far comunque vibrare d’inquietudine il mio campanello interiore e, sorpresa delle sorprese, nell’osservare meglio lo sconosciuto, colsi pure un particolare che mi lasciò senza fiato.
Le orecchie.
Le intravedevo appena tra la sua lunga chioma biancastra, ma possibile finissero a punta, come quelle di un…elfo?
Cercai di farlo intendere a Frida e tirarla in disparte per convincerla a fare dietrofront e filarcela a casa quanto prima, ma non feci in tempo, perché Hans, o chiunque fosse, a quel punto infilò la destra nella sua mal ridotta casacca, ne tirò fuori un qualcosa e se lo tenne ben stretto in pugno.
«Andiamo via, Frida» mi sentii urlare «i tuoi ci staranno aspettando».
Ma, manco a dirlo, lei si fiondò subito verso l’allettamento di quel piccolo scrigno serrato che, una volta assicuratosi del suo interesse, l’uomo le aprì lentamente davanti, dito dopo dito, come un Hitchcock consumato.
Una sequenza al rallentatore, ancor più rarefatta grazie alla luce che si stava avviando al crepuscolo, la nebbia appena un po’più fitta e il soffuso vapore grigiastro di quell’insolita stagione.
Ebbi perciò tutto il tempo di notare che la mano dello sconosciuto era callosa, segnata da solchi profondi e pronunciati. I polpastrelli grassocci e vagamente deformi, contornati da unghie lunghe, un po’ adunche e nere di terra.
Ciò che vi brillava all’interno era però di tutt’altra sostanza e restava inconfondibile.
Nessun margine d’equivoco: proprio una moneta d’oro, rotonda e lucente come un piccolo disco solare.
Perfino Fida restò un attimo sconcertata, prima di prenderla e rigirarsela tra le dita.
«Ma è antica…» esclamò imporporandosi. Le lentiggini, una pioggia di minuscole stelline ocra a dipingere il suo stupore. «Dove l’hai presa? L’hai rubata?»
Per tutta risposta l’uomo piegò un po’ all’indietro il braccio come a dirle Seguimi e si voltò lesto, per riprendere il sentiero da dove era venuto.
Camminava veloce e più di una volta rischiammo di perderlo e di perderci.
Non mi ero mai allontanata tanto dalla casa dei miei ospiti.
In un moto d’apprensione, ne fui lucidamente consapevole fin dalla terza curva, quando mi ritrovai immersa in un paesaggio che mi veniva completamente nuovo.
Helmut era uno dei più stretti collaboratori di mio padre e, caso raro, i miei avevano subito accettato, quando mi aveva rivolto l’invito a trascorrere alcune settimane con la sua famiglia, concordando sull’opportunità che stringessi amicizia con una mia coetanea, in un luogo così incantevole e salubre com’era quello delle loro vacanze in montagna.
Non ero certa che avrebbero continuato a pensarla allo stesso modo, se solo ci avessero sorpreso in quel frangente, ma che importava, dato che si trovavano a mille e mille miglia di distanza?
Né mi pareva il caso di lasciare andare Frida da sola.
Non solo ritenevo mio dovere non abbandonarla alla sua imprudenza ma ci tenevo anche a non passare per codarda né a sottostare alle canzonature che sarebbero seguite se mi fossi tirata indietro.
E poi, lo ammetto, il richiamo di tutta quella straordinaria situazione mi aveva ormai preso.
Come avrei potuto perdonarmelo se, lasciandomi prendere dalla fifa, mi fossi fatta sfuggire la scoperta di un tesoro o l’eventualità di chissà quale altro insperato ritrovamento?
«Ahi, accidenti» esclamò Frida, quando l’ennesimo rovo le sbatté sul viso.
Ci stavamo addentrando in una sorta di bosco, dove i rami degli alberi si intrecciavano in modo sempre più fitto. Un ambiente in cui di solito lei si muoveva con molta più agilità di me. Intuivo però che la fatica di tener dietro allo sconosciuto, senza perderlo d’occhio in quelle condizioni di precaria visibilità, stava mettendo in difficoltà anche lei.
Come se non bastasse, la luce del giorno morente giocava pure i suoi scherzi sfumando ulteriormente sagome e profili, e sempre più difficile diventava persino vedere dove mettere i piedi.
Senza tuttavia rallentare la sua marcia, Frida si passò in fretta la mano per tamponare il graffio che le si dipinse netto, seppur leggero, sul viso. Ci voleva altro che quel mero, banale impedimento per offuscare, in lei, la scintilla dell’avventura che anzi, notai di sfuggita mentre mi affannavo a starle dietro, brillava più intensa.
Certo che doveva discendere da stirpe guerriera.
Non c’era alcun dubbio.
Ma io che c’entravo con lo spirito dei suoi avi?
Magari i miei erano stati uomini di lettere o sedentari borghigiani.
Mi ripromisi di indagare meglio con mia madre, quando e se l’avessi rivista. Cosa sulla quale in quel momento non avrei tanto facilmente scommesso, dato che non sembrava ci fosse una fine a quel nostro procedere.
Con il fiato corto, le gambe doloranti e tagliuzzate in più parti, pensai che ci rimaneva ben poco delle bambine di prima. Dovevamo avere entrambe un’aria terribile, da straccione o, e l’idea mi si insinuò malgrado tutto lusinghiera e fugace, da esploratrici.
Me ne compiacqui, ma non durò.
«Torniamo indietro» suggerii ancora una volta, tristemente consapevole che sarebbe valso a poco.
«Scherzi?» ribatté infatti, Frida quasi indignata della pocaggine della mia proposta. «E poi, a questo punto, non saprei nemmeno come fare. Non sono mai stata qui, né sono riuscita a seguire la strada. Inoltre tra non molto si farà buio.»
Una confessione piana, serena, che mi gettò nel più completo degli sconforti.
Mi guardai allora attorno.
Nessuna traccia dell’uomo che sembrava misteriosamente inghiottito dalla terra da cui era provenuto.
Mi accorsi, in compenso, di trovarmi in uno dei luoghi più sorprendenti e fascinosi che avessi mai visto in vita mia.
Vero è che non fosse stata molto lunga, ma neppure nei libri di fiabe, che avevo continuamente letto e sfogliato, avevo mai trovato nulla di simile.
Colonne di lava dappertutto a formare scenari bellissimi e drammatici, come se la natura si fosse divertita a giocare con una sua speciale plastilina. E come ovvio, non aveva certo lesinato in fantasia. Una varietà straordinaria, polimorfica e cangiante, dove bestioni irsuti e crestati, affatto degni di quell’universo primordiale e caotico, si avvicendavano a colonne sbilenche o ad archi vertiginosi, capaci di sfidare le leggi della fisica e della gravità come nessun architetto, nemmeno il più azzardato e immaginifico, avrebbe osato mai fare.
Dove eravamo finite?
Probabilmente in una radura, appena fuori dal bosco.
La meraviglia prevalse per un certo tempo sull’ansia e la trepidazione finché, muovendo verso quella che sembrava un’enorme finestra circolare al centro di una roccia, Frida non mi prese per il braccio.
«Per di qua».
Il tono era però un po’meno risoluto di quello con cui era solita trascinarmi nelle sue repentine trovate, quando giocavamo insieme. Vi percepii una nota di perplessa incertezza, se non di autentico smarrimento, che mi spaventò più di tutto il resto.
Se perfino la mia guida vacillava, che fine avremmo fatto, mi chiesi?
«Ma sembra difficilissima da raggiungere» mi limitai a commentare, notando quanto aspra ed impervia apparisse la scalata verso l’apertura che non sapevamo nemmeno dove ci avrebbe condotto.
«Perché piuttosto non proviamo a girare di qua?» proposi più cauta, indicandole un piccolo sentiero che si incuneava tra formazioni laviche disordinate e scomposte come il magma che le aveva prodotte.
Non mi aspettavo di essere ascoltata.
Con mio grande stupore Frida invece annuì e si fermò, confermandomi con questa sua nuova e improvvisa docilità che, anche per lei, la faccenda si stava facendo seria.
Speranzose in una via d’uscita, ci inoltrammo per alcune centinaia di metri, quando all’improvviso una costruzione simile a una fortezza o ad un castello diroccato, nera come tutto il resto e fiancheggiata da piccole torri e diruti bastioni ci venne a sbarrare il passo.
«Che posto è questo?» mormorò Frida, stringendo in mano la moneta ricevuta dallo sconosciuto come una sorta di talismano.
«Un dannatissimo labirinto di pietra, ecco cos’è.» esclamai decisamente provata. «Come faremo a passare la notte?» Lo chiesi con una voce più stridula di quanto avessi voluto, mentre l’ansia riprendeva il sopravvento su quel poco d’animo che mi aveva fino ad allora sostenuta.
Non ce l’avremmo fatta a tornare a casa e, men che meno, prima che calasse il buio.
L’aveva capito anche Frida, che infatti sbrigativa rispose: «In una delle tante grotte. Guarda quante ce ne sono, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Sembra il mondo del popolo nascosto.»
Figurarsi. Se la prospettiva poteva forse ancora intrigare lei, a me faceva solo venire i brividi e dire che di mio non me ne mancavano, grazie al freddo vespertino che aveva iniziato ad insinuarsi, inclemente e veloce, tra i miei abiti leggeri.
«Ci sarebbe bisogno della fata Malvina» sussurrai, tra me e me, richiamando alla memoria o forse proprio invocando una delle figure più care al nostro immaginario infantile di quel momento.
Era lei che in men che non si dica risolveva le situazioni più complicate nelle quali i suoi protetti andavano di continuo a cacciarsi.
Ma noi due, Frida e io, potevamo sperare di rientrare nel gruppo?
Un rumore di passi e foglie smosse ci fece prendere all’improvviso per mano.
Si stava avvicinando qualcuno.
Quasi sperai fosse il nostro Hans e non un animale selvatico e ramingo. Ci sarebbe mancato solo questo per completare l’opera.
« Peter» esclamò Frida e io con lei quasi all’unisono.
« E voi, che ci fate qua, e a quest’ora?»
Il giovane figlio dei vicini.
Non mi aveva mai suscitato particolare simpatia e in più aveva un coltello che gli pendeva dalla cintura. Sporco di qualcosa di rosso che con tutto il cuore mi augurai non fosse sangue. Mi ripromisi di restare sulla difensiva, ma Frida quasi l’abbracciò per il sollievo. Ne sapeva più di me ed era evidente che si fidava.
Ingarbugliandoci non poco, abbozzammo una spiegazione a cui il ragazzo nemmeno finse di credere.
«Non bisognerebbe spingersi tanto lontano da casa, non ve l’hanno raccomandato i vostri genitori?» ci ammonì in risposta. «E soprattutto non bisognerebbe passare di qui. Potreste imbattervi in qualche vagabondo o malintenzionato. Proprio non ne mancano, da queste parti. Inoltre…» e mi parve si fermasse un attimo di troppo «questo è il regno degli elfi e delle altre mille creature del bosco. Non l’avete visto il castello?» Mi parve ce lo chiedesse tra il serio e il faceto, con un tono che davvero stentai ad interpretare. Ci stava prendendo in giro o diceva la verità?
Provai ad esaminarlo meglio, ma non ne cavai niente di più dei suoi giovani lineamenti chiaroscurati dalla penombra.
«E proprio là dove siete voi, c’è l’imboccatura dell’inferno,» aggiunse tutto compiaciuto, mostrandoci una frattura nel terreno a un passo da dove ci trovavamo.
Con gli occhi sbarrati realizzai che, se non fosse arrivato in tempo, avremmo davvero potuto correre il rischio di caderci dentro, dato che non si vedeva quasi più niente.
Non ho mai voluto sapere perché si trovasse lì e che cosa ci fosse venuto a fare.
Crescendo, ho immaginato si fosse infrascato con una ragazza, sfruttando una delle tante grotte del luogo come riparo impenetrabile all’altrui curiosità.
Altre volte, ripensando a quel suo coltello macchiato di rosso, ho pensato fosse andato a caccia di qualche animaletto o, meglio, in cerca degli appetitosissimi frutti di bosco che costituivano il vanto di tutta quella zona.
Certo si è che, quando guardai da quella spaccatura del terreno, lunga e stretta come una ferita mortale, fui colta dalle vertigini, tanto verticali erano quelle sue pareti, affacciate a precipizio sull’abisso.
E lui dovette illuminarcela con la torcia che, grazie a Dio, aveva con sé e al cui fievole ma benedetto chiarore ci riaccompagnò a casa, procedendo sicuro.
Doveva essere un esperto di quei luoghi e forse non era la prima volta che ripescava qualcuno, lungo il percorso. Sorrise tutto il tempo e intonò canzoni popolari cui, dopo un po’, ci associammo anche noi, come se quello che ci era accaduto fosse stata la cosa più naturale del mondo.
Non gli dicemmo di Hans, per quanto la tentazione fosse fortissima e qualcosa mi suggerisse che avrebbe saputo darci una risposta.
Ma chi mi assicurava che avrebbe poi detto la verità, invece di prendersi gioco della fantasia sovraeccitata di due bambine che si erano perse, inseguendo…
Già, che cosa?
Ora che ho scelto la razionalità della scienza a guidare i miei passi nella vita e sorrido alle mille frottole che racconta la gente sulle esperienze paranormali, i salti temporali e le altre forme di vita, mi chiedo ancora cosa possa esserci capitato quel giorno.
Le ho davvero viste quelle orecchie a punta?
Con Frida non ne abbiamo quasi più parlato, né al rientro a casa né dopo.
L’incontro con lo sconosciuto aleggia sulla nostra amicizia come un mistero che in tacita complicità condividiamo, quasi vergognandocene.
So però che in un cassetto della sua nuova e modernissima casa d’adulta, con ogni cura lei custodisce la moneta d’oro di quel pomeriggio.
Un regalo prezioso o un’indecifrabile sfida, magari ad osare, a spingersi oltre, al di là dei confini del noto e dell’esplicabile?
Non riesco ancora a deciderlo.
Quello che però so con certezza è che vorrei avere una moneta di quel genere anch’io, da guardare ogni tanto.
Specialmente quando, nelle giornate d’estate, la nebbia all’improvviso si alza e fluttuando mi avvolge leggera.

(illustrazione di Franco Blandino)