Un antidoto alla trivialità

lemaitre 1GABRIELLA VERGARI.

Ci sono libri che segnano. Come negarlo. Ma trovarli in questi tempi di titoli rutilanti, rutilantissimi, ma per lo più duraturi quanto l’espace d’un matin  e spesso ahimè esangui o precotti come qualunque altro scatolame  pret a manger, eccolo il punto! Ḕ stata perciò una vera sorpresa essermi da recente imbattuta in due proposte “forti” e per così dire fuori dal coro, non solo per plot e tematiche  ma soprattutto per  felicità di scrittura.  “Una scrittura splendida, dura, efficace come un pugno in faccia. Leggete questo libro grandioso e rimarrete stupefatti” commenta l’Express dalla quarta di copertina del primo, Ci rivediamo lassù, di P. Lemaitre, vincitore del Prix Goncourt 2013 ed eletto migliore romanzo dell’anno (2014) dalla rivista Lire, con il quale, fin dall’incipit, si viene proiettati nella sconvolgente realtà del primo conflitto mondiale: “Chi pensava che quella guerra sarebbe finita presto era già morto da molto tempo. In guerra, per l’appunto. Così, in ottobre, Albert accolse con un certo scetticismo le voci di un armistizio imminente. Non diede loro maggior credito di quanto non ne avesse dato alla propaganda iniziale secondo cui, per esempio, le pallottole crucche erano così molli da spiaccicarsi sulle uniformi come pere troppo mature, facendo crepare dal ridere i reggimenti francesi. In quattro anni, Albert ne aveva visto una marea di gente morta dal ridere beccandosi una pallottola tedesca.” Moltissime le pagine degne di una citazione, così come del resto i personaggi, dallo scioccato protagonista, Albert Maillard, che per un debito di gratitudine si trova a sopravvivere in un gorgo allucinato di esperienze “estreme” pur riuscendo — rassicurato dalla riproduzione di una testa di cavallo — a curare, mantenere e proteggere l’amico orrendamente mutilato cui deve la vita, alla dolcissima ma a suo modo cinica Madeleine  Péricourt, ad una pletora di funzionari inetti o ottusamente servili o proni alla corruzione,  all’ambizioso e spregiudicato antagonista, il tenente Pradelle, che lucra senza scrupoli sull’appalto per l’esumazione delle spoglie dei soldati seppelliti al fronte. Grazie alla disinvoltura con cui egli gestisce l’incarico ottenuto, veniamo così a constatare quanto, più della guerra, possa forse essere crudele e disumano il dopoguerra, a maggior ragione quando pretenda di glorificare i caduti senza però curarsi dei reduci, lasciati nella loro grama condizione di emarginati. Ma chi resti “eccentrico” rispetto agli eventi –ovvero nel caso in specie l’artista Ḗdouard Péricourt, già in guerra col suo granitico e ricchissimo padre ancor prima di partire per la trincea –, può tuttavia trovare una via di sopravvivenza  nel farsi beffe di tutto al punto da orchestrare una terribile truffa che, nel romanzo, assume anche un po’ il sapore del contrappasso o del bilanciamento, dato che “erge il sacrilegio allo status di opera d’arte”. Straordinario e di grande efficacia rappresentativa pure lo strampalato ispettore Merlin, per il quale l’autore stesso sostiene di essersi liberamente ispirato al Cripure di Louis Guilloux. A lui, che è  il carattere, forse più lugubre, ma di sicuro più respingente tra tutti, nella sua tetragonica onestà – quasi simbolicamente a sottolineare come la verità possa talvolta essere sgradevole nella sua silhouette voluminosa ed insieme scheletrica? – vengono dedicate pagine d’una finezza introspettiva tale da richiamare  le memorabili descrizioni dei romanzieri russi sugli  impiegati-tipo. Mirabile, ad esempio, quel suo altalenare tra la trasandatezza esteriore e l’interiore rigore deontologico che gli consente di resistere perfino al miraggio di un tardivo  avanzamento di carriera, lasciandolo rinunciare alla chimera di un ruolo ben più rilevante rispetto a quello ancora ricoperto alle soglie della pensione. Ma, con sottile ironia, sarà proprio lui, l’ultima ruota del carro ministeriale, a rappresentare l’ingranaggio  “deviato” e non “oliabile” su cui la grande macchina della malversazione  si incepperà inesorabilmente.

di-polvere

All’altro conflitto mondiale fa invece a suo modo eco il secondo romanzo, Di polvere e di altre gioie, di G. Truini — giovane scrittore di Amaseno (provincia di Frosinone) –, con la vicenda di Galatea, detta Prima per distinguerla dall’omonima nipote, detta Seconda. Ma anche, a ben vedere, con le svastiche che, equivalenti noir dei sassolini per Pollicino, indicano a mano a mano il percorso verso l’identificazione dei cattivi di turno, sadici e pazzoidi torturatori di prostitute. E, detta così, potrebbe sembrare di trovarsi di fronte al solito poliziesco o detective story più o meno efferato. Niente di più falso, dato che la trama di fondo, cui se ne innescano altre secondarie, diviene l’occasione per l’interazione di personaggi davvero interessanti ed insoliti e soprattutto per la riflessione sulle tante distorsioni del nostro tempo, a cominciare dal rapporto deviato e deviante con i media e la televisione. Nella quarta di copertina si riportano due battute: “Sono lieto di annunciarle che domani potrà salire sulla sedia elettrica.” “Oh, grazie, rispondo al boia ridendo.” La sedia elettrica è quella autentica, ma un po’ meno letale del solito. A cambiare è invece il contesto, che è quello di una trasmissione televisiva, seguitissima da un pubblico che finisce per differire poco o nulla  da quello dei ludi gladiatori dell’antica Roma. Anche in questo caso, come in Ci rivedremo lassù, a fare inceppare o addirittura saltare il micidiale ingranaggio sarà un “ultimo”, ossia il protagonista, Oscar Fiori, esperto di figure retoriche, che non percependo lo stipendio da mesi deve a qualunque costo procacciarsi delle entrate per mantenere la sua poco convenzionale ma unitissima famiglia. Particolarmente amaro (e si spera non profetico, dati certi aspetti dell’attuale riforma renziana della scuola) il penetrante confronto tra Oscar – che è stato dato per morto da una stampa tendenziosa — ed il suo preside : “ Mi porta in una stanzina laterale, di quelle vicino ai cassonetti, credo che sia l’infermeria. Si siede su una delle due sedie, temo che voglia farmi distendere sul lettino. – Signor Fiori, dice, doveva avvertirci immediatamente. I ragazzi sono rimasti sconvolti dalla notizia della sua morte.—Evidentemente, il non aver soddisfatto le aspettative degli studenti è più grave che continuare a respirare. – Ci dispiace molto. – Di cosa? Che io sia stato dato per morto, che sia vivo o che non vi abbia avvertito immediatamente? E poi perché usa il plurale? A chi si riferisce? – Non è semplice per noi, dopo tutto quello che ha passato. – Tutto quello che ho passato, cosa? – Però io debbo pensare alla scuola, al suo buon nome e alla stabilità dei miei studenti. – Stabilità? Crescerli come mostri sentimentali, vorrà dire. – Purtroppo, e mi rincresce … — Se c’era Galatea Prima l’avrebbe appiccicato a quel muro a faccia in giù e gli starebbe urlando insulti antifascisti come fossero avemarie. Ma io ho capito, mi basta.” Fortuna che poi (fors’ anche con la complicità di una particolare Madonnina, “esperta di counseling” oltre che di escatologia cristiana) gli eventi si intrecciano fino a consentire nuovi equilibri e maggiori consapevolezze, ma principalmente  lo scandaglio di sentimenti arricchenti e sinceri, unico vero antidoto alla miseria ed alla trivialità dei nostri tempi.