Il villaggio e la bambina

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GABRIELLA MONGARDI.

Se a prima vista le 817 pagine del romanzo Storia di Neve di Mauro Corona suscitano perplessità, questa si dilegua come neve al sole già dalle prime pagine, davanti al “gelo da castigo”, alle cascate che parevano “colonne di marmo azzurro” o “balene imbalsamate”, alle “montagne di ghiaccio”, al “pugno dell’inverno”, alle acque che dentro i blocchi di ghiaccio gorgogliano “come se si chiamassero una con l’altra, come se volessero parlottare per ingannare il tempo e far passare in fretta quelle lunghe, gelide, interminabili notti invernali”: davanti cioè a una scrittura profondamente originale, che attraverso il ricorso costante a metafore, similitudini, personificazioni, sinestesie dà anima alle cose e si crea una lingua potente, che affascina e attanaglia, ma con discrezione. Nel senso che il fascino dello stile – e per me la seduzione della montagna – sono controbilanciati da una trama a maglie larghe, che non ti inocula l’ossessione di sapere come finirà la vicenda: è un libro da cui si può entrare e uscire quando si vuole, sicuri che si ritroverà sempre l’orientamento grazie alla presenza massiccia di leitmotiv, o di vere e proprie dizioni formulari che ricordano la narrazione orale, le vijà nelle nostre stalle (Corona direbbe i filò) o i cantari recitati nelle piazze medievali.

Il primo leitmotiv è ovviamente quello che dà il titolo al romanzo, ossia la storia di Neve, la bambina che non patisce il freddo e spegne il fuoco con la sua vicinanza, la creatura misteriosa “venuta a portare un po’ di caldo nei cuori congelati della gente, in quel paese maledetto, ghiacciato dall’inverno e sepolto dalla neve”: attorno a lei si coagulano i temi più delicati e struggenti – l’amore impossibile, la lettura, la pietas

Il “paese maledetto” è il secondo leitmotiv, che a volte prende decisamente il sopravvento sull’altro: perché paese vuol dire coralità, pluralità di storie, e uno alla volta il narratore ci fa conoscere tutti i suoi abitanti, che vivono obbedendo a due sole leggi, Eros e Thanatos. L’amore è, per uomini e donne, una pulsione primordiale, animalesca, meramente fisica; la morte è il modo migliore per liberarsi di chi ostacola il soddisfacimento dei propri istinti, delle proprie brame: il paese non conosce legge né autorità al di fuori di sé. Nel suo crudo realismo il romanzo, che l’avvertenza iniziale assicura essere esclusivo “frutto della fantasia dell’autore”, richiama I Malavoglia di Verga o La malora di Fenoglio, anche per la patina dialettale: se non fosse per l’irruzione costante del magico, del fantastico, nel quotidiano, il romanzo sembrerebbe scritto per testimoniare come viveva, nel secolo scorso, una comunità di montagna, a contatto con una natura severa, spietata. E se a tratti affiora la tentazione di idealizzare il rapporto tra esseri umani e natura nell’equilibrio perfetto di una mitica età dell’oro, viene subito respinta dalla durezza con cui sono dipinti sia gli uomini – quasi tutti gretti, egoisti, malvagi – che la natura, violenta e distruttiva.

La natura è il terzo leitmotiv, la natura come montagna: considerata sia in rapporto agli uomini che la abitano, alle attività da cui ricavano il loro povero sostentamento – il taglio del legname, l’allevamento delle pecore, la fienagione, sia nella sua Bellezza, che stordisce e soggioga anche quando è più aspra. Le pagine che descrivono, ripetutamente, il paesaggio montano nel mutare delle stagioni, la musica del bosco, del vento, dell’acqua sono tra le più belle e toccanti del libro, e la ripetizione le fa amare ancora di più, sottolineando la loro funzione di tessuto connettivo.

Un altro originalissimo connettivo sono le ‘cerniere’ tra i tredici quaderni, ossia il racconto di come è nato e progredito, nel corso di un anno, il romanzo. All’inizio lo scrittore confessa di avere solo una vaga traccia, ma dopo il secondo quaderno “la storia sta prendendo forma”: sarà una storia lunga e bisognerà fare molta attenzione a non perderne pezzi per strada… Nell’insieme, sono considerazioni molto interessanti sulla fatica e le ragioni dello scrivere. Scrivere aiuta a uscire dall’inferno, a lottare contro i propri fantasmi; ma non è facile trasporre sulla pagina la storia, anche quando è già tutta in testa: fatti, intreccio, colpi di scena e quanto serve per fare un buon libro, come questo…

Dalla mescolanza inestricabile di realistico e onirico, di lirico e di brutale, di horror e di fantastico nasce la forza di questo libro visionario e catartico, in cui Corona – come scrive Silvano Gregoli in Sempre d’ottobre - “ha tirato fuori tutta la sconfinata poesia che aveva nella pancia”.