Convegno AICC: una cultura, due saperi. Sessione autunnale.

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LORENZO BARBERIS.

L’AICC (Associazione Italiana di Cultura Classica), sezione cuneese, e il Liceo Vasco-Beccaria-Govone di Mondovì hanno organizzato gli scorsi 26 e 28 ottobre 2016 un nuovo interessante appuntamento di approfondimento sul tema del rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica: la sessione autunnale de UNA CULTURA, DUE SAPERI: Dialogo e sinergie tra letteratura e scienza.

Il Convegno è stato organizzato con il patrocinio della Città di Mondovì e in collaborazione con l’Università degli Studi di Torino - Dipartimento di Studi Umanistici, l’Università degli Studi di Genova - DIRAAS – Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arte e Spettacolo, l’UNIDEA di Mondovì (Università degli Adulti), il Centro Studi Monregalesi, nonché i Licei classici del Cuneese, il Lions e altri enti.

Mercoledì 26 ottobre 2016 ( 14.15 – 17.15) si sono tenuti questi tre interventi:

- Amedeo Alessandro RASCHIERI, Cicerone tra poesia e astronomia
- Gemma GHIGO, La scienza nei romanzi, il romanzo della scienza.
- Sergio GIULIANI, L’astronomo poetante di Recanati.

Il Cicerone che emerge dalle parole del prof. Raschieri è un intellettuale che fa della divulgazione la sua missione, ama il confronto tra ragioni e opinioni, è ‘relativista’ e ‘probabilistico’: con il pragmatismo tipico dei Romani, non cerca la Verità assoluta, ma quella più probabile e più utile per la convivenza civile. Non solo le sue opere teoriche sono divulgative nel senso nobile del termine, ma anche come poeta, negli Aratea, Cicerone diffonde conoscenze scientifiche (per la precisione astronomiche) traducendo i Phaenomena, poema didascalico di Arato di Soli

A unire poesia e astronomia (ma – con tutto il rispetto per Cicerone – a un livello incomparabilmente più alto) è anche Giacomo Leopardi, che il prof. Giuliani presenta con appassionata competenza, sottolineando il profondo valore conoscitivo e filosofico dei suoi versi, che nascono dall’humus delle riflessioni affidate allo Zibaldone. I Canti non sono un piagnisteo romantico, ma esprimono tutta la solidità del pensiero e della cultura (anche scientifica) leopardiana. E il notturno della quarta strofe della Ginestra esprime tutta la vertigine e lo sgomento di un essere sensibile di fronte all’immensità dell’Universo.

Decisamente didattica la prospettiva in cui si colloca la prof.ssa Gemma Ghigo, che sottolinea la necessità di leggere la scienza per acquisirne il linguaggio settoriale, e indica in Salgari e Verne due autori da far leggere agli adolescenti a questo scopo.

Venerdì 28 ottobre 2016 (14.15 -17.15) due altri interventi di grande interesse:

- Serena BUZZI e Annalisa QUATTROCCHIO,
Il banchetto nel mondo antico: spunti di riflessione tra letteratura, filosofia e medicina.

- Silvano GREGOLI e Gabriella MONGARDI, Interazione tra sapere narrativo e sapere scientifico: non è (solo) fantascienza!

Molto interessante il primo intervento, che ha mostrato come il rapporto tra alimentazione e salute, cui si dà recentemente sempre più importanza, era presente già presso gli antichi, da Aetio in poi, dove appaiono perfino già i temi dei disturbi alimentari, a partire dalla bulimia. L’idea della dieta come forma di cura, già pitagorica, ritorna anche nei primi proto-critici gastronomici. Un intervento di indubbio valore, molto spendibile didatticamente, specialmente, credo, laddove lo studio dei classici, latini e greci, diviene centrale come nei Licei, permettendo di mostrare agli allievi come anche su questo gli antichi, interrogati sulle fonti dirette, abbiano ancora molto da dire ai moderni.

In particolare, però, mi ha affascinato il secondo intervento, su un tema che da molto coltivo: la nuova rilettura del Pendolo di Foucault tenuta da Silvano Gregoli, scienziato monregalese prestato alla scrittura, che è stato presentato dalla prof.ssa Gabriella Mongardi in una bella introduzione dal titolo “Non è (solo) fantascienza”.

Al di là della presentazione di Gregoli, Gabriella Mongardi ha riflettuto sui confini del genere letterario, fantascientifico in questo caso. Da prof. di lettere e lettore del genere, il tema mi interessa sempre molto. Allargarne i confini, nobilitare il genere e però annacquarlo, includendo Dante e Ariosto (sempre di viaggi extra-terrestri parliamo), o restringerne i confini, precisarlo e però ghettizzarlo escludendo McCormack e Chricton, e figurarsi quindi Levi, Calvino, Landolfi, Buzzati, e appunto Eco?

Un tema interessante, su cui si può dibattere per ore. Io ho una posizione mediana, di stampo pragmatico: se volessimo integrare un po’ di SF nel canone letterario, ovvero nell’antologia di italiano di quinta superiore, dovremmo includere per esempio un racconto a testa dei cinque nomi suddetti (la Mongardi direbbe, da classicista, che il nostro Gregoli potrebbe esser sesto tra cotanto senno), a fianco magari dei maestri inglesi, di Verne e del sovietico Lem.

1. L’Eclissi dell’autore.

Parlando di Gregoli, la Mongardi sottolinea la centralità dell’eclissi del 1961 in tutta la sua opera, il Sole Nero di quell’anno come punto di svolta (tra l’altro, l’anno è graficamente palindromo, lo puoi far ruotare e resta uguale). E in effetti l’Eclissi e la Montagna, intrinsecamente connesse, sono i due momenti topici dell’Occasione gregoliana (che ritorna anche in qualche altra, avara condizione).

L’Eclissi mi fa pensare a una connessione, non so quanto fondata (Gregoli potrebbe confermare), con quello che è forse il più grande capolavoro della fantascienza, se se ne deve identificare uno solo: “Nightfall” di Isaac Asimov. Il racconto del 1941, tradotto in “Notturno” (ma andrebbe espresso in perifrasi: “La caduta della notte” o qualcosa del genere) era stato valutato tale sulla scena anglosassone (con una sottile irritazione di Asimov, che avrebbe preferito il premio a qualche suo più impeccabile congegno di paradossalità robotica).

Il presupposto è il rovesciamento di una poetica concezione di Ralph Waldo Emerson:

«Se le stelle apparissero una sola notte ogni mille anni, gli uomini potrebbero eccome credere e adorare, e serbare per molte generazioni la rimembranza della città di Dio!»

No, dice Asimov:

«Cosa accadrebbe se gli uomini potessero vedere le stelle una sola volta ogni mille anni?»

«Impazzirebbero »


E il Buon Dottore lo sviluppa un racconto: una società tecnologica avanzata è rimasta geocentrica perché i suoi sei soli impediscono il cadere della notte. Niente stelle, niente astronomia come la intendiamo noi, e quindi l’ipotesi atomistico-epicurea (le stelle come soli lontani) non entra mai in campo.

La notte non cade mai.

Tranne in un caso.

Tranne nell’eclissi millenaria (io la faccio “umanistica”, ma il dispositivo di Asimov è precisissimo).

Cosa succede in quel caso?

L’Asimov del 1941 è lapidario: la fine della civiltà nel terrore dell’apocalisse.

Nel 1990 (molto tardi, dunque: nel cinquantenario, quasi, del racconto, e pochi anni dopo il Pendolo di Eco, nel 1988 – ci arriveremo) Asimov si rassegna ad ampliare anche questo racconto in romanzo. Chiede una mano a Robert Silverberg, che è molto meno brillante, per me, nella soggettistica di SF, ma romanziere letterariamente più gradevole.

Asimov immagina questa volta una via d’uscita.

In una civiltà evoluta, solo un remoto Culto predica l’attesa di una teorica apocalisse

(c’entra sempre anche il complesso rapporto di Asimov con le sue radici ebraiche, per me: ma questa è un’altra storia), irriso da tutti.

Un astronomo (tolemaico, diciamo) inizia quasi per gioco a provare a vedere come le loro bizzarre tesi potrebbero essere vere. Inizia a spaventarsi, perché, volendo, rovesciando il paradigma dell’astronomia, compiendo la rivoluzione copernicana, le loro teorie potrebbero funzionare: tutti naturalmente lo prendono per matto.

Tranne un’archeologa, che ha scoperto come la civiltà proceda, su quel pianeta, in cicli millenari incredibilmente regolari, come se ogni, poniamo, 2134 anni esatti, la civiltà finisca di colpo…

Non svelo altro, ma il romanzo è avvincente.

E, innegabilmente, c’è qualche parallelismo (strutturale, non di tema) con Xeno, i temi tipici di Asimov che sono i temi della fantascienza, di cui l’autore è il pilastro moderno.

Gli scienziati (ma anche, se rigorosi, gli umanisti) come gli unici veri eroi positivi; l’establishment burocratico, avido ed ostile al cambiamento; una certa stolidità della massa, che anche in ere civilizzate è pronta a ritornare rapidamente a una mentalità medioevale.

I temi appaiono comuni, secondo me, anche per la mediazione di Crichton, che è un modello intermedio tra Asimov e Gregoli (vedi anche qui la mia prima recensione di Xeno). I temi di Crichton sono sempre quelli, espressi in termini più ricercati della secca asciuttezza di Asimov (che è uno stile bellissimo).

2. Il Pendolo di Gregòl. Una rilettura del Pendolo.

Gregoli non è però qui come romanziere, ma come “critico”, per fornire un’analisi del Pendolo di Foucault, indubbiamente alto punto di incontro tra cultura umanistica e scientifica. Le osservazioni di Gregoli sono particolarmente interessanti, e integrate a considerazioni che ho appuntato da quando ho letto per la prima volta quest’opera di Eco, sono a mio avviso particolarmente rivelatrici.

Da scienziato, Gregoli pone al centro del romanzo il Pendolo, inteso proprio come esperimento compiuto da Leon Foucault nel 1851.

Su questo Gregoli coglie sicuramente nel segno, stando a un indizio interno di Eco. Quando Belbo raggira Aglié, sul finale, facendogli credere di possedere chissà quale segreto, dice:

Faccia conto — dico solo per rendere l’idea — è come se la mappa fosse iscritta nella piramide di Cheope, squadernata davanti agli occhi di tutti, e tutti per secoli hanno letto e riletto e decifrato la piramide per trovarvi altre allusioni, altri calcoli, senza intuirne l’incredibile, splendida semplicità. Un capolavoro di innocenza. E di perfidia. 

Da tutto il romanzo, i tre redattori e i “diabolici” loro nemici vanno cercando di usare il Pendolo come strumento per individuare il punto su una mappa, che conduca al luogo da cui si controllano le Correnti Telluriche, l’Umbilicus Mundi, la Porta degli Inferi volendo (in una idea dantesca dell’opera su cui torneremo). Se vogliamo, Belbo qui dice che la prospettiva errata: il Pendolo vale in sé, non in connessione alla Mappa (c’è una Mappa, infatti, ma è errata: non è una rivelazione cifrata, è una lista della lavandaia sovra-interpretata dagli esoterici, come svela Lia).

Le prime pagine del romanzo, dunque, dove Casaubon (alter ego di Eco; Alter-Eco, insomma) osserva il Pendolo, ci parlano del suo mistero con un tono decisamente sopra le righe. Perché?

La prima lettura è semplice: Casaubon è “impazzito” nella sua ricerca esoterica. Il divertissment letterario si è trasformato in una ludopatia (non azzardopatia, citando la distinzione introdotta da Stefano Casarino e altri: proprio, in questo caso, Ludopatia, ovvero un gioco non venale che diviene ossessione).

Ma, dice Gregoli, questo è il senso di tutto il romanzo, nel suo dipanarsi. Perché queste prime pagine così diverse stilisticamente? (e questo è innegabile: differenza di stile segnata anche, se vogliamo, dalla citazione in esergo, in ebraico e non in alfabeto latino, come sono invece tutti gli altri paragrafi).

Perché Eco sottolinea il vero Mistero del Pendolo. Il pendolo di Foucault è un vero mistero scientifico.

Il letterato (quello magari non del tutto digiuno di scienza, come me) sa che il Pendolo di Foucault è l’esperimento che dimostra la rotazione della terra. Il suo significato assume quindi un valore simbolico: è il coronamento della rivoluzione scientifica.

Dal che, ha un valore illuministico il discorso di Eco: Belbo, Casaubon e Diotallevi (B-C-D, come incognite di un’equazione: aggiungiamo che utilizzano A, il computer rinominato Abulafia, per le loro permutazioni del Piano esoterico) commettono un peccato capitale nell’interpretare a rovescio la storia della scienza: non la luce della ragione che rischiara le tenebre, ma un’ossimorica “luce nera”, che usa la scienza come copertura per oscuri piani esoterici.

Ha iniziato, il protagonista Casaubon, con un compito onesto, “La meravigliosa avventura dei metalli”, una positiva encyclopedie per ragazzi per l’editore Garamond; ma nel corso del tempo, seguendo i cattivi compagni, l’ha deviata nella storia esoterica. Tale traccia è palese nel testo, specie in questo passo, dove sul finale Casaubon è ormai preda del suo delirio, nel Conservatorio della Scienza e della Tecnica che nella sua mente diviene un tempio occulto:

Essi erano qui, ad azionare questi elettrocapillatori pseudotermici esatetragrammatíci — così avrebbe detto Garamond, no? — e ogni tanto, che so, qualcuno avrebbe inventato un vaccino, o una lampadina, per giustificare la meravigliosa avventura dei metalli, ma il compito era ben altro, eccoli tutti qui adunati a mezzanotte a far girare questa macchina statica di Ducretet, una ruota trasparente che sembra una bandoliera, e dietro due palline vibratili sostenute da due bacchette ad arco, forse allora si toccavano, ne scaturivano scintille, Frankenstein sperava che così avrebbe potuto dar vita al suo golem e invece no, il segnale da attendere era un altro: congettura, lavora, scava scava vecchia talpa… . 

La metafora funziona, se il Pendolo funziona.

Ma, rivela Gregoli, non è così. Il Pendolo non funziona.

“Patience dans l’azur” (pubblicato nel 1981, quando Eco lavora al romanzo; ristampato nel 1988, quando il romanzo è pubblicato…) dello scienziato e divulgatore Hubert Reeves, ha diffuso al vasto pubblico la messa in discussione del Pendolo di Leon Foucault come simbolo del positivismo (il Pendolo è del 1851, l’anno della Prima Grande Esposizione Universale di Londra: simbolo perfetto). Per quali forze il Pendolo agisce come agisce? La rotazione terrestre, come ipotizzato? Non si sa con precisione. Intervengono forze cosmiche di ampiezza inusitata, in sintesi.

Cito un brano da “L’Architecture et l’Origine de l’Univers”, consultabile online, da cui emerge quanto detto sull’Hu(m)bert:

Ma quindi, se il Pendolo è un mistero, e non è positivistico, cambia tutta la tesi di Eco.

I tre redattori a zonzo per la storia esoterica (per tacer del computer) fanno bene a mettere in discussione i pilastri della scienza, e la loro idea che il Pendolo non sia il simbolo della scienza che si vuole è imprecisa (perché non fondata su una reale conoscenza scientifica) ma, a livello di percezione, esatta. La loro colpa è non dare fondamenta scientifiche a questo dubbio metodico, quindi, non mettere in discussione Foucault (e, simbolicamente, il positivismo), ma tornare nell’abbraccio della superstizione, dove sono sconfitti; ma, in sé, anche Leon Foucault è fallace, nemmeno lui ha risolto il Pendolo.

3. Foucault e il suo doppio. Oscillazioni isocrone d’un Pendolo.

Ma in più c’è un altro aspetto su cui Eco gioca.

Il lettore colto di Eco dell’epoca, leggendo Foucault, probabilmente avrà pensato prima a Michael Foucault, che a Leon.

Et pour cause: Eco conclude la vicenda due giorni dopo il 23 giugno 1984, ovvero il 25 giugno 1984, data di morte di Michael Foucault. Il filosofo, lo storico della follia, il critico delle Istituzioni Totali, che forse appare in controluce (assieme a tutta una neopsicanalisi tra Lacan, Deleuze e Guattari) nel Dottor Wagner.

in quegli anni la psicoanalisi di Wagner appariva abbastanza decostruttiva, diagonale, libidinale, non cartesiana, da suggerire spunti teorici all’attività rivoluzionaria. 

E a Wagner va la lapidaria parola finale sulla sconclusionata storia di Casaubon, che va nel suo studio e gliela racconta tutta:

Wagner si è alzato, lentissimamente. Senza voltarsi verso di me ha fatto un giro intorno alla scrivania e si è portato alla finestra. Ora guardava dai vetri, con le mani incrociate dietro la schiena, assorto. In silenzio, per circa dieci, quindici minuti. Poi, sempre dandomi le spalle, con voce incolore, calma, rassicurante: “Monsieur, vous étes fou.” 


E non aggiunge altro, oracolo lapidario.

Insomma: Reeves decostruisce Foucault Leon, come Foucault Michel decostruisce Freud (e naturalmente chiamarlo Wagner è ulteriore rovesciamento).

Ma se Eco si sovrappone a Reeves nel decostruire Foucault Leon (e qui Gregoli ha ragione), poi Eco decostruisce Foucault Michel che decostruisce Freud; e qui si crea un cortocircuito.

Tra l’altro, tra Reeves e Foucault Michel c’è più di un punto di contatto: vari testi filosofici francesi li accomunano in un nuovo pantheon di iconoclasti della tradizione illuminista, come si trova ad esempio ne Le pouvoir chez Michel Foucault.

Il Pensiero Forte illuminista è visto con sospetto da questi nuovi Pensatori Deboli. Alla follia totalitaria della ragione essi oppongono le ragioni della follia.

Reeves critica il pilastro oscillante del positivismo scientifico, Michel Foucault lo stato come potere (il manicomio, la caserma, l’ospedale, la scuola come istituzioni totali), Eco la tradizionale concezione estetica nei suoi saggi semiotici.

Ma Eco, “illuminista bizantino” come si definiva, lascia intendere che la distruzione dei modelli non è salvifica: non apre le porte a un più complesso razionalismo, ma viene sfruttata dai “poteri forti” pragmatici, simboleggiati da Aglié / Saint Germain, sintesi di Gelli e di Rol.

In controluce, pare quasi di leggere una polemica di anni successivi, ovvero Ratzinger che recupera strumentalmente Feyerabend per decostruire ai suoi fini Galilei (da prefetto del sant’Uffizio, non aveva gradito la retorica riabilitazione operata da Woytila, nel 1982 – siamo sempre negli anni del Pendolo…).

Per sentirsi più illuministi di Galilei, insomma, si finisce per far vincere il Bellarmino, sembra concludere Eco (e dato che il cardinale è stato docente a Mondovì, per un periodo, dove risiediamo io e Gregoli, tutto torna).

Insomma, al di là degli scherzi, credo che davvero Gregoli abbia trovato una chiave importante del Pendolo di Foucault, inaccessibile ai semplici umanisti, grazie alla sua formazione scientifica.

4. Nella mia fine è il mio principio: l’esordio del Pendolo nel finale della Commedia.

E allora dobbiamo leggere con occhi diversi quell’incipit: non ironici, ma come autentica rivelazione.

Come il segreto del romanzo è già svelato nel titolo (il segreto è il Pendolo, la mappa è un inganno), così lo svelamento del segreto è contenuto nelle prime pagine, e il resto del ciclopico romanzo è ingannevole (che è anche un bel modo per antologizzare finalmente, con un senso, il Pendolo di Foucault nell’antologia di quinta superiore, volendo).

“Il Pi Greco che per divina ragione lega la circonferenza al diametro di tutti i cerchi possibili” è forse la chiave, come ipotizza Gregoli, in quanto il Pi Greco, numero irrazionale, è una sequenza infinita di numeri sempre diversi (la dico male): ciò significa che è un codice che, al suo interno, contiene tutte le possibili scritture, a saperle cercare (assegnando un valore di lettera a ogni coppia di numeri, ad esempio).

E’ in pratica la Biblioteca di Babele di Borges (cui Eco ha dedicato il Nome della Rosa), o meglio il Libro di Sabbia di Borges stesso (lo stesso concetto, in un solo volume infinito), ma con enorme eleganza e maggior sintesi.

Ma aggiungerei di più: Eco pone il cerchio come sommità di una tetraktis pitagorica (una Montagna stilizzata):

   *

  **

  ***

  ****

“l’unità del punto di sospensione, la dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di Pi, il tetragono segreto della radice, la perfezione del cerchio.” dice infatti Eco.

Notiamo che il punto è Uno, la linea è Due, il Pi è “natura ternaria” (tre, virgola…), la radice è tetragona, ovvero “quadrata” quattro, ma il cerchio non è pentagonale, è assoluto, sta oltre quella serie.

La tetraktis infatti esprime, pitagoricamente, che 1+2+3+4 = 10, ovvero ricomposizione dell’Unità a un livello più alto (da 10 alla 0 a 10 alla 1, diciamo più modernamente). Insomma, Eco chiarisce con questo che il mistero è di tipo pitagorico, ovvero matematico.

Il Cerchio quindi “sta oltre” la Tetraktis: e infatti Pi è “irrazionale a menti sublunari”, termine esplicitamente dantesco (tutto il secondo canto del Paradiso, dove Beatrix la mena con l’importanza delle macchie lunari come segno d’imperfezione…), come pure quel “divina ragione” dell’incipit del Pendolo. Questo cerchio il cui mistero è Pi Greco coincide piuttosto perfettamente col cerchio divino dantesco.

Infatti, dice Dante.

Nel suo profondo vidi che s’interna, 

legato con amore in un volume, 

ciò che per l’universo si squaderna:


Dio è come un libro (un volume) che “chiude in un quaderno” ciò che si “squaderna” nell’universo.

Ma il Dio di Dante è pitagoricamente un cerchio:

Ne la profonda e chiara sussistenza 

de l’alto lume parvermi tre giri 

di tre colori e d’una contenenza;


Un cerchio ovviamente uno e trino (il tre di Pi Greco?), ma un cerchio.

E quindi

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige 

per misurar lo cerchio, e non ritrova, 

pensando, quel principio ond’ elli indige,


Dante è come il geometra che si affligge a “misurare il cerchio” inutilmente, perché Pi è infinito: e non capisce che in quell’infinito si cela un infinito codice, che l’apparente “imperfezione” (in una prospettiva pitagorica arcaica, sconvolta dall’irrazionalità del numero che doveva essere più perfetto, quello circolare) è il segno della sua potenza.

Nel Pendolo, il mistero numerico viene rivelato dal beffardo Saint Germain, malvagio perché ha rinunciato alla Verità per il Potere, ma non perché non la comprenda. Durante il suo primo incontro coi tre redattori, dimostra loro (ma soprattutto a Diotallevi, che si sente ebreo e cabalista e venere la sacralità del numero in senso mistico) come le divine proporzioni delle piramidi, i mirabili rapporti inseguiti dagli esoterici, si celano in ogni oggetto, anche l’edicola sotto casa.

Salvo poi non comprenderlo a sua volta quando Belbo glielo ritorce contro, accecato com’è dalla sete di potere, nella citazione che avevamo visto prima:

Faccia conto — dico solo per rendere l’idea — è come se la mappa fosse iscritta nella piramide di Cheope, squadernata davanti agli occhi di tutti, e tutti per secoli hanno letto e riletto e decifrato la piramide per trovarvi altre allusioni, altri calcoli, senza intuirne l’incredibile, splendida semplicità. Un capolavoro di innocenza. E di perfidia. 

Notiamo anche come Belbo parli di un segreto squadernato, termine lecito, ma certo non usuale oggi, che è quello adottato anche da Dante nel parlare di Dio come libro che racchiude i segreti dell’universo (“ciò che nell’universo si squaderna”). Forse un caso, forse dopo un po’, ad analizzare il Pendolo, si rischia di cadere nella paranoia interpretativa.

Non posso non chiudere con un elemento strutturale, che parrebbe confermare l’ipotesi: il Pendolo inizia con la sua scena finale: Casaubon è dal Pendolo perché lì attende la riunione del Tres (i Templari Resurgentes Equites Sinarchici, certo, gli eredi dei templari: ma anche un rimando al Tre) che deve inquisire Belbo per la sua conoscenza dei segreti dell’ordine – lui vuole salvarlo.

Quindi Casaubon ripensa a tutto quello che è successo prima, e così, pensandolo, lo racconta in un enorme flashback al lettore. Poi, conclusa la complicata storia, avviene lo scontro finale. Quindi, tutto il Pendolo è, anch’esso, un libro circolare, come reso del resto ampiamente evidente anche dall’immagine di copertina.

Il mistero dell’universo è davanti a noi, sempre, in bella vista.

Dobbiamo solo imparare a comprenderlo.


“La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.” 


Il Saggiatore, Galileo Galilei.