Dostoevskij a Firenze

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ANTONIO CAROLLO

Qualche giorno fa, passeggiando tra i turisti nel centro di Firenze, mi è venuto in mente il soggiorno di Fëdor Dostoevskij nella città. Anche lui faceva lunghe passeggiate per queste vie. Egli venne a Firenze la prima volta in compagnia del suo amico, filosofo e critico letterario, Nikolaj Strachov, nell’agosto 1862, dopo aver percorso l’itinerario: Ginevra, Moncenisio, Torino (vi pernottarono una notte), Genova, Livorno (in piroscafo), Firenze (in treno). Dalla stazione una carrozza li portò alla Pensione Svizzera di via Tornabuoni. Non si sa con precisione quanti giorni soggiornarono a Firenze, Dostoevskij parla di cinque giorni, Strachov di una settimana circa. Facevano delle lunghe passeggiate, discutendo gaiamente ma a volte anche animatamente. Strachov era razionale nei suoi ragionamenti, Dostoevskij passionale e fideistico. Il primo ricorda una vivace discussione in Piazza della Signoria: lo scrittore contesta il punto di vista dell’amico, cioè il concetto secondo cui un pensiero deve giungere inevitabilmente a una conclusione certa, perché chi afferma, per esempio, che due più due non fa quattro intende dire che ogni pensiero, anche il più assurdo ha una sua motivazione, contiene elementi di verità, non lo si può bollare secondo una logica astratta, “quindi è assolutamente ingiusto accusare chicchessia d’aver detto un’assoluta assurdità”. La sera si intrattenevano ancora in dotte e allegre discussioni, innaffiando le idee col generoso vino locale. In una lettera Dostoevskij scrive a Strachov: «Ricorda le nostre serate con le bottiglie di Firenze? Lei ogni volta era più previdente di me, si procurava due bottigliee io una sola, sicché, finita la mia, mettevo le mani sulla sua, ma non sono orgoglioso. Comunque passammo bene quei cinque giorni a Firenze». Non fecero solo passeggiate, visitarono la Galleria Palatina di Palazzo Pitti dove fu affascinato dalle Madonne di Raffaello, in particolare dalla Madonna della Seggiola. Visitarono anche la Galleria degli Uffizi ma, non essendosi per nulla preparati e non avendo un piano della visita, Dostoevskij presto cominciò ad annoiarsi e se ne uscì tra le proteste dell’amico. Altra notizia riguarda la sua frequentazione del Gabinetto G. P. Vieusseux dove trovava da leggere libri e giornali in lingua russa. Nel contempo lo interessavano molto i volti dei passanti, sui quali cercava di leggere i segni del disagio e della sofferenza. L’altro soggiorno a Firenze avvenne nel corso del suo cosiddetto secondo esilio. Per sfuggire ai creditori (aveva paura che lo mandassero in galera) e per cercare di curare l’epilessia, lui e la seconda moglie, Anna Grigor’evna, appena sposati, nel 1867, ripararono all’estero, ove rimasero per più di quattro anni, vivendo a Dresda, Ginevra, Vevey, Milano, Firenze e di nuovo a Dresda. Dolinin, redattore delle lettere di Dostoevskij, scrive: «trascorse questi anni in una profonda solitudine, straniero tra gli stranieri, occupandosi esclusivamente di sé, dei suoi pensieri e progetti, a quanto pare completamente avulsi dalle condizioni del luogo scelto come temporanea residenza». Dopo la perdita a Ginevra della figlioletta Sof’ja, di tre mesi, si trasferirono nel maggio del 1868 alla vicina Vevey, sulla riva del lago. Ma il dolore e l’umore tetro non davano tregua, non permettevano di godere delle bellezze di quel grazioso paese, rendevano dura la stesura dell’ultima parte de L’Idiota. Partirono per Milano. Qui ebbe un po’ di sollievo, il cambiamento d’ambiente, la nuova gente lo rianimarono, ma il freddo, la pioggia, la mancanza di notizie dalla Russia (non si trovavano libri e giornali russi) finirono per annoiarlo. Alla fine di novembre i due coniugi sono a Firenze. Prendono alloggio in un appartamento in via Guicciardini, n.8, vicinissimo a Palazzo Pitti. Dostoevskij scrive a Strachov: «Ora sono a Firenze e pare che debba rimanervi a lungo, almeno tutto l’inverno e una parte della primavera. Adesso Firenze è un po’ più rumorosa e variopinta: per le strade c’è una calca terribile. Molta gente è venuta a Firenze in quanto capitalee la vita è molto più cara di prima, benché assai meno che a San Pietroburgo».

In un’altra lettera indirizzata all’amico Majkov scrive: «Qui ho in mente un enorme romanzo, intitolato L’Ateismo (resti fra noi, mi raccomando), ma prima di accingermi a esso debbo leggere quasi un’intera biblioteca di atei, cattolici e ortodossi […] Firenze è bella ma molto umida. Eppure le rose fioriscono ancora all’aria aperta nel giardino di Boboli. E quali tesori si trovano nelle gallerie! Mio Dio! Nel 1863 (sbaglia data) notai la Madonna della Seggiola. L’ho guardata per una settimana e soltanto ora l’ho vista. Ma, oltre a essa, quante altre cose divine ci sono! Tuttavia ho rimandato tutto a dopo la fine del romanzo. Ora mi sono chiuso in casa». Verso la fine del gennaio 1869 termina L’Idiota, con un ritardo di dieci giorni rispetto alla scadenza concordata con Michail N. Katkov, l’editore. Non ne è soddisfatto, non è riuscito a esprimere nel libro tutto ciò che gli frulla nell’immaginazione. Non osa rimaneggiarlo per paura delle reazioni del pubblico e della critica che per mesi aveva seguito il romanzo a puntate sulla rivista Russkij Vestnik («Il Messaggero Russo»), diretta dallo stesso Katkov. Spedisce quindi il manoscritto della parte finale a San Pietroburgo. Il 6 febbraio scrive alla nipote Ivanova: «Qui a Firenze il clima per me è ancora peggiore che a Milano e a Vevey: ho convulsioni più frequenti. Due attacchi di seguito, a sei giorni l’uno dall’altro, hanno fatto sì […] che ritardassi di dieci giorni. E poi a Firenze piove troppo, ma in compenso quando c’è il sole è quasi un paradiso. Non si può immaginare niente di meglio dell’impressione prodotta da questo cielo, da quest’aria e dalla luce. […] Quest’anno di lavoro mi ha logorato tanto, che non ho fatto neppure in tempo a raccogliere le idee. L’avvenire è un mistero: non so che cosa deciderò di fare. Eppure bisogna decidere. […] Secondo me è peggio della relegazione in Siberia. Lo dico seriamente e senza alcuna esagerazione. Io non capisco i russi all’estero. Anche se qui ci sono questo sole, questo cielo, questi autentici miracoli di un’arte letteralmente inaudita e inimmaginabile, come a Firenze, d’altra parte in Siberia, quando uscii dalla galera, c’erano altri vantaggi che qui mancano, e soprattutto c’erano i russi e la patria, senza i quali non posso vivere». In effetti durante la composizione del romanzo L’Idiota, nell’ultimo anno, la vita non gli aveva risparmiato stress e malumore. Lo assillavano la mancanza cronica di denaro, le attese delle rimesse del suo editore, che ritardavano ed erano quasi sempre insufficienti; le puntuali gravi perdite nei casinò; inoltre era afflitto dagli attacchi di epilessia, dall’insopportabile dolore per l’improvvisa morte, a Ginevra, nel maggio 1868, dell’adorata figlioletta Sof’ja, di tre mesi, dal disagio di vivere in isolamento, tra gente da lui per niente stimata, dalla nostalgia per la Russia (non aveva i soldi per il viaggio di ritorno, temeva anche l’aggressività dei creditori). Ciononostante l’amore della devota moglie, Anna Grigor’evna, la necessità di compensare i frequenti anticipi chiesti ottenuti dal paziente Kotkov, il piacere della scrittura, con cui sfogava la sua straripante immaginazione, gli davano vigore, lo tenevano al tavolo di lavoro senza fatica per un numero infinito di ore. Anche a Firenze patisce le ansie per le ristrettezze finanziarie, è costretto a portare al banco di pegno anche degli indumenti. Non risulta che abbia fatto delle amicizie, viveva in solitudine, ovviamente con la moglie e poi con la madre di lei. Rimpiange perfino il suo soggiorno in una cittadina della Siberia (dopo la scarcerazione) dove si era trovato a sua agio per essere al centro di una cerchia di amici affettuosi. Nella stessa lettera accenna alla bellezza delle opere d’arte di Firenze. Dopo l’intenso lavoro sull’Idiota torna a visitare la Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Rivede la sua amata Madonna della Seggiola; lo colpisce la tenerezza con cui la Vergine accosta il viso alla testa del bambino: gli ricorda il suo amore per la piccola Sof’ja. L’arte di Raffaello lo attrae per l’equilibrio e l’armonia delle forme, per il senso di quiete e, insieme, di solennità che esprime. Nella Galleria, tra tanti capolavori dei grandi artisti del Rinascimento, può ammirare, sempre di Raffaello, anche la Madonna del Granduca, la Madonna dell’Impannata, la Madonna del Baldacchino, il Ritratto di Fedra Inghirami, il Ritratto di Agnolo Doni, la Visione di Ezechiele, il Ritratto del Cardinal Bibbiena. Quando ritornerà a Dresda, dopo il soggiorno fiorentino, rivedrà con gran piacere nella Gernaldegalerie la raffaelliana Madonna Sistina e La Bella Cioccolataia di Jean Etienne Liotard. Da notare che nel lasciare Firenze si fermò a Bologna per vedere Santa Cecilia sempre di Raffaello, nella locale pinacoteca. Nelle Memorie Anna Grigor’evna scrive: «Fedor Michailovic apprezzava molto questo quadro, ma l’aveva visto soltanto in copia ora era felice di vedere l’originale, mi costò fatica strapparlo alla contemplazione di questa stupenda tela: avevo paura di perdere il treno». La stessa Anna ci dice dell’ammirazione del marito per Santa Maria del Fiore e per il Battistero di San Giovanni con la Porta del Paradiso del Ghiberti: «Mio marito mi ha assicurato che se diventerà ricco, comprerà senz’altro la fotografia di questa porta, magari a grandezza naturale, e la metterà nel suo studio per ammirarla».Agli Uffizi lo colpisce la bellissima Venere de’ Medici. Nel medesimo tempo torna a frequentare assiduamente il Gabinetto G. P. Vieusseux dove può leggere giornali e libri russi che in qualche modo lo tengono al corrente delle cose del suo Paese, come risulta dai tre autografi in calce all’abbonamento mensile conservati nello stesso Istituto. Per consiglio del medico, quando si scopre la gravidanza della moglie, la coppia comincia a fare delle passeggiate nel giardino di Boboli («Qui ci scaldavamo al sole e sognavamo la nostra futura felicità»). Ma l’arte, la biblioteca del Gabinetto Vieusseux, le passeggiate a Boboli e per le magnifiche vie di Firenze non cancellano nervosismo e malumore, anche perché alla posta, dove spesso va a chiedere notizie di possibili rimesse dalla Russia, gli rispondono immancabilmente: non c’è nulla per lei. A maggio, dovendo avere un figlio, li raggiunge A. N. Snitkina, la madre di Anna Grigor’evna. Cambiano casa trasferendosi nella Piazza del Mercato Nuovo. Scrive, Dostoevskij: «A Firenze sta arrivando un caldo terribile, la città è soffocante e arroventata, abbiamo tutti i nervi sottosopra, il che è nocivo specialmente a mia moglie, en attendant ci affolliamo in una cameretta strettissima che dà sul mercato. Questa Firenze mi ha stancato, ora la mancanza di spazio e il caldo mi impediscono persino di mettermi a lavorare. La tristezza è terribile, specialmente a causa dell’Europa, e qui guardo tutto come una belva».Spera di andarsene da Firenze per poter cominciare L’Ateismo, «ma non posso scriverlo qui, occorre senz’altro che io sia in Russia. Senza la Russia non lo si può scrivere». Più tardi da Dresda, in una lettera a S.A.Ivanova, scriverà: «Le nostre finestre davano sotto il portico del mercato, che ha archi con magnifiche colonne di granito e una fontana in forma di gigantesco cinghiale di bronzo, dalle cui fauci sgorga l’acqua (è un’opera classica di straordinaria bellezza, ma si figuri che tutta questa enorme massa di pietra e archi, che occupa quasi l’intero mercato, ogni giorno si arroventava come la stufa di un bagno (letteralmente) … e in quest’aria noi vivevamo. […] Ero dispiaciuto specialmente per la mia povera Anja. Poverina, era al settimo o all’ottavo mese e in questo caldo stava malissimo! E poi la città sta sveglia tutta la notte e canta una spaventosa quantità di canzoni. Di notte, naturalmente, lasciavamo aperte le finestre, ma alle cinque del mattino il mercato cominciava a tuonare, gli asini ragliavano ed era impossibile dormire. Finalmente siamo partiti». È agli sgoccioli quanto a denaro, si sente abbandonato da tutti, la noia e i nervi lo paralizzano. Gli sembra d’essere in prigione. Arriva una rimessa da Katkov, ma è insufficiente. Comunica allo stesso di avere in cantiere un romanzo importante e gli chiede un nuovo anticipo. Intanto promette al suo amico Strachov, che aveva assunto la direzione della rivista Zarja (L’Aurora), un lavoro breve, contando anche qui su un anticipo: intende costituirsi un gruzzolo per trasferirsi, forse, in Germania, dove almeno conosceva la lingua. Finalmente in agosto arriva l’anticipo di Katkov, lascia Firenze.

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Il volume Viaggio senza meta di Antonio Carollo (Ladolfi editore 2020) si presenta come una raccolta di brevi prove di critica letteraria, teatrale, cinematografica, artistica, che trae il titolo dalla seconda di esse, dedicata al poeta fiorentino Piero Bigongiari. Per capire l’opera di Bigongiari – scrive Carollo – «una delle chiavi è la metafora del viaggio; ma se nella tradizione, in Omero, in Dante, nei poeti romantici il viaggio indica una meta, un senso finale, profetico, ha un progetto, una storia, in Bigongiari è senza meta, la cronologia è rovesciata, non esiste il tempo progressivo; per il poeta il tempo è reversibile, è vissuto in prima istanza nella scrittura.»

In realtà, la lettura stessa di queste prose si trasforma in un piacevolissimo “viaggio senza meta”, innanzitutto tra le due regioni “abitate” dall’autore, la natia Sicilia e la Toscana, per la precisione la Versilia, dove attualmente vive; poi tra le sue passioni – letteratura, cinema, teatro, arte – di cui Carollo parla con competenza, eleganza e, appunto, passione. Il libro diventa così una sorta di diario, un diario artistico-letterario: i testi sembrano quasi appunti per uso personale, scritti per conservare il ricordo di esperienze e incontri, più che articoli destinati alla lettura di terzi. Ma la qualità della scrittura di Carollo, precisa e calda, rigorosa senza essere pedante, curata senza artificiosità, le sue fulminee sintesi, l’acutezza delle sue osservazioni critiche delineano sia pur di scorcio e per lampi un significativo panorama culturale, consegnandoci anche delle fruibilissime “chiavi di lettura” del fatto artistico: il grande artista – sostiene Carollo – è quello che riconosce il pulsare della vita anche nei minimi eventi, e per questo le sue opere trasmettono un senso di vitalità e illuminazione, a cui rispondere con rispetto e gratitudine.

Gabriella Mongardi