L’arte non si può ingabbiare, in onore di Zehra Dogan

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EVA MAIO

Dal 16 novembre 2019 al 1 marzo 2020 al Museo Santa Giulia di Brescia sono esposte più di 60 opere di Zehra Dogan, giornalista femminista curda.
Si tratta di una straordinaria serie di “dipinti, disegni e lavori a tecnica mista realizzati dall’artista nei due anni di reclusione nel carcere di Tarso” (al sito bresciatourism.it).
Zehra Dogan ha espresso pienamente la sua resilienza grazie e tramite una potente sensibilità umana ed artistica. Ha vivificato i tempi e le limitazioni della reclusione sia nella capacità di coinvolgimento e comunicazione con le compagne di cella sia nell’inesauribile creatività messa in atto con mezzi più che poveri, proprio con gli scarti.
In questa genialità sovversiva ha usato ciò che aveva disposizione
resti di cibo, cenere, polvere, sangue mestruale e per supporti abiti usati, pezzi di vecchie lenzuola, vecchi giornali.
Ha mostrato che “l’arte non si può ingabbiare” (da Avremo giorni migliori catalogo Skira).
(Ulteriori informazioni sulla mostra e sull’autrice si trovano qui. Questa è un’interessante intervista con la curatrice Elettra Stamboulis.)

Sono vibranti le sue opere.
Vibrano
di poesia
politica
vita
comprensione ragione passione.
Non hanno retorica.
Spirituali e materiche.
Sognanti
e narrate con liquidi e polveri
che sanno di corpi
di cibi di avanzi
di stoffe già usate
di pezzi d’abiti già portati
di vecchi fogli di giornale.

E sono belle.

Sono eleganti.
Hanno l’eleganza delle cose vere
con dentro il passato remoto le dee gli avi
il futuro ardente del buono
il buono seminato a piene mani
nel presente
ora lì
e in spazio breve strappato
al regime
con ironia ed acume
sotto un letto
all’interno di carceri turche
in spazio così breve
e con così poche cose.
Poco importa.

E sono belle.

Sono opere che trasudano energia
calda
estrema felice dolente.
Hanno incistati
come benefico virus
cuciture di prossimità
brezze di voci
in esilio
respiri ampi
di solidarietà
quella femminile
atavica selvaggia
determinata battente
mattutina
consapevole saggia.

E sono belle.

*

Mano di Fatima

Che a giudicare il mondo
basta una mano
paziente
con vigile occhio
profondo.
Che a sovvertirlo
bastano vitali germogli
di libertà e rispetto
sulla fronte
e poi di me di te
di tante
il semplice volto
e mammelle di luce
ad allattare la pace.

*

Rompendo le catene

Divaricarsi
divaricare braccia piedi mani
fiorire in danze
e audaci cerchi
tramutare
ogni sgocciolìo di sangue
in movimento libero
sopra catene
verso nuvole e luna
andare
andare
e su onde
e sospiri
giungere tutte.
Divaricarsi
oltre le spine
e farsi rami boccioli
profumi.

*

Cattività dei sogni nostalgici

Straripano
i sogni
s’accovacciano
in ogni anfratto di carne
in ogni angolo di pelle.
Sono dentro
sono fuori
sono fatti del tuo sangue
del mio del tuo respiro
dei miei sospiri dei tuoi.
Sono pesanti
sono leggeri
sono diafani
sono assordanti.

Straripano
fanno corona a ciglia
a capelli
sbocciano e urlano
quei sogni.
Incubi speranze
eruzioni di vita di morte
discese negli inferi
ali voli e appigli
di artigli
pesanti leggeri
diafani assordanti.

*

Mugdat Ay ucciso all’età di 12 anni

Occhi di ragazzo
dormiente
su corpo ricamato
tutto.
Elegante
quel corpo rannicchiato.

Un cosmo.

Rappreso in poco spazio
calato
in utero di terra
e sabbia ocra
rivive
in tela resistente.

Un cosmo.

Stampato negli occhi
di chi guarda
ne scandaglia fiero
le coscienze
e il mondo fatto caos
irrompe.

Domanda.

*

Afrin

Un cuneo
di popolo di gente
tutte donne
che sono volti sangue amori
piedi dolenti mani stanche
e vanno.

Dietro
alberi esili belli
piantati da poco
con rami e foglie
che non sanno
per chi fiorire ancora.

E case vuote
a lato
con bocche aperte
occhi smarriti
ferme in attesa
gravide di pianti.

E quell’uomo
laggiù
a martellare il tempo
oscuro degli addii
a scandire le ore
del coraggio.

Non c’è che sangue
a colare lento
a tratti rappreso
dal ferro incrociato
dalla camicia
di un soldato.

Appeso
in alto l’elmetto
lontano
dai volti della gente
irrigidito netto
lontano.

*

Le macchie

Le macchie
capitano precipitano
su qualcosa che sotto
se ne sta disteso
ignaro.

Le macchie
sono gocce di liquidi
strusciamenti di polveri
un po’ guidati
ad inseguire un sogno.

Lo intrappolano
nei quotidiani odori
di cibi spezie lacrime
sangue sudori
residui di qualcosa cenere.

Quel fitto sognare
in coro è coricato lì
in stoffa arazzo
sottoveste camicia
foglio di giornale.

Intrappolati in macchie
quei sogni
partiti da ventri di dolori
giungono a veleggiare
negli occhi di noi.

Così veniamo a sapere
le cartografie
del libero lottare
di donne incarcerate
compagne sorelle.

Compagne sorelle
a concepire
senza seme d’uomo
forme lucenti
colori
e partorire vita.

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Senza titolo (due opere pagg. 48-49 del catalogo Ed.Skira)

Con i capelli confusi
a guardare lontano
due donne sedute
in un abbraccio
le vediamo di schiena
ma lo sappiamo
hanno lunghe ciglia
iridi audaci
a carezzare il futuro.

*

Corpi di donne – in molte opere -

Non scappano
quei seni
quelle gambe
quei grembi
che loro la vita
lo sanno
che è divina
dal lottare col male
non fuggono
quando tutto
attorno
si fa rapace e freddo.

Sono brividi di cielo
i loro occhi
anche se chiusi
lembi di rugiada
i loro fianchi
incistati nel cuore
le loro madri
le sorelle
le feste
la terra
e quei profumi
delle paci perdute.

Non scappano
s’uniscono
si torcono
s’appoggiano
l’un l’altra
quelle carni
odorose di latte
di miele di sangue
sorrisi ferite
che loro lo sanno
che la vita
è divina.