Il piacere del dovere

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA
Esiste una vecchia diatriba in filosofia morale – culminante nella cosiddetta legge di Hume – nella quale si contrappongono due posizioni etiche. L’una sostiene che sia possibile solo una morale descrittiva, e cioè che non sia legittimo, sul piano razionale, passare dall’osservazione alla prescrizione dei comportamenti, l’altra posizione sostiene invece che sia possibile individuare l’ordine di ciò che è il retto agire morale, che può pertanto essere razionalmente definito.

La prima posizione ha avuto in età moderna e postmoderna una discreta diffusione, non solo teoretica, ma pratica. Sono in molti a pensare che la varietà dei comportamenti umani (come ricordava in altra epoca storica il sofista Protagora: “L’uomo è misura di tutte le cose”) non permetta di distinguere fra ciò che è buono e ciò che non lo è, con l’unica discriminante accettata, che però è tecnica più che sostanziale, di non ledere la libertà altrui, in quanto condizione pressoché indispensabile alla coesistenza fra persone.

Se il relativismo assoluto appare come la conseguenza più immediata di tale posizione, essa ha però il merito di porre attenzione a quella differenza specifica, nell’ordine della realtà, che esigerebbe esistenzialmente una presa d’atto, ma soprattutto una valorizzazione. Molto tempo fa mi stimolò a riflettere in questa direzione un bellissimo film diretto da Stephen Daldry e uscito nel 2000, campione d’incassi in tutto il mondo, “Billy Eliot”, che narra la storia di un ragazzino che, nella cittadina mineraria di Durham, nell’Est dell’Inghilterra, vuole diventare un ballerino di danza classica ma si trova a dover combattere con le sole armi della sua viscerale vocazione contro i pregiudizi del padre, del fratello maggiore e dell’ambiente, che non trovano conveniente (o morale?) che un maschio si appassioni a un’attività che in quel contesto è ritenuta prerogativa femminile. Come è a tutti noto, il film si chiude con la conversione del genitore e del fratello alla scelta di Billy che, grazie anche al loro appoggio, potrà realizzare il suo sogno. Ma quanto si è detto per Billy Eliot, il giovane protagonista del film, pensate quanto vale – magari centuplicato – per tutti i pregiudizi che le donne hanno subito nei secoli anche nella nostra cristianissima Europa. E anche da questi sommari esempi si può comprendere quanto l’attenzione al particolare ci abbia aiutato a cogliere come ciò che spesso è stato ritenuto ordine morale fosse soltanto ordine sociale, potere politico, convenzione culturale, quando non mero pregiudizio.

Ma è sufficiente tale constatazione della priorità che ha il singolare nell’esperienza dell’esistenza a escludere quel passaggio al dover esser che ci permetterebbe di individuare obiettivi e valori condivisi?

Molti ritengono che non si può conoscere il senso perché non si può conoscere la totalità. E forse, anche a causa di una civiltà praticamente materialista, siamo condizionati a pensare la totalità in termini fisici ed estensivi, come se per conoscere tutto dovessimo percorrere le galassie dell’intero universo fisico (ricordo la frase universalmente attribuita all’astronauta russo Jurij Gagarin, primo uomo a volare nello spazio nel 1961, “Non vedo nessun Dio quassù”, in realtà coniata probabilmente da Chruščëv a fini propagandistici). Ma è questa l’esperienza della totalità? In realtà, se ci concentriamo sul nostro vissuto, non possiamo non cogliere in esso una esperienza della totalità, sia pure di una totalità prospettica, situata, condizionata da una posizione di partenza, come da una finestra, eppure virtualmente aperta al tutto, inclusiva di esso, e dunque rivelativa del senso, atta ad interpretarlo, a coglierne la risonanza in sé. E d’altro canto se, come dichiarato da Papa Francesco, non si può che tendere al bene a partire dalla propria coscienza, è anche vero che tale dover essere è talmente intrinseco al soggetto individuale in questa prospettiva, da scalzare le comode certezze dei prescrittivi di professione.

Come ciascuno sia in grado di tendere a tale perfezione nelle alterne vicende della vita e della storia, dagli abissi e dalle vette in cui il destino lo ha posto, è difficilmente riducibile ad un minimo comun denominatore palese e manifesto, proprio perché gli esiti di tale tensione sono all’apparenza contraddittori, come rivela il caso di un bambino in una favela sudamericana che si alza ogni mattina con un solo scopo, rubare qualcosa in giro per dar da mangiare al fratellino più piccolo, garantendone il mantenimento. Piccolo santo o piccolo criminale? E d’altro canto, il perbenismo di chi, instradato da un agiato contesto familiare, culturale e sociale, mostra interesse per il prossimo e vi si dedica nel tempo libero, è da ritenersi moralmente superiore?

Da qualsiasi angolo di mondo è possibile guardare al cielo: è un concetto senecano che ci aiuta a contestualizzare, a relativizzare e, soprattutto, a rivalutare quelle esperienze che non sempre comprendiamo nel segno di una vita che supera probabilmente le nostre aspettative e i nostri limiti.

Se attendiamo di essere perfetti infatti non lo diventeremo mai, e se attendiamo di esserlo per agire, ci condanneremo all’immobilità.

D’altro canto, come ho fatto spesso osservare ai miei alunni, quando volevano sostenere la equivalenza di tutti i valori, è la vita stessa che si ribella a questo estremo assunto. E dunque dicevo ai miei studenti: quando venite a scuola trovate aule riscaldate, professori e personale che vi salutano e si prendono cura di voi, ordine e pulizia; quando uscite trovate autobus con autisti che vi portano a casa, dove trovate delle pietanze calde da mangiare, ecc. E se a scuola trovaste freddo e sporcizia dovunque? Se il personale e i docenti fossero scortesi e indifferenti ai vostri bisogni, e i professori leggessero il giornale invece di spiegare, se gli autisti abbandonassero gli autobus e si fermassero al bar, se a casa il frigorifero fosse vuoto e la cucina a gas non funzionasse? Sareste ancora disposti a sottoscrivere che tutti i valori si equivalgono, e dunque anche tutte le azioni umane? O concordereste che fenomenologicamente i valori della cura e dell’attenzione, dell’impegno e della responsabilità sono superiori e senz’altro preferibili a quelli dell’egoismo e dell’inerzia, dell’indifferenza e dell’incuria, del cinismo e della violenza? Io credo di sì, e questa esemplificazione ci è stata utile più che altro per segnalare una direzione, un orientamento, e dunque un cammino che si prospetta per ognuno e che attraversa l’intero ordine della realtà esperita, declinandosi poi nelle infinite esistenze di cui pullula l’universo, con i rispettivi mezzi.

Nel perseguire tale orientamento al valore, per la coscienza razionale, una dicotomia almeno apparente sembra essere quella che contrappone la ricerca del piacere e l’attuazione del dovere. In alcune società passate, spesso preindustriali e attraversate da un senso quasi ieratico del sacro e del religioso, sembrava a tutti evidente la priorità del principio del dovere, per assolvere al quale si potevano chiedere anche i più aspri sacrifici individuali e sociali, nel nome del bene comune e di una finalità superiore. A dominare invece nella nostra civiltà tardo-capitalistica sembra essere il principio del piacere, concepito come istanza di realizzazione della propria personalità, a qualunque costo.

Eppure è esperienza comune che una ricerca del piacere fine a se stessa appare improduttiva, mentre all’attuazione del nostro intrinseco dover essere corrisponde sempre in qualche misura un senso di soggettivo appagamento, di piacere correlato, di gioia pura. Raggiungere un obiettivo per cui si è lungamente lavorato, avvertire di aver fatto ciò che era in nostro potere, agire secondo coscienza e dunque nell’ordine del perfezionamento proprio e d’altri, sono tutte esperienze che producono un interiore senso di espansione, di pace, di armonia.

Ovvio che se guardare a questa prospettiva induce ottimismo esistenziale, considerare quanto, in misura che è difficile oggettivare, il mancare o venir meno a tale spinta – per stanchezza o inerzia morale, ad esempio, oppure per una patologica disposizione volitivo-cognitiva – può provocare in termini di banalità, caduta o degrado a livello individuale e globale, sollecita senz’altro in noi un enorme senso di responsabilità personale. Perché la spinta al dover essere esige sacrifici, cui oggi non siamo più abituati come civiltà, in quanto esige il riconoscimento non solo dell’energia che ci abita, ma della direzione che a tale energia è sottesa e che comporta elaborazione di informazione, lavoro, disciplina, organizzazione, in una parola, elevazione e sforzo. E non immediato appagamento, disordine, casualità, condiscendenza e pigrizia morale.

È difficile pensare che tale lavoro morale, tale sforzo etico, tale impegno esistenziale possa tradursi in azione senza una almeno qualche embrionale fede/fiducia in una trascendenza della vita e del suo senso rispetto al nostro ego, e per questo ci sembra che il principio-trascendenza sia il più idoneo a rendere ragione della speranza e del dinamismo che è in ogni essere, in ogni coscienza. Anche chi lo nega, alla fine non può che affermarlo: chi si alzerebbe la mattina se non avvertisse, almeno implicitamente, un dover essere che travalica il suo benessere? Chi metterebbe in atto tutte le strategie che presiedono a un lungo processo educativo, alla formazione di una famiglia, all’acquisto di una casa, ma anche, più banalmente, al lavoro quotidiano, se non fosse convinto – anche solo a livello inconscio – che tali operazioni e fatiche meritano uno sforzo, perché quella realtà che sta oltre noi stessi davvero lo merita? E dunque c’è un’attesa, c’è un desiderio che in quell’attesa si orienta, e c’è un oggetto di quel desiderio che rinvia continuamente oltre il nostro sforzo, la nostra azione, le nostre povere acquisizioni… Ed è ciò che ci motiva ad agire e a muoverci perché – come recitano un film di successo e una bella canzone pop – domani è un altro giorno, ma anche – assumendo la citazione che ne fa una trasmissione televisiva – oggi è un altro giorno, in cui ancora una volta declinare la nostra attesa, il nostro desiderio, la nostra progettualità che continuamente ci sprona a impegnarci, a trascenderci oltre noi stessi.

(da Claudio Sottocornola, Tra cielo e terra, Centro Eucaristico 2023, versione integrale pp. 49-67; questa versione in Il Cenacolo, n.4-2022)