Un piccolo Re per tempi troppo grandi: Vittorio Emanuele III di Savoia.

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STEFANO CASARINO

Ora che alla chetichella la salma di Vittorio Emanuele III è stata tumulata in quello che qualcuno ha improvvidamente definito “santuario di campagna”, cioè nel magnifico Santuario di Vicoforte, aldilà delle polemiche su una decisione certamente discutibile da più di un punto di vista, è possibile un giudizio storico meditato sull’operato storico di questo monarca a più di settant’anni dalla sua morte?
Se spetta, come riteneva Manzoni, “ai posteri l’ardua sentenza”, noi siamo appunto nella condizione per formularla, questa sentenza, con pacatezza e con attento studio della storia: perché “i fatti sono gente ostinata”, come dice un proverbio, e valgono molto più delle interpretazioni, malevole o benevole che siano.

È un fatto che Vittorio Emanuele regnò per ben 46 anni, dal 1900 (salì al trono a 31 anni, dopo l’assassinio del padre cinquantaseienne Umberto I, in modo certamente improvviso e inaspettato, anzitutto da lui stesso) al 1946 (abdicò il 9 maggio di quell’anno): un lungo periodo, durante il quale si avvicendarono quasi una ventina di Primi Ministri e che gli permise di vedere e di essere diversamente protagonista di due conflitti mondiali, della trasformazione dello Stato da liberale ad autoritario, del fascismo e della tregenda della guerra di Resistenza e di liberazione.
Da iniziali posizioni di mitezza e di sensibilità verso le classi sociali più povere (fu chiamato addirittura “Re socialista” e non fu particolarmente amato dai cattolici, che conoscevano il suo scetticismo e la sua freddezza in materia di fede e che lo sospettavano di essere massone) divenne, grazie ad un’incredibile propaganda retorica, il “Re soldato”, il “Re vittorioso”.
Un altro fatto incontestabile, che forse non sarà politically correct ma che è bene ricordare a vantaggio delle nuove generazioni, è che la sua statura era di m.1,55 e che proprio per questo il minimo di altezza per poter essere arruolati nell’Esercito Regio venne ridotto a tale misura; diversamente si sarebbe dovuto riformare il primo soldato d’Italia!
All’inizio della prima guerra mondiale fu neutralista; poi condivise le posizioni interventiste e si fece spesso vedere al fronte senza mai intervenire direttamente nella gestione del conflitto. Dopo Caporetto la sostituzione del generale Luigi Cadorna col generale Armando Diaz fu voluta dai governi alleati: lui si limitò a ratificarla.

Ma fu nel fatale 28 ottobre 1922 che si richiese in modo particolare il suo intervento, quando l’onorevole Luigi Facta, allora Primo Ministro, gli chiese di controfirmare la dichiarazione, già predisposta, di stato d’assedio per bloccare la marcia su Roma.
Possediamo in merito la testimonianza di Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni (1931) e gli studi di Renzo De Felice: un altro fatto incontrovertibile è che il Re si rifiutò di firmare, accettò le dimissioni di Facta e il giorno dopo diede l’incarico di formare il nuovo governo a Benito Mussolini, che era rimasto a Milano, non certo fiducioso nell’esito dell’impresa.
Storicamente ed inequivocabilmente la responsabilità storica di non aver fermato il fascismo ricade tutta su Vittorio Emanuele III: perché non abbia firmato, a quali sollecitazioni, condizionamenti, pressioni abbia ceduto sono tutti elementi di discussione e di interpretazione.
Il fatto è che non lo fece, con le conseguenze che ben sappiamo.
E che forse non erano tanto imprevedibili neppure allora, vista la natura esplicitamente violenta del primo fascismo.
Due anni dopo, il 6 aprile del 1924 vi furono nuove elezioni politiche, svolte in base alla “legge Acerbo” – che prevedeva l’assegnazione in tutte le circoscrizione dei 2/3 dei seggi alla lista che raggiungesse il 25% dei voti validi – e in un clima di evidenti intimidazioni, denunciate da alcuni esponenti politici. Fu Giacomo Matteotti che il 30 maggio contestò nel suo discorso alla Camera l’esito di quella votazione, denunciando pubblicamente i tanti brogli: pochi giorni dopo, il 10 giugno, il parlamentare socialista fu rapito e solo il 16 agosto ne fu ritrovato il cadavere.
Come si comportò, cosa fece il Re in quel periodo complesso, certo il momento di massima debolezza e di massimo discredito del fascismo? Apparvero vignette sui giornali che indicavano Mussolini come il mandante dell’omicidio, ci fu persino una canzone anonima, “Il canto di Matteotti”, con un testo molto eloquente; l’opinione pubblica italiana ed internazionale, stante l’ottima reputazione di Matteotti all’estero, era molto critica e maldisposta verso il Governo.
E il Re? Fu un momento di grave crisi, che durò circa un semestre, non pochi giorni;  vi furono molte richieste di intervento del Re da parte di importanti politici. Il Re non intervenne, ancora una volta.
Anzi: nel novembre dello stesso anno firmò le famigerate “leggi fascistissime” che eliminarono tutti i partiti politici, tranne ovviamente quello fascista;  nel dicembre firmò prontamente la modifica dello Statuto Albertino, acconsentendo a che d’ora in poi il potere di nomina e di revoca dei Ministri spettasse esclusivamente al Primo Ministro, cioè a Mussolini, che però continuava a rispondere del suo operato solamente e direttamente al Sovrano.
Se si sta ai fatti, dunque, Vittorio Emanuele non seppe o non volle (e questo è un problema di interpretazione, che non modifica però in nulla la realtà) prendere le distanze dal fascismo, esercitare una qualche funzione di critica e di controllo e condivise in tal modo la responsabilità di aver trasformato lo Stato in senso autoritario e illiberale.

Si riscattò in seguito da questa evidente acquiescenza, che lo relegò ad un ruolo di secondaria importanza?
Stando sempre e solo ai fatti, la risposta non può che essere negativa.
Nel 1938 il Re firmò le leggi razziali, macchia indelebile della nostra storia – per questo oggi la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche in Italia, Noemi Di Segni, chiede all’attuale Ministro dei Beni Culturali, Dario Francheschini, di togliere il nome “Vittorio Emanuele III” dalle scuole e biblioteche pubbliche ancora a lui intitolate. Dai Diari di Galeazzo Ciano risulta che in privato il Re avesse espresso la sua contrarietà, ma in pubblico non rilasciò mai alcuna dichiarazione, avallando così ancora una volta la politica mussoliniana.
Come fece anche per la partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale: pure quella volta il Re, ostile alla Germania e ad Hitler in particolare, non fece sentire la sua voce di dissenso, pur essendo ben consapevole dell’impreparazione militare italiana.
Il sostegno della Monarchia al regime fascista venne meno solo e ben tardivamente il 25 luglio 1943: dopo che il Gran Consiglio del Fascismo votò l’Ordine del Giorno di Dino Grandi, il Re sostituì Mussolini, che fece arrestare, col Maresciallo Pietro Badoglio.
Fu quello un momento tremendo per il nostro esercito e il nostro Paese: come interpretò il Re il suo ruolo di Supremo Capo delle Forze Armate? Certamente fu sorpreso dalla firma dell’armistizio con gli Alleati il 3 settembre e, ancora una volta, non assunse alcuna iniziativa, accettando passivamente il piano di Badoglio, di abbandonare precipitosamente Roma per non cadere nelle mani dei Tedeschi e di fuggire a Brindisi, lasciando di fatto senza ordini e direttive il nostro esercito e senza neppure avvisare alcuni membri della propria famiglia, come la secondogenita Mafalda che, pur moglie di un principe tedesco, fu arrestata dai nazisti il 23 settembre e subito internata nel lager di Buchenwald dove morì il 28 agosto 1944.
La lapide che vi è oggi nel porto di Ortona, da dove il Re si imbarcò alla volta di Brindisi, conserva il seguente testo: “ Da questo porto la notte del 9 settembre 1943 l’ultimo Re d’Italia fuggì con la Corte e con Badoglio consegnando la martoriata patria alla tedesca rabbia. Ortona repubblicana dalle sue macerie e dalle sue ferite grida eterna maledizione alla monarchia dei tradimenti del fascismo e della rovina d’Italia anelando giustizia dal Popolo e dalla Storia nel nome santo di Repubblica 9.9.1945”.
Parole scolpite sulla pietra. Anche qui, si può aprire un lungo dibattito sull’interpretazione del fatto. Ma il fatto, nudo e crudo, resta: il Supremo Capo dell’Esercito abbandona il suo posto e non dà disposizioni, permettendo che il 10 settembre 1943 il Comando Supremo delle Forze Armate Tedesche comunicasse: “Le forze armate italiane non esistono più”. In dieci giorni vi furono 20.000 morti tra i soldati italiani e più di 800.000 di loro furono fatti prigionieri dai Tedeschi.
Il 13 ottobre 1943 da Brindisi Vittorio Emanuele III dichiarò guerra al Terzo Reich; il 12 aprile 1944 nominò il figlio Umberto Luogotenente del Regno e il 5 giugno Reggente.
Crebbero nel frattempo a dismisura le prese di posizione fortemente critiche dell’operato del Sovrano: pesarono in particolare  tra le altre quelle di Benedetto Croce (“Fin tanto che rimane a capo dello Stato la persona del presente re, noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci ed infiacchirci, che riemergerà più o meno camuffato”) e di Arturo Toscanini (“Sono fiero di tornare quale cittadino della libera Italia, ma non quale suddito del re degenerato e del principe di casa Savoia”).
Il 9 maggio 1946 a Napoli Vittorio Emanuele II abdicò a favore del figlio e si recò in esilio prima del referendum istituzionale ad Alessandria d’Egitto dove morì il 28 dicembre 1947.
Questi i fatti che devono essere richiamati alla memoria.
Ogni momento storico esige che chi ha responsabilità importanti interpreti almeno dignitosamente il proprio ruolo, si dimostri almeno adeguato ad affrontare i problemi che si presentano.
Vittorio Emanuele III ne affrontò troppo male parecchi, segnalandosi più per inazione e omissioni che per spirito di iniziativa e capacità di comprensione intellettuale e di reazione morale. Commise errori imperdonabili di valutazione, non fece quanto era assolutamente in suo potere per evitare all’Italia un destino tremendo. Questa è, comunque la si voglia mettere, storia. Che dovrebbe essere acquisita, se solo la si continuasse a raccontare e a studiare.