Alpini e letteratura. La I Guerra Mondiale (3)

Paolo Monelli

Paolo Monelli

PAOLO LAMBERTI

Paolo Monelli o l’alpino combattente

Paolo Monelli (Fiorano Modenese 1891 – Roma 1984), emiliano, interventista, si arruola come sottotenente degli Alpini, viene assegnato al Val Cismon (curiosamente lo stesso battaglione del reale “piccolo alpino”), combattendo in Valsugana e sull’Ortigara, poi comanda una compagnia di alpini sciatori e viene catturato dopo Caporetto; termina la guerra con il grado di capitano e tre medaglie.
Negli anni successivi inizia una carriera da giornalista che durerà mezzo secolo, scrivendo come corrispondente estero per il Corriere, La Stampa ed altri giornali nazionali; durante il fascismo si avvicina a Bottai, durante la guerra è richiamato come corrispondente di guerra, ma dopo il 1943 segue le vicende del CVL. Nel dopoguerra scrive sia reportage che romanzi, e il suo Le scarpe al sole godrà di buona diffusione anche nelle scuole, almeno fino agli anni Ottanta.
Le scarpe al sole. Cronaca di gaie e di tristi avventure d’alpini di muli di vino è scritto nel 1919 e pubblicato solo nel 1921, raggiungendo subito un vasto successo; la forma è quella del diario e delle notazioni sparse, inframmezzate da considerazioni, lo stile è sciolto e colloquiale, con inserti in dialetto, il tono è anti enfatico e spesso scherzoso, come per alleggerire le vicende, anche se non mancano interventi di riflessione sulla durezza della guerra, sull’umanità dei soldati e sulla polemica contro i comandi e gli imboscati. Se agli inizi non mancano echi gozzaniani (i prati verdigialli) e pascoliani (nell’aria c’è un odore di pan fresco/il buon odore delle lavandaie) soprattutto nell’ultima parte si nota un infittirsi di dannunzianesimo, che tradisce un chiudersi su di sé, perdendo efficacia.  Il libro è diviso in tre parti, nella prima si racconta del fronte della Valsugana a partire dal novembre 1915, con l’inserimento nel Val Cismon; nella seconda è raccontata la ritirata dopo la Strafexpedition nel 1916 e l’Ortigara nel 1917; nell’ultima la battaglia dopo Caporetto e la cattura, dopo che il suo reparto è stato sacrificato per proteggere la ritirata, infine i due tentativi di fuga dalla prigionia.
Nella prima prefazione, del 1921, si coglie la consapevolezza della irrevocabilità dell’esperienza della guerra: «Noi pure siamo nuovi, rinati dalle rovine di un passato morto […] quello che portammo di nostro alla guerra non lo riportammo indietro più […] la nostra giovinezza ha messo anch’essa le scarpe al sole». In quella alla IV, 1928, la dimensione polemica è più evidente: «Questo libretto, accusato di disfattismo da qualche eroe delle retrovie, accusato di cinica esaltazione della guerra da qualche utopista della pace perpetua, non è né inno né bestemmia, né celebrazione né deprecazione»; vista la data, l’apparente equanimità sembra più una critica al militarismo fascista.
“Mettere le scarpe al sole” significa morire, per gli alpini, e la presenza della morte è costante; però il modo di affrontare la crudeltà della guerra è per Monelli il concentrarsi sul quotidiano: «I morti puzzavano […] ma l’abitudine a quel tanfo era tale che la sensazione […] non toccava il fondo dell’animo preoccupato di tante altre cose più umili. Guai, a chi fosse vissuto sempre, in battaglia e in prima linea con l’allucinata nitidezza d’impressioni che trovate in […] Otto Dix, Der Krieg». Non manca però la consapevolezza della propria mortalità: «Anche a me può toccare la pallottola che piomba nel nulla, quella a cui non vorrei credere ancora» e della propria impotenza: «Questa è la guerra. Non il rischio di morte […] ma sentirsi così marionette nelle mani di un burattinaio ignoto»; e della morte comune ai due schieramenti: «Tu [un alfiere austriaco] eri morto da così poco, ed eri già nulla, più nulla, massa grigia destinata a puzzare rannicchiata contro la roccia». Vi è infine il senso elegiaco di una comunità con i caduti: «Non siete morti ancora, morti nostri che avete messo le scarpe al sole durante la pattuglia».
Le pagine più vive e coinvolgenti sono quelle sull’Ortigara, con i morti, i bombardamenti, la paura, «il vallone dell’Agnellizza colmo di morti, gli scheletri delle battaglie dell’anno passato, i cadaveri gonfi della battaglia di quest’anno che dura da 15 giorni. Ed un teschio sghignazza, lucido, accanto alla larva livida di un morto di ieri».
La montagna e i montanari sono uno dei temi di fondo, uomini e terra legati inscindibilmente; la montagna cancella le follie umane, è simbolo di persistenza e rinascita: «la trincea ulcera la tua cresta pura, e tu indifferente, montagna, ti abbeveri di cielo e di vento e non curi […] quando i piccoli uomini avranno chiuso il loro gioco, farai crollare le gallerie [...] livellerai il fianco sconciato dalla strada [...]  morti chiudi nel segreto delle tombe di ghiaccio»; ma è anche la spietata montagna delle valanghe: «il rombo desta raccapriccio: si balza fuori a tender l’orecchio, si parte per il biancore molle a prestar soccorso».
Gli uomini che la abitano vivono la guerra come una prosecuzione della vita di fatiche: «abeti e rocce e cielo [...] gli hanno sempre visti al lavoro questi figli della montagna e pare che a vivere tra queste cime non ci si senta bene se non faticando». La montagna li ha plasmati, non la retorica patriottica: «il concetto di patria coincide in essi con un senso oscuro ma efficace di dovere […] lo hanno appreso tra montagne rudi, ove la vita è segnata da sbarre definitive che non si possono varcare». E alla fine della guerra «non firmeranno nessun memoriale, non scenderanno a comizio, non brigheranno un posto alla pappatoia dello Stato. Non li troveremo più se non andandoli a cercare sulle montagne o fuor dei confini […] e il giorno che il Re manderà a dire che bisogna mettersi in fila e marciare per quattro si ricalcheranno in testa il cappello con la penna con qualche bestemmia innocua, e non domanderanno d’imboscarsi». Bestemmie innocue e vino sono gli unici sollievi per i soldati, loro compagni sono «i buoni muli, compagni della nostra guerra aspra»; ma anche in Monelli, come in Lussu, compare una scena di fucilazione, due alpini che non erano rientrati sull’Ortigara dopo una corvè; e la reazione dello scrittore è chiara: «comandanti di quartier generale, colonnelli della riserva, ufficiali dei carabinieri: ecco il Tribunale […] solo chi uscì vivo dalla maciulla del combattimento, solo chi strisciò all’attacco e sbiancò d’orrore sotto il bombardamento […] solo quello sarebbe il giudice competente, e darebbe sì forse anch’egli la morte, ma sapendo che cosa vuol dire».
Luogo comune dei libri sulla I Guerra Mondiale, luogo comune perché reale, è la polemica contro gli alti comandi e gli imboscati, anche se a differenza di Lussu negli alpini il rapporto anche con gli alti ufficiali è più stretto.  Così si descrive l’assurdità della burocrazia nel pieno della battaglia, che richiede «il numero delle cartucce sparate nel combattimento di ieri» o peggio, nel pieno dell’Ortigara, «una circolare che lamenta l’eccessivo consumo di pennini d’acciaio»; «nei comandi circolari circolarette circolarone; prospetti e specchi [...] tutto in triplice copia». E dopo il fallimento dell’Ortigara «i generali che hanno sbagliato i piani, i supremi reggitori che non seppero tenere le nostre conquiste e diedero ordini incoerenti e nefasti, blaterano ora, rivedono le bucce ai morti ed agli scomparsi, macchiano di burocratica sanie i begli eroismi». Anche su civili e retrovie il giudizio è duro: «arrotondino la pancia senza tremare i fornitori che ci hanno mandato queste bombe che non scoppiano e queste scarpe che scoppiano da tutte le parti»; e il civile a fine guerra che rinfaccia: «hai vinto la guerra e il pane cresce di prezzo e lo zucchero scompare e il carbone non viene e la Dalmazia non ce la danno. Fesso, valeva la pena che facessi il fesso su per la prima linea».