Le Sirene eterne: ciclicità e attualità del mito

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GABRIELLA VERGARI

Le Sirene eterne, questo il titolo che A. Staüble[1] ha dato ad un suo studio, nel duplice intento di rilevare la permanenza dell’eredità classica e biblica in alcuni autori della letteratura italiana,  nonché ribadire  la vitalità di una tradizione  imperitura e capace, a suo parere, di contrassegnare l’identità  culturale non solo della “ vecchia” ma anche della  “nuova”  Europa.

E Maurizio Bettini ha da recentemente inaugurato la serie «Mythologica» per esplorare le innumerevoli metamorfosi a cui i miti classici, dall’antichità fino ai giorni nostri, sono andati soggetti fra racconto, immagini e interpretazione. Il mito infatti non si è mai esaurito – c’è sempre un’altra versione da leggere, il mito non si è mai concluso   – c’è sempre un’altra versione da scrivere.

Sempre dunque affascinante sondare i lasciti del patrimonio antico alla nostra attualità, ma ritengo lo sia ancor di più scoprire che il rapporto continuità/alterità del presente col passato non viene in fondo contrassegnato da soluzione di continuità neanche in quelle epoche a spiccata e/o dichiarata vocazione anticlassica, come, ad esempio, lo scorso Novecento.

Non meno interessante è d’altra parte constatare come la riflessione sul mito, quale categoria simbolica, lungi dall’essersi mai esaurita o aver perduto valenza, continui a coinvolgere ed interessare gli intellettuali  di tutti i tempi e latitudini, forse perché – riprendendo un’affermazione di  J. Goetz[2] – il mito non fa che esprimere le strutture archetipiche dell’esistenza, rivelandoci un ordine, dei modi di essere universali e permanenti al di sotto delle apparenze.

Esso perciò non si configura soltanto come racconto per antonomasia, inteso ad attestare verità di ordine magico-religioso, ma attraverso un proprio inconfondibile linguaggio mira soprattutto a rappresentare una ricerca di conoscenza, chiarezza e consapevolezza nel disordine dell’esperienza.[3] Si pone, cioè, come chiave interpretativa e rappresentazione simbolica di avvenimenti, avendo per fine di garantire le condizioni (o certe condizioni) dell’universo, della realtà o della società ritenute necessarie alla collettività che gli ha dato voce. Per questo il mito tende per sua natura[4]   all’essenzialità, all’esemplarità ed alla ciclicità.

[ testimonia …] il ritorno del sole (ogni mattina, dopo il solstizio, dopo l’eclissi, ecc…), il ritorno della luna (datrice di rugiada, fiaccola della notte), degli astri in quanto, con la loro vicenda esemplare, garantiscono nascita e rinascita, immediatamente o attraverso la procreazione (e quindi attraverso una serie di istituti sociali), o in quanto sono fuoco e permettono, o “sono” la vita, etc…[5] .

Ora mi pare sia proprio quello ciclico l’aspetto del mito meglio colto dai letterati italiani nella seconda metà del Novecento, intendo in particolare Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini[6], i quali, pur approdando ad esiti assai diversi tra loro, hanno a lungo riflettuto sulle questioni sopra esposte.

Quest’unicità del luogo è parte […] di quella unicità del gesto e dell’evento, assoluti e quindi simbolici, che costituisce l’agire mitico. Una definizione non retorica di questo sarebbe: fare una cosa una volta per tutte…e inoltre: Il vero mito non muta valore [… ] è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori dal tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo.

Così Pavese espone il proprio pensiero sull’argomento in  Feria d’agosto, l’opera che, pubblicata presso Einaudi nel 1946, contiene, oltre alle prose di carattere squisitamente narrativo, un insieme di saggi, teorizzazioni e dichiarazioni di poetica.

E tuttavia: Ciò che è accaduto accadrà.

Tante pagine de Il mestiere di vivere insistono su questo tema del ritorno, che è anche segno dell’ineluttabilità di un destino al quale risulta impossibile sottrarsi  e si consolida nella  metafora dell’espatriato,  di colui cioè che, dopo essersi sradicato dal proprio mondo, cerca invano nel ritorno/nostos ai propri luoghi natii un recupero del passato e dell’infanzia[7] (si veda, a mo’ d’esempio,  l’Anguilla de La luna e i falò).

E ancora: Non esiste un vedere le cose per la prima volta: quella che conta è sempre la seconda[8], ma pure: Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose per la prima volta, ma sempre una seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo.

Questo modo di procedere  (non proprio privilegio di chi fa della poesia è questo tesoro di simboli […] ma bagaglio sovranamente umano, necessario a serbare la coscienza di sé e insomma a vivere) non genera tuttavia una mitopoietica collettiva ed universale, ma  una assolutamente personale ed individuale. Si delinea così una sorta di  “ mitologia” pavesiana  che sempre muove al recupero, purtroppo destinato a risolversi in negazione, di un rapporto non più sofferto ma integrato col mondo e la natura. Ecco l’immagine-simbolo del paese, antidoto alla solitudine, nesso mentale, mnemonico, sentimentale, ma anche fisico, col mondo dell’infanzia e col tempo primigenio[9].

Per P.P. Pasolini[10] l’unica vera grandezza dell’uomo consiste, invece, nel suo destino di morte[11], nel suo continuo e complesso dilemma. Sulla base di questa identità, lo scrittore può quindi sostenere, in una recensione del 1974 a  Mito e realtà di M. Eliade, che i modi di essere e di pensare dei popoli arcaici sono sia cronologicamente che idealmente […] contemporanei a noi, perché è chiaro che niente in noi va distrutto e tutto coesiste.

La critica che Pasolini muove alla cosiddetta “modernità”, insieme alla constatazione della sostanziale ciclicità del tempo, incapsulato in un assoluto immobilismo di fondo, lo induce al recupero del mito classico[12], accostato prima per via diretta grazie all’attività di traduzione delle tragedie greche[13] e poi anche con l’esperienza cinematografica fatta e in qualità di regista e in quella di sceneggiatore.

Sarà in particolare con Edipo Re[14] che Pasolini opererà una sostanziale fusione dei tempi narrativi, incastonando il tempo della vicenda mitica all’interno di due (l’iniziale e la finale) ambientazioni moderne. Sono giunto. La vita finisce dove comincia dirà allora Edipo, rivelando anche la volontà di Pasolini di richiamare anche l’ultima tragedia sofoclea, l’Edipo a Colono.[15]

Il presente rinnova dunque il passato allo stesso modo in cui quest’ultimo contiene il presente, cosicché la cifra più caratterizzante del rapporto di Pasolini col mito si coglie in definitiva nell’anelito al recupero del sentimento del sacro grazie alla fusione dell’elemento mitico con quello ideologico e polemico, in una costante, lacerante, spesso incomponibile tensione tra  “natura ” e “ civiltà ”[16].

E’ ancora una volta la morte, simboleggiata dall’Orca, mostro terrificante e fetido, il nucleo tematico di fondo pure della voce di Stefano D’Arrigo[17]. Autonoma e personale, essa sceglie la linea dello sperimentalismo, della esasperata letterarietà, dell’affabulazione fantastica e a tratti barocca, nel celebrare il  nostos  del proprio “eroe”, ‘Ndrìa Cambrìa, in una terra che smarrisce subito i contorni realistici per divenire approdo, termine ultimo di un viaggio epico, alla ricerca di sé e del proprio destino. Muovendosi per cerchi concentrici a mantenere una costante unità, il romanzo presenta una messe di personaggi, figure, sogni e visioni, simboli e luoghi mitici, conformandosi nel suo ampio dispiegarsi al ritmo della vita e dell’universo. Così che, se per lo sperimentalismo linguistico che la caratterizza l’opera sembra collocarsi su un piano di novità, dall’altro essa dimostra di affondare le proprie radici nell’ humus più fecondo della tradizione occidentale, meritando di occupare a buon diritto un posto di rilievo nello studio dei rapporti tra il mito e la nostra letteratura contemporanea.

informazioni sull’autrice sono reperibili QUI  

Questo è il link al suo blog

(Foto di Lorenzo Avico)


[1]  Cfr., A.  STAÜBLE,  Le Sirene Eterne. Studi sull’Eredità Classica e Biblica nella Letteratura italiana, Ra, 1996.

[2]  Cfr.,  Dictionnaire de Spiritualità, Beauchesne Paris, 1980, s.v. Mythe.

[3] “ Attraverso il narrare si impara a dar senso all’immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale (…) Che è poi la funzione dei miti: dar forma al disordine dell’esperienza. “ sostiene U. Eco nelle sue Sei passeggiate nei boschi narrativi,  Mi, 1995, p.107.

E potremmo aggiungere con W. Burkert, Mito e rituale in Grecia, Roma-Bari, 1987, pp. 38-39: “ Il mito è spesso la prima e fondamentale verbalizzazione della realtà complessa, il principale modo di esprimersi su problemi dai molteplici aspetti e d’importanza collettiva.”

[4]  Cfr.  anche A. Seppilli, Poesia e magia,To,1971, passim.

[5]  Cfr. A. Seppilli, op. cit., p. 353.

[6] Sul ruolo di entrambi nell’apertura della cultura italiana all’internazionalismo, cfr., e.g., E. Perrella, Dittico: Pavese, Pasolini, Mi, 1979. Per il rapporto tra mito e letteratura, sempre interessante F.Jesi, Letteratura e mito, To, 1968.

[7] Ma anche, Il mestiere di vivere, To, 1952, p.113: «L’infanzia non è soltanto l’infanzia vissuta, ma l’idea che ce ne facemmo nella giovinezza, nella maturità, ecc. per questo appare l’epoca più importante: perché è la più arricchita dai ripensamenti successivi».

[8] Cfr., op. cit., p.142.

[9] Cfr., e. g., M. L. Premuda, I “Dialoghi di Leucò” e il realismo simbolico di Pavese, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, XXVI, Pi, 1957; A. Musumeci, L’impossibile ritorno. La fisiologia del mito in Cesare Pavese, in “Il portico”, 69, Mantova 1980, e A. Guidotti, Tra mito e retorica. Tre saggi sulla poesia di Pavese, Pa, 1981.

[10] Per una sintesi bibliografica sull’autore cfr. V. Mannino, Invito alla lettura di Pier Paolo Pasolini, Mi, 1990 e il più recente C. Benedetti, Pasolini contro Calvino, To, 1998.

[11] Cfr., G. Zigaina, Pasolini e la morte. Mito, alchimia e semantica del  “Nulla Lucente”, Ve, 1987.

[12] Cfr., e. g., U. Todini, Pasolini e l’antico. I doni della ragione, Na,1996, ma pure G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, Mi, 1994

[13] Per una rassegna di tale attività, cfr., e.g., G. Regoliosi Morani, L’enigma e il mistero. La lettura pasoliniana del mondo antico, in Zetesis, 1995/ 2-3, praesertim l’incipit dove si afferma: «Nella formazione di Pasolini la cultura classica gioca un ruolo fondamentale: ne forma l’ordito culturale, con cui si intreccia la trama fornita da diverse suggestioni novecentesche; presenta generi letterari, miti attraverso cui leggere la realtà, personaggi in cui identificarsi o attraverso cui purificarsi, un passato in cui tutto è già avvenuto. Fornisce soprattutto una tradizione, a cui l’autore dalle molte patrie (Bologna, il Friuli, Roma) sente essenziale ancorarsi, e ancorare una società dispersa, al di là di ideologie che dividono soltanto»

[14] Per un’analisi articolata del film, che è del 1967, cfr., R. M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Fi,1996.

[15] Nella prefazione alla sua sceneggiatura, Pasolini sottolinea: “ Edipo è morto. La morte ha operato una scelta perfetta e ormai inalterabile di ciò che egli è stato. La conclusione della sua vita è la condizione necessaria e insostituibile per fare della sua vita una storia. “ Sul punto cfr., ancora, G. Regoliosi Morani, op.cit.

[16] Il motivo sarà  ancora più esplicitamente chiarito e sondato nel film  Medea, girato tra il 1969 e il 1970, dove   l’universo arcaico, ieratico, clericale di Medea si dovrà confrontare col mondo di Giasone, l’eroe “attuale” (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico ma non si pone nemmeno questioni del genere. Eppure, anche in questo caso, nulla si perde, come dimostrano, da una parte, il sogno regressivo di Medea prima dell’uccisione dei figli e, dall’altra, la giustapposizione dei due Centauri, sia quello mitico che quello razionale, che risponderanno a Giasone: Noi due siamo dentro di te. Cfr., P.P.Pasolini, (a c. di J. Duflot), Il Sogno del Centauro, Roma 1983, passim.

[17] Cfr., E. Giordano, Horcynus Orca. Il viaggio e la morte, Na, 1984;  Id., Cima delle nobildonne o della metafora infinita. Saggio sull’ultimo D’Arrigo, in Studi e testi, 6, Edisud, 1989; C. Spila, Il mostro barocco. Letture di ‘Horcynus Orca’, Pe, 1997 

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