“Persona” di Fausto Paolo Filograna

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FAUSTO PAOLO FILOGRANA

I
Eravamo a Gallipoli notte piena
eravamo pochi e bianchi faceva freddo
non ho voglia di mangiare questa notte
eravamo suicidi e battezzandi
attraverso la strada principale si arriva presto
fiammelle sopra la spiaggia fino a chilometri dal mare
la bionda seduta è vestita uguale all’altra
e ha gli occhi di un uomo morto
fermate la bionda non sopravvivrà
ha gli occhi di chi se lo prende il mare
un tizio con una torcia è messo a scacciarci
siamo troppi e puri come bestemmie
siamo santi e tutti troppo prossimi alla morte
un’estrema pulizia regna incontrastata tra gli ombrelloni e il mare.

***

Una città ci deve essere
Ma una città ci dev’essere
e dal mare merita un excursus.
Insegne a forma di croce ne diffondono la luce intermittente
la città ne vive illuminata a volte sì e a volte no
– e nel complesso no –.
Un tizio un girovago solo intuìto dai passi
o solo immaginato incedere, qualcuno
con scarpe leggere passa sulle macerie
e rotola, coi piedi, o con le scarpe
pietre sulla strada di pietre
piedi bianchi che possiamo solo intuire
strada nera che possiamo soltanto immaginare
scostano e fanno rotolare
pietre e caclinacci e i ferri
dei lavori incompiuti e lasciati lì senza nome.
Resti dell’acqua
di quando c’era l’acqua
questo è quello che fa l’acqua: portare
restare
senza esserci più.
Non c’è bisogno di immaginare luoghi, antiche regioni
cantieri abbandonati, desolazioni
residui del mare è soltanto
terra, visitata durante una stagione estiva
e abbandonata sotto i vestiti delle donne
andate, e ancora immaginate
svestirsi e rivestirsi dopo un bagno
e lasciare ciò che erano e andare via
come se ne vanno i serpenti
terra
tanta, morta soltanto perché visibile
terra con non più acqua
nata (ma sarà
poi vero?) per morte.
Il mare ha lasciato carte di consumazioni e manciate di ossa
da calciare e spostare con la punta della scarpa. Vieni
guardiamo meglio
non ci è rimasta
che simbologia
e l’importanza
del nome. Il tempio
è rovesciato.
Gli atridi piangono le colonne.
Dio se n’è andato.
Questo cumulo di ossa
questa volta chiamiamolo madre
perché con amore va guardato.

***

III

Stabat mater
dolorosa, iuxta crucem lacrimosa
dum pendebat filium

Questo è un pianto, o Iscariota,
che non conosce mutamenti, come noi
non conosceremo salvezza: qui
è possibile soltanto acqua
e sabbia
sabbia
e acqua.
Come dirti tutto, Alice?
Come dirti
niente? Mentre il sole tramonta
e chiudo la finestra per guardarti,
mentre il mare
urla là fuori e mi è indifferente
perché tu
sei qui.
E penso VITA, VITA, VITA
VITA VITA VITA
vita santa,
vita grande, vita immortale
vita spogliata,
malata, abnegata,
storpiata,
putrefatta. Ma l’uomo, ti dico
l’uomo
è un fascio di responsabilità.

Svegliati, Alice
da questo sonno io e te non usciremo, da questo sogno
cantilenante. Un canto di madri proviene dall’eterno
portando l’eco dell’imprimatur.
Come i preti che cantano Dio
esse cantano il pianto
senza secolo,
senza giorno. Noi
imparammo una sola stagione:
quella che è tutte le stagioni:
quella del grano maturo
e del grano mietuto. Tutte ridicolezze,
momentaneità. Viene il sonno
piano piano, viene scuro; forse
un giorno ci riuniremo
nell’invenzione di un passato
o di un futuro.
Ma questa volta chiamiamolo
responsabilità.

Un rimasuglio di voce
ti arriva sbagliando incrociatore. Dici per sbaglio
è arrivato, non era per me, e intanto passa tutto
tutto passa e restano i miei errori
iuxta crucem
stabat mater.
Qualcuno guardandomi
penserà
in fondo è solo
un individuo.
E andrà via.

***

I testi qui riportati aprono e chiudono Persona, di Fausto Paolo Filograna (Giuliano Ladolfi editore 2017)

Fausto Paolo Filograna nasce a Casarano in provincia di Lecce nel 1992. Si laurea in Lettere Antiche nel 2014 e in Filologia Classica nel 2017, con una tesi sul teatro.
Si interessa di teatro, di cinema e di ogni arte. Studia drammaturgia, regia teatrale e pianoforte in conservatorio.
Nel 2016 va in scena come regista e drammaturgo con Le Baccanti, ovvero Il processo, riscrittura a due
delle Baccanti di Euripide. Si occupa di poesia, di teatro e di cultura, perché, come dice Artaud, «L’umanità ha fame».

Scrive Giuliano Ladolfi nella prefazione: «L’autore non esita a ficcare lo sguardo sulla “condizione umana”, egli non si limita a considerare la “fine dell’Occidente”, ma risale alle radici del problema, suscitando continuamente domande, prive di “possibilità” di risposte».