Dare nell’occhio

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FRANCES FAHY

Se vedessi una come me, una cameriera ventiquattrenne magra, un metro e ottanta, bionda dai tipici tratti nordici, che trasporta un vassoio carico di bevande e che cerca di dribblare tra i tavoli sul suo tacco dodici, in un affollato pub della Londra bene, direi: “ Quella vuole proprio essere notata o, se no, vuol proprio soffrire.”

A proposito, mi chiamo Olga Kipras.

Avevo vent’anni quando mi trasferii dalla protetta comunità rigorosamente lituana nella zona di Newton a Londra, dove ero vissuta da quando arrivai in Gran Bretagna da bambina, con la mia famiglia. Da quando ho spiccato il volo la mia capacità di sopravvivenza si è alquanto affinata. Il mio terzo lavoro part-time, dopo aver finito la scuola, mi aspettava ai tavoli dalle 18 all’ora di chiusura, di solito mezzanotte, sei sere alla settimana al pub The Bark and Trunk, poco oltre King’s Cross. L’orario mi era congeniale dato che stavo frequentando un impegnativo corso di Direzione Aziendale. Una paga ragionevole e le mance hanno reso concreta la mia nuova indipendenza. E anche lieta, dal momento che allora ero felicemente innamorata di Richard, il cantante americano che pensavo fosse l’uomo della mia vita. È risultato che non lo era.

I miei compagni di lavoro erano Brendan, un tizio irlandese musone, con un debole per le canzoni malinconiche nel suo nativo gaelico e Gillian, una spumeggiante ragazza gallese di un metro e cinquanta. Gillian e io chiacchieravamo un sacco del più e del meno.

Come dicevo, la vita procedeva bene. Finché The Bark and Trunk non cambiò direttore. Il nuovo proprietario era un turco robusto di mezz’età di nome Benaz Charderov, che, quando faceva nuove conoscenze, aggiungeva sempre: “Sono curdo”. Quindi, lo chiamavamo Curdo. Circa due settimane dopo il suo arrivo, Curdo mi prese in disparte. Me l’aspettavo dato che l’avevo visto lanciarmi occhiate di tanto in tanto. Un mio ‘no’ avrebbe significato che dovevo cercarmi un altro lavoro.

“Ti ho vista. Tu no flirtare con clienti, Olga.”

“Io non flirto coi clienti, signore, ma devo essere cortese.”

“Non flirtare, senti me?”

“Sì. È tutto?”

“No. Un’altra cosa: voglio che indossi un altro tipo di scarpe. Le scarpe da tennis non vanno bene per questo lavoro.”

“Ma sono comode.”

“No, signorina Olga, tu, da ora in poi, indossi i tacchi. Bei tacchi alti sexy.”

“Perché?”

“No bisogno di perché. Io ti pago. Tu indossi i tacchi.”

Prese una banconota da 100 dal portafoglio.

“Qua: compra belle scarpe rosse con i tacchi e indossale domani sera. E sempre pantaloni neri. Sempre.”

“Ho delle scarpe rosse. Non mi servono questi soldi.”

“Prendili, prendili. Rosse, sexy, tacchi altissimi solo domani. Tutti gli altri giorni tacchi neri. Ok?”

Mi sentii in imbarazzo, poco professionale, osservata, ridicola. Richard non era affatto contento del mio look ogni volta che  passava dal pub quando era a Londra. Una delle rarissime espressioni facciali di Brendan suggeriva che non lo era neppure lui. In effetti, suggeriva che fosse alquanto disgustato. Gillian pensava che tutto ciò sconfinasse nel grottesco.

Qualche giorno dopo mi venne offerta un’altra banconota da 100.

“Domani vorrei che indossassi belle scarpe bianche sexy.”

“Coi tacchi, immagino,” replicai. Stava proprio cominciando a seccarmi. Presi i soldi a dispetto delle mie remore.

“Certo, mia cara. Tu rendi il nostro pub assai speciale.”

“Se lo dici tu.” Almeno non aveva provato a palpeggiarmi.

Questo fu l’inizio di quello che ricordo come il mio Periodo dei Tacchi. Il mio capo non voleva che flirtassi coi clienti, ma dovevo indossare scarpe “sexy”. E sia. Al mio paese si dice: “Lega l’asino dove vuole il padrone.”

Anche il comportamento più bizzarro può diventare routine. Presto seguirono un po’ di lusinghe e la richiesta divenne un ordine. “Domani bianche, signorina Olga.” “Domani rosse, signorina Olga.”

Altrimenti indossavo tacchi neri. Il Periodo dei Tacchi durò circa sei mesi. Un sabato sera arrivai al pub, nello zaino i tacchi bianchi. Avevo incatenato la bici alla ringhiera vicina quando vidi il pub chiuso e un poliziotto in piedi all’esterno.

“Signorina Kipras?”

“Sì?”

“Temo che l’esercizio resterà chiuso fino a nuovo ordine. Le dispiace venire con me a fare una deposizione alla stazione di polizia?”

“Cosa?”

“Parla inglese, signorina?”

“Certo che sì. Perché devo venire alla stazione di polizia?”

“Temo di non avere facoltà di rispondere a nessuna domanda, signorina Kipras.”

Cominciai a digitare il numero di Brendan.

“Quello lo prendo io, se non le dispiace. Nessuna chiamata consentita, per il momento.”

Ci volle un’ora di reiterate risposte a reiterate domande per far capire agli ufficiali che mi interrogavano che non sapevo nulla di una rete di distribuzione di droga dal The Bark and Trunk.

“Riteniamo che lei, signorina Kipras, trasmettesse dei messaggi.”

“Non ho mai fatto una cosa del genere. Servivo da bere e per questo prendevo contanti o carte di credito. Pulivo i tavoli, asciugavo le bevande versate e vuotavo i bidoni dell’immondizia. Non trasmettevo nessun messaggio.”

“Abbiamo avuto un colloquio col suo collega, il signor Harman.”

“Oh, Brendan.”

“Sì. In effetti ha detto che probabilmente lei non lo sapeva.”

“Sapere cosa?”

“Che stava trasmettendo dei messaggi a qualcuno.”

“Ma non lo facevo.”

“Siamo convinti che ci sta dicendo la verità. Ma se ci nasconde qualcosa, deve dircela adesso.”

“Non ho mai trasmesso messaggi a nessuno.”

“Erano le sue scarpe.”

“Le mie scarpe?”

“Sì. Sappiamo che le veniva detto di indossare scarpe diverse, di volta in volta.”

“Sì, giusto. Ma che c’en…..?” Lasciai la frase a metà. Finalmente capii.

“Scarpe bianche significavano la consegna di un qualcosa. Rosse, di qualcos’altro.”

“Non ci credo!”

“Uno dei nostri agenti era un cliente abituale del pub. Ci ha parlato di tacchi eccentrici.”

La serata alla stazione di polizia è ormai un ricordo di qualcosa di arduo e surreale. Ricordo che ho cercato di richiamare alla mente quando cominciai a indossare le scarpe, quanto prendevo per indossarle, quando e quante volte cambiavo i colori. Ricordo che ho cercato di riconoscere delle facce da pile di fotografie,  che ho firmato moduli, che ho lasciato recapito, indirizzo e numero.

Alla fine, dopo che mi fu detto che mi sarebbero state recapitate  le mie paghe straordinarie e qualche risarcimento e di cancellare dal mio cellulare il numero del mio ormai ex capo, lasciai l’ufficio.

Il mio telefono squillò mentre sganciavo la bici dalla catena.

“Tutto ok?” Era il mio collega Brendan.

“No. Veramente, no.” Mi resi conto che ero provata da tutta l’ardua faccenda.

“Visto che siamo tutti e due senza lavoro forse potremmo incontrarci per bere qualcosa verso le 9?” suggerì. Doveva sentirsi allo stesso modo e, per quanto ne sapevo, non aveva molte persone a cui rivolgersi.

“Perché non facciamo due passi? Non sopporterei un pub stasera.”

“Seee…  a guardare le donne con i tacchi…”

“Non cominciare tu! Sono completamente distrutta.”

“Ti passerà.”

“Ho intenzione di fare una mega vendita di scarpe su ebay, Brendan.”

“Brava. Così si fa. Ti volevo chiedere, potresti raggranellare i soldi per un viaggio in Irlanda? Andrò a casa per qualche giorno. Ti va di venire?”

“Oh, grazie Brendan. Che carino da parte tua!”

“Seee… lo so.”

“Mi piacerebbe venire.” Cosa stavo dicendo? ”Ma verrò a una sola condizione.”

“Cioè?”

“ Voglio indossare scarpe da tennis per tutto il tempo.”

“Nessun problema. Ci vediamo tra un po’.”

“Dove sei adesso?”

“Veramente sono al di là della strada. Sei in forma. A una certa distanza!”

Bene! Chi l’avrebbe detto!

Un amico una volta disse: “I più grandi cambiamenti della vita sono quelli fortuiti.”

Aveva ragione.

(Traduzione di Giuliana Manfredi)

Margutte ha già pubblicato un racconto della stessa autrice: http://www.margutte.com/?p=1692

(Immagine di Lorenzo Barberis)