6. Una digressione

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DINA TORTOROLI

Il testamento è un atto essenzialmente formale.
Poiché la rilettura del testamento dell’Imbonati (che mi emozionò fin dalla prima volta in cui lo ebbi tra le mani) mi ha indotto a utilizzarne le peculiarità, allo scopo di cogliere nel contenuto i riflessi della personalità del testatore e dei temi di cui lui fu pensoso, non mi basta più avere letto numerosi atti coevi: è necessario che io conosca sia le modalità di fare testamento, in vigore nella Lombardia austriaca di fine Settecento, sia i caratteri formali e sostanziali degli atti testamentari.
Eccellente fonte di informazione – oggi – risulta essere la monografia di Stefania Tatiana Salvi, Tra privato e pubblico. Notai e professione notarile a Milano (secolo XVIII) (Giuffrè 2012), le cui pagine 182-216 sono dedicate al testamento.
La studiosa conduce la propria indagine «nella copiosa raccolta del fondo Notarile dell’Archivio di Stato milanese», e dichiara che il testamento è, tra gli atti mortis causa, «fondamentale disposizione di ultima volontà, nettamente prevalente, da un punto di vista quantitativo, nell’ambito della documentazione presa in esame».
Afferma, poi, Stefania Salvi: «La struttura del testamento tende a ripetersi in maniera costante lungo il volgere di tutto il XVIII secolo» e tutti gli atti «ripropongono la medesima struttura “a formule consecutive”». Inoltre, per quanto concerne le tipologie testamentarie cui si poteva ricorrere, espone quanto segue:
«Accanto al testamento “solenne” […] che esigeva il rispetto di una serie di rigide formalità che ne rendevano poco allettante l’impiego […] vi era, ben più utilizzato nella prassi corrente, il testamento “nuncupativo” [nell’antico latino, nuncupare significa proclamare], che a sua volta poteva essere esplicito o implicito.
Come è già stato rilevato, la quasi totalità dei testamenti settecenteschi rinvenuti tra le carte d’archivio sono nuncupativi. Nel testamento nuncupativo esplicito, che si trova il più delle volte indicato come “testamento nuncupativo senza scritti”, l’erede veniva nominato “a viva voce” dal testatore alla presenza di sette testimoni (cinque testimoni e due protonotai) e dal notaio che provvedeva a stendere l’atto testamentario, mentre nel caso del testamento nuncupativo implicito  – è più raro trovare esempi di questa forma testamentaria, che pure non manca – il testatore consegnava al notaio, sempre in presenza di cinque testimoni e due protonotai, una busta sigillata contenente le proprie disposizioni mortis causa: il notaio rogava così un istromento in cui attestava la consegna del testamento nuncupativo implicito […]. Di regola il testatore stendeva di proprio pugno il testamento nuncupativo implicito. Era, tuttavia, ammesso che le disposizioni contenute nel testamento nuncupativo implicito fossero scritte da persona diversa dal testatore, purché quest’ultimo vi apponesse la propria sottoscrizione».
La studiosa cita due atti e aggiunge che  «in entrambi i casi, al momento della consegna al notaio dell’involucro sigillato contenente il testamento nuncupativo implicito, il testatore dichiarava che le disposizioni testamentarie erano state scritte da “mano fidata” e sottoscritte dal testatore medesimo. Anche le buste sigillate dei testamenti nuncupativi impliciti recano la sottoscrizione del testatore».
A questo punto, la dottoressa Salvi dichiara che illustrerà unicamente i profili formali del testamento nuncupativo esplicito, «non soltanto in ragione della netta prevalenza numerica di questa tipologia nell’ambito del campione considerato, bensì pure perché proprio dal testamento nuncupativo esplicito o “senza scritti”[…] emergono le formule più tipiche dei testamenti settecenteschi».
È facile constatare  che anche i pochi testamenti nuncupativi impliciti, «emersi nel corso delle ricerche d’archivio», presentano le medesime caratteristiche, pertanto mi pare opportuno fornire una trascrizione fedele dell’analisi.
Asserisce  la dottoressa Salvi:
«Una delle parti più ricche di fascino del testamento nuncupativo senza scritti è senza dubbio rappresentata dalle arenghe che, introducendo alcune riflessioni sul problema della morte e sulla brevità della vita terrena, allontanano gli atti di ultima volontà dalla dimensione puramente patrimoniale di trasmissione della proprietà. Non si tratta di lunghi e complessi preamboli, bensì di brevi introspezioni che sembrano ricordare, al testatore ed al rogatario, la certezza della morte accompagnata dall’incertezza del momento in cui colpirà.
Si leggono, in questa prima parte dell’atto, espressioni del seguente tenore: “Dovendo per imperscrutabile decreto di Dio l’uomo morire senza saperne l’ora, e quindi per prevenire al fatal colpo della stessa essendo preciso ch’egli sia preparato anche coll’avere ordinate le proprie di lui cose”, oppure “essendo la vita e la morte in mano di Dio onnipotente, sapendosi bensì esser certo il dover morire, ma altrettanto incerta l’ora”, il cui dato costante, l’opposizione tra la certezza della morte e l’incertezza dell’ora, spinge l’uomo anziano o malato a recarsi dal notaio per dettare le sue ultime volontà e “ordinare” nel modo migliore “le proprie di lui cose”, respingendo così il timore di lasciare i propri beni materiali privi di un criterio di destinazione e di morire improvvisamente senza aver disposto un congruo numero di messe e legati pii a favore della propria anima.
La formula successiva è quella con cui il notaio esclude l’esistenza di precedenti disposizioni o revoca quelle eventualmente fatte, precisando che è espressa volontà del testatore “annullarle, revocarle e che siano di nessun vigore”.
Proseguendo nella lettura dell’atto testamentario si incontra un altro elemento tipico del testamento nuncupativo esplicito: la raccomandazione dell’anima all’Altissimo, alla Beata Vergine ed a tutta la Corte Celeste, seguita dalle indicazioni che il testatore fornisce circa le modalità con cui desidera essere sepolto. La prima fondamentale esigenza che si tende a soddisfare con le disposizioni mortis causa sembra proprio quella della sepoltura: in alcuni casi il testatore si limita ad affidare ogni decisione concernente la cerimonia funebre agli esecutori testamentari; più spesso la sepoltura viene descritta nei minimi dettagli, con le espressioni “con pompa” e “senza pompa” ed altre indicazioni sui criteri da adottare per il funerale e sul numero di sacerdoti che dovranno accompagnare il corteo funebre».
Resta impresso  l’esempio del milanese Antonio Galimberti, il quale, nel proprio testamento nuncupativo esplicito, rogato dal notaio Rusca, stabiliva che il suo funerale dovesse essere celebrato nella chiesa parrocchiale con l’intervento di “diciotto sacerdoti, due croci, cinquanta poveri della Compagnia di S. Salvatore con darli soldi cinque per ciascheduno, e cinquanta figlie del pio luogo della Stella, e sei stendardi, cioè del Santissimo in duomo, di S. Maria Beltrade, della Rosa, dell’Angelo Custode, di S. Anna, e di S. Giuseppe”.
Stefania Salvi fa notare che «la raccomandazione dell’anima a Dio costituisce uno degli elementi che bene evidenziano il carattere religioso dell’atto testamentario: nella sua formulazione più ampia comprende di regola l’Altissimo, la Beata Vergine e tutta la “Corte celeste e trionfante”. Talvolta sono invece invocati alcuni Santi in particolare, chiamati a vegliare sul passaggio dell’anima del testatore all’altra vita ».
A questo punto,  la prassi notarile prevedeva l’introduzione del “legato”.
Afferma la dottoressa Salvi:
«I legati – la maggior parte dei testamenti analizzati contempla più di un legato –  precedono l’istituzione di erede e sono inseriti con un preciso ordine di importanza che il notaio tende sempre a rispettare. Si registrano innanzitutto i legati pii che, pur essendo costituiti, per lo più, da somme modeste, aprono la lunga serie delle disposizioni a titolo particolare. Seguono poi i lasciti in favore dei familiari, in particolare delle figlie femmine che, non essendo designate eredi, spesso ricevono in legato alcuni beni paterni».
Più oltre, la studiosa dirà che il legato è «l’altro grande protagonista dei testamenti nuncupativi settecenteschi» e spiegherà:
«Il legato, pur non costituendo un elemento essenziale per la validità dell’atto, come l’istituzione di erede, rappresenta una delle parti più significative delle disposizioni testamentarie, uno strumento di trasmissione di beni rivelatore, forse più della stessa heredis institutio, dei più autentici affetti del testatore: se, infatti, la scelta dell’erede universale poteva essere implicitamente dettata da obblighi non scritti di carattere familiare e sociale, l’attribuzione a titolo di legato con cui veniva gratificato il servitore fedele o l’amico premuroso rispondeva sempre ai dettami di un impulso di spontanea liberalità.
Da questi lasciti minori emerge la generale volontà del de cuius di ricordare, sia pure in maniera differente a seconda dei diversi contesti, tutti i membri del gruppo familiare in senso ampio, compresi servi e conoscenti di famiglia. I domestici, in particolare, sono contemplati con grande frequenza, nei testamenti presi in esame, come destinatari di somme di modesta entità o di oggetti di mediocre valore, in grado di rivestire molteplici significati: tali piccoli lasciti, infatti, spesso sono una sorta di compenso post mortem per i servigi prestati quando il padrone era in vita, per l’assistenza durante gli anni di malattia, oppure per il salario non corrisposto negli anni precedenti la morte ».
La ricercatrice ritiene necessario soffermarsi a considerare i lasciti pii:
«Una categoria di legati particolarmente degna di nota per le tendenze sociali e religiose sottese sono i lasciti pii, la cui ampiezza ed incidenza nei testamenti settecenteschi non può essere ignorata. Sebbene non siano destinati alle istituzioni ecclesiastiche beni o somme di ingente valore, la presenza di un legato a scopo religioso ricorre in quasi tutti i testamenti analizzati. Si è riscontrata, in particolare, una netta prevalenza dei lasciti per la celebrazione di messe: il testatore, in questo caso, lascia parte del suo patrimonio ad una persona fisica o giuridica con l’obbligo di far celebrare un determinato numero di messe  in suffragio della propria anima. La volontà di far celebrare delle funzioni religiose costituisce un elemento costante e ripetuto nel campione di atti testamentari prese in esame e, generalmente, è l’erede – pena, in alcuni casi, la perdita dell’eredità – a dover curare l’esecuzione di quanto il testatore ha stabilito per la salvezza della propria anima.
Nel testamento di Apollonia Bellingeri, figlia del fiscale Ottaviano Bellingeri, l’erede viene gravato dall’obbligo di far celebrare, nel più breve tempo possibile dopo la morte della testatrice, addirittura un  migliaio di messe in diverse chiese della città particolarmente care alla defunta».
La studiosa ribadisce il suo convincimento:
«La cura e la precisione quasi ossessiva con cui il testatore dispone il numero di funzioni religiose e descrive le modalità della loro celebrazione rivela il timore della morte e dell’ignota vita ultraterrena che inevitabilmente accompagna gli atti di ultima volontà.
Si pensi […] alle duemila messe che Monsignor Antonio Verri, nel suo testamento del 1771, disponeva fossero celebrate in suffragio della propria anima.
Si prenda il testamento del lodigiano Carlo Giovanni Bonifacio, ove, in merito alla sepoltura, le disposizioni si fanno ampie e particolareggiate: “Fatto che sarà cadavere il mio corpo in quanto al funerale voglio che questo si faccia coll’intervento di dodici sacerdoti e con l’accompagnamento della veneranda confraternita della santissima Trinità di Lodi, la quale prego instantemente di accordarmi questa carità a maggior suffragio dell’anima mia”».
Dopo aver esaminato gli aspetti esteriori della pratica testamentaria, la dottoressa Stefania Salvi passa all’analisi del testamento, inteso come strumento di controllo della trasmissione della proprietà, che suscita le sue «considerazioni sull’aspetto contenutistico di questi atti, preziosi indici rivelatori dei caratteri intrinseci della società milanese coeva», e può infine asserire:
«Sulla base delle indagini compiute e dei dati raccolti è, dunque, possibile compiere qualche osservazione conclusiva. Nonostante lo scopo primario dell’attività testamentaria settecentesca risulti il controllo dei modi e dei tempi della trasmissione del patrimonio ereditario, che poteva avvenire all’interno come all’esterno del gruppo familiare a seconda dei fattori di influenza, individuabili, in primo luogo, nel sesso e nello status del testatore, è innegabile che la particolare natura del testamento consenta di toccare delle tematiche, di tipo storico-sociale, che esulano dalle scelte personali del singolo.
È il costume di un’epoca e di una collettività intera a riflettersi negli atti testamentari: si pensi, ad esempio, all’importanza che, ancora nella seconda metà del Settecento, rivestiva il principio di unità del patrimonio familiare, destinato a concentrarsi, il più delle volte, in un unico erede che potesse a sua volta trasmetterlo alle generazioni successive. Si consideri il concetto di “gruppo familiare allargato” che emerge dai numerosi legati tesi a ricompensare la servitù, avvertita come parte di un’unica collettività di stampo domestico. Si ponga mente, infine, all’attenzione che nei testamenti settecenteschi – tranne qualche eccezione sul finire del XVIII secolo – viene prestata all’aspetto religioso dell’atto, ben evidenziato dalla volontà di preservare la salvezza della propria anima attraverso strumenti, come i legati pii, la raccomandazione dell’anima all’Altissimo e la celebrazione delle messe, che rivelano il sentire comune della società milanese e rendono il testamento un atto particolarmente originale, nella struttura e nei contenuti. Soltanto verso la fine del Secolo dei Lumi la cura per le disposizioni a favore dell’anima si riduce sensibilmente e inizia a farsi strada un processo di laicizzazione dell’atto testamentario.
Nonostante questa tendenza, che pure è tangibile nella produzione notarile di fine secolo, è comunque possibile affermare che i testamenti degli ultimi anni del Settecento si pongono all’insegna della continuità con la tradizione precedente: alla vigilia della conquista napoleonica, foriera dell’ideologia rivoluzionaria ostile al sistema successorio di antico regime, […] l’atto testamentario riveste ancora un’enorme importanza ed impone ai notai milanesi la precisa osservanza di una serie di formule, nella ripetizione costante di una struttura capace di assicurare, attraverso il suo immobile divenire, la perfetta esecuzione dei suoi contenuti».

La digressione si è rivelata molto lunga, ma non è stata in nessun momento una divagazione, e ora, ritornando al testamento dell’Imbonati, mi si prospetta un percorso di riflessione, col supporto di una guida autorevole.
Infatti, in base a quanto appreso circa la struttura del testamento nuncupativo implicito, potrò valutare adeguatamente la conoscenza della pratica notarile, rivelata da Gio. Carlo Imbonati, quindi prendere nuovamente in considerazione il suo eccezionale processo formativo.
Ancora una volta, farò ricorso alla vasta documentazione offerta dal professor Erminio Gennaro.
Penso, innanzitutto, al suo saggio, Carlo Imbonati mito e tormento in Casa Manzoni (in Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, Volume LXXII, 2010, pp. 89-106), in cui si parla anche degli studi di Diritto, affrontati dall’Imbonati nel Collegio Clementino di Roma e – tornato in patria –,  presso le Scuole Palatine di Brera, dove frequentò il corso di Diritto Pubblico, tenuto da Nicolò Visconti (Archivio di Stato di Milano, Studi, p. a., 296, fasc. Scolari 1774).
In un secondo momento,  le considerazioni della dottoressa Salvi sulla possibilità di «vedere il volto della società milanese riflesso negli atti di ultima volontà»  potranno giustificare il mio impegno nell’indagare ancora il mistero del patrimonio altro rispetto ai beni mobili e immobili, sotteso alla solenne dichiarazione: «ogn’altra cosa che al tempo della mia morte si troverà dalla mia Eredità».
Sarà avvincente verificare in quale misura traspariscano dalle sue dichiarazioni testamentarie le idee, lasciate in Eredità all’umanità, dal «philosophe Imbonati» (Stendhal).

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