Ralja

L'ultimo regalo del bosco (2)

IVANKA DENEVA

Gli uomini saltarono giù dal camioncino ed il prato si riempì di fragore. Una sega grossolana e che sovrastava ogni rumore strideva insieme alle loro voci che brontolavano e Kalana sentì che non sarebbe stato facile avere a che fare con loro. Dopo una settimana già li si aspettava con una comprensibile paura, come si rabbrividisce all’idea di un incontro con qualcosa la cui nomea cela la vera natura. Quanto a questi, evidentemente avevano i loro conti con il buon Dio ed il mondo e nessuno poteva essere sicuro su chi potesse avere l’ultima parola. I loro volti barbuti, mezzo addormentati, esprimevano una ostilità dissimulata dalla stanchezza, che ad ogni istante poteva esplodere e suggeriva di restare in guardia.

Mostrò loro le baracche in cui avrebbero dovuto coricarsi, poi scambiò qualche parola a mezza voce con il poliziotto che li accompagnava e s’incamminò lentamente nella macchia. A una cinquantina di passi, nascosto alla loro vista, si fermò e si sedette, non tanto per prendere fiato quanto con l’intento di guardarli di nuovo e da un altro punto di vista. La sua vaga inquietudine non lo abbandonò, ma rimase in agguato, pronta a balzar fuori in un momento più conveniente. Li guardava attraverso le fronde degli abeti neri e si rimproverava di aver dato il suo consenso a Bachvarov…

Non si erano mossi dai tronchi d’albero dispersi, gli uni, seduti disinvoltamente con le lunghe gambe divaricate, di tanto in tanto emettevano spiacevolmente spessi getti di saliva, altri succhiavano nervosamente delle sigarette forti che tremavano tra le loro dita ingiallite, ma si accalcavano per lo più attorno al Grigio. C’era una cosa che colpiva a prima vista in quest’uomo, ed era il vuoto nei suoi occhi. Certo, Kalanov aveva già visto occhi così, quando la vita fa stillare da loro impietosamente ogni vivacità ed essi si raffreddano come le pupille di un morto. Ciò che attirava in questo volto smunto, munito di una barba brizzolata, era la durezza e la sua evidente dignità, un tratto evidente persino a chi non lo conosceva. Quest’uomo era presente tra gli altri, ma isolato, in un proprio mondo, e Kalana fu sorpreso dall’apatia che pervadeva i suoi tratti dagli zigomi sporgenti. Stava come immobile e continuò fino a quando l’ammirazione dei prigionieri, causata dalla vista dei dintorni, si quietò. Aveva ascoltato i suoi compagni schioccare la lingua e fischiare con due dita in modo acuto come i ragazzi: era come il loro omaggio alla natura, davanti alle grandi rocce diritte e ai precipizi vertiginosi, e li comprendeva. Aveva lasciato che si divertissero senza dar loro un colpetto indulgente sulla spalla e i ragazzi lo circondarono come se volessero preservarlo da un male invisibile in arrivo.

Il Grigio, un uomo che aveva già passato la quarantina, li attirava con il suo carattere impetuoso che non potevano ben spiegarsi, ma lo comprendevano e cercavano di stargli vicino. Forse per il fatto ch’egli non cercava neppure di provare loro di essere più grande e sapiente e non aveva paura di questa forza maliziosa, di cui li aveva dotati in sommo grado il Creatore. Essi sapevano che “prima di questo” era stato archeologo: veramente pochi tra loro conoscevano realmente il suo lavoro, ma non gliene chiedevano conto, ed anche lui non ne parlava. Persino lo Schwartz, uomo tarchiato sulla trentina, il cui volto era butterato dal vaiolo e che per il suo carattere irritabile ed intransigente bloccava persino i più ardenti, si azzittiva davanti a lui. I muscoli lisci che gonfiavano la sua t-shirt provocavano gli sguardi invidiosi dei ragazzi e il fatto che lo chiamassero tra di loro Schwartzenegger, o, abbreviato, lo Schwartz.

Ora si era piantato dietro il Grigio, taceva come lui e fumava in modo cupo delle sigarette corte, da intenditori, tutto compreso in questo travaglio interiore. Da tempo, dopo il loro primo incontro, questo giovanotto non aveva più attirato lo sguardo di Kalana. Aveva seguito con curiosità la direzione in cui si erano puntati gli occhi dell’altro, morti fino a poco prima. Fu allora che egli notò qualcosa che lo sorprese, una strana mescolanza di stupore e di insistenza, che gli impose di ritornare nel gruppo, composto dagli spaccalegna e dai cucinieri che parlottavano e si dondolavano, e vide Ralja. Era lei, la moglie di Kalana, che il Grigio guardava con muta ammirazione, e il nulla aveva lasciato le sue pupille.

Il forestiero s’infastidì. Non si aspettava di vederla tra i curiosi. Non era fatta della stessa stoffa dei paesani e si distingueva da loro, riservata, con il suo punto di vista, così che dopo un po’ Kalanov aveva rinunciato a cambiarla, malgrado ella fosse sufficientemente più giovane di lui. La natura aveva scolpito uno stampo perfetto, poi l’aveva rotto accuratamente. Ma ciò che adesso più lo sorprese era che gli occhi di sua moglie evitavano ostinatamente il volto del nuovo venuto. Così era stato tra Kalana e Ralja il loro primo incontro, e così più tardi, nei primi tempi del loro matrimonio. Questo fatto lo snervava, voleva il suo sguardo franco più di ogni cosa, nelle notti bruciava di desiderio non tanto per il corpo, quanto perché sognava che la luce verde dei suoi occhi chiari sfavillasse solo per lui, piena di intesa e di carezze… si chiedeva anche donde si fosse accumulato tanto pudore in una dottoressa che ha a che fare in ogni istante con l’imperfezione ed i mali della natura umana, e non riusciva a darsi una risposta.

Guardandola di soppiatto seguiva mentalmente i suoi atteggiamenti, cercando sempre segnali d’amore e tormentandosi quando non li trovava. E si chiedeva che cosa una donna come lei avesse scorto in lui, uomo così taciturno e noioso. Troppo tardi, proprio prima della rottura, egli aveva compreso gli sforzi di questa anima timorosa di nascondere l’amore di tutti, di sé stessa, di credergli e di prendersi cura di lui, ferito e tenero…

Ma era stato molto tempo prima. Già da alcuni anni Kalanov e Ralja vivevano separati, come pianeti ridotti in cenere, soltanto la sua chiamata telefonica tranquilla ma interrotta dal timore, ricordava alla dottoressa di Sofia che aveva ancora un marito in questa macchia dimenticata da Dio. Durante questi anni egli si era sforzato di dimenticarla, ripercorrendo le situazioni di odio e di avversione, ma davanti ai suoi occhi appariva sempre il suo viso bianco dalle ciglia nere, che emettevano una lunga e verde luce di reseda. E non sapeva se provare timore o essere contento, quando lei gli aveva detto che sarebbe venuta a lavorare nel bosco. Nelle notti seguenti aveva teso l’orecchio al lettuccio di fronte e si era ripromesso di fare l’impossibile per trattenere con sé questa donna straordinaria, la sua, malgrado che al mattino il suo sguardo spento lo scoraggiasse dall’essersi attardato a pensare…

Il suo destino di medico era ben difficile ed arduo, qui. I boscaioli erano gente unita e schierata, sognavano le loro case e cercavano di essere colti dalla notte nel villaggio, mentre i sorveglianti la paventavano come l’imprevedibilità di un fiume che rompe gli argini e inonda uomini ed animali. Da sua madre aveva imparato che il destino umano in parte è scritto ed in parte si forgia con le proprie opere. Il Grigio era di quelli che raccolgono sguardi silenziosi, per il suo aspetto o per la sua durezza interiore, ma aveva notato che Ralja sfuggiva ostinatamente i suoi occhi, e questo significava ch’ella lo vedeva con la sua anima interiore. Durante la giornata il forestiero resisteva alla sua paura di quest’uomo, ma dopo che capì a bruciapelo come costui avesse colpito il vecchio (che più tardi era morto) l’inquietudine si impadronì di lui e non lo lasciò più. L’istinto gli suggeriva che l’archeologo era tra gli uomini su cui lo sguardo esigente di Ralja poteva posarsi, si paragonava a lui e andava cupo per la foresta.

Sua moglie non supponeva che vagamente i suoi tormenti. I suoi giorni trascorrevano monotoni tra il campo medico ed il libro, per cui si addormentava a tarda notte sulla cuccetta scricchiolante. I boscaioli erano uomini buoni e sani che non le causavano grandi noie. S’inquietava piuttosto per la mano di Sredo, tagliata dalla scure, che cominciava a marcire. Egli stava curvo, mordeva i suoi baffi biondi e scuoteva la testa come se si rimproverasse in silenzio di disturbare una donna così fine e così bella.
La sua specializzazione era l’ortopedia, ma qui le malattie non conoscevano la distinzione e incalzavano in maniera caotica. Finora era l’infermiere inesperto che se la cavava efficacemente, ma si era sposato e si era trasferito recentemente in città.

Impulsivamente, senza chiedersi il perché, Ralja si era rallegrata ed era venuta in questo angolo dimenticato da Dio, in cui uomini ed orsi vivevano fianco a fianco. Aveva preso il bosco ed il villaggio e in breve termine la si era fatta venire per un parto, e avant’ieri si era presa cura di una giovane che aveva bevuto una tisana di stramonio, a causa di un amore, come dicevano i maligni, ma Ralja li capiva solo vagamente ed il suo animo vacillava tra le mura del proprio dolore.

Il destino non l’aveva fatta incontrare con il Grigio ed ella non l’aveva cercato. A quel tempo lo aveva visto da lontano, ma sentiva intuitivamente che non era come gli altri, e che un enorme dolore aveva intaccato il suo animo. Quello che le sembrava di intuire dai mormorii della cucina le provava una volta di più che il destino gioca con le persone come fossero dei palloni multicolori; le rovina senza pietà, e spesso le allontana dalle loro case e dai loro sogni… Fino a ieri quest’uomo aveva un suo peso, finché la Fortuna l’aveva spiazzato, urtato sulla china dove egli volava in silenzio e senza voltarsi indietro…

Kalana aveva studiato nei dettagli i sentieri dei boscaioli e si sentiva sollevato dal fatto che essi si trovavano lontani dalla baracca del medico. I prigionieri erano a regime allentato, ma mangiavano da parte, malgrado questo sentiva il cuore come una piccola palla spinosa.

Erano passati alcuni mesi dal loro arrivo al cantiere. Quel giorno si rasò, rispose con imbarazzo alla domanda di Ralja, chi si fosse chinato sopra la sua sacca di medico, e uscì. Poi si precipitò verso Goljam Skakalec, ove si dovevano piantare le giovani piante e non fece caso al corso ed al tramonto del sole. Si preparava a una nuova e triste serata in silenzio. Qualcosa di strano respirava alitando in un cantuccio e subito ritornò agli anni di cui non si parlava mai molto, soprattutto lui, l’uomo selvaggio della foresta, come si autodefiniva, ma questo silenzio era differente. Aveva riunito in sé lo slancio di due corpi e il verde di due occhi, che si levavano verso di lui pieni d’amore. Stava dando i suoi ultimi ordini agli operai, per finire, quando una voce sottile ed insolita lo chiamò.

“Zio Bratan , mi manda mia madre! Vai svelto, Neika – mi ha raccomandato – chiama Kalana! Buon Dio… a momenti un albero schiacciava il nostro Miko, il medio, ma il Grigio lo ha salvato. Adesso è coricato, non Miko, il Grigio! Oh io sono assolutamente confusa… in apparenza respira, ma il contabile ha detto: “ Si vedrà se riuscirà a cavarsela!”… Mamma piange, inveisce contro mio padre perché ha preso il piccolo al bosco! Eh… allora, bisognerebbe anche dire, sono andata a cercare la dottoressa, ma era scesa al villaggio”.

La giovane corse via e Kalana comprese che era balzata fuori dall’angolo: la sua ora era venuta, doveva seguirla.
Quando entrò nella baracca il viso rabbuiato di Ralja lo colpì. L’avevano trovata. Era seduta vicino al malato e non guardava nessuno, né il Grigio né lui, Kalana, quando egli entrò con cautela e si sedette silenziosamente. Il torace e la gamba del prigioniero erano coperti di bende bianche, aveva sul viso dei lunghi solchi scavati dai rami del pino, resi più evidenti adesso dalla tintura di iodio. Ma questo non lo rendeva brutto. In queste ore era invecchiato, la sua barba, di solito liscia, era adesso arricciata in disordine, e diventata completamente bianca. Teneva gli occhi aperti e Bratan Kalana non poté vedere se contenevano il nulla.

Comprese immediatamente che era successo l’inevitabile. Sua moglie, la sua Ralja, doveva restare accanto a questo infelice, non poteva più scambiare con Kalanov neppure le parole insufficienti, su cui lui poi avrebbe rimuginato e interpretato a suo modo. Il Signore aveva inviato la migliore assistente in questo inferno ed egli invidiava il Grigio che era stato schiacciato dal pino a Goljam Skalect. Per un attimo gli bruciò il sospetto che l’uomo si fosse lasciato travolgere apposta, poi si calmò in fretta “Chi sa! Chi lo sa!” Questo pensiero fece sussultare il suo cuore ed egli si alzò subito.

Le ultime notti non aveva praticamente dormito. Quel giorno pensava di salire a Borulja – luogo prediletto dai bracconieri, ma lui prese un altro sentiero – così si accorse che le gambe lo portavano verso il campo medico, e quando vi s’infilò incontrò lo sguardo interrogativo ed un po’ canzonatorio di Ralja. Lei restava costantemente presso l’infortunato che gemeva nel sonno, ma questa volta aveva abbassato i suoi occhi verdi verso il viso, e non li spostava, soltanto rassettava le coperte. Kalana faticò a non ringhiare sordamente, poi prese di botto il suo cappello e sbattè rumorosamente la porta sul muso del poliziotto di guardia. Già per istrada si rimproverò questa intemperanza espressa davanti ad un malato, Ralja non lo avrebbe mai perdonato. Ma questo rimprovero si spense presto, egli piuttosto malediceva il cielo per aver inviato questo strano uomo, il Grigio, nel suo bosco, nella sua regione, esattamente mentre lui era in procinto di ritrovare sua moglie – la sua Ralja…

Che certamente non tornava. Tuttavia il sofferente era già uscito dal coma, riconosceva le persone attorno a sé, ma restava abbastanza debole, ed a causa delle sua coste fracassate si evitava di muoverlo. La dottoressa passava le notti a fianco di un malato che delirava, molto spesso seduta su una sedia accanto a lui finché il sonno non colava vischioso sulle sue ciglia. E conosceva già i fantasmi che tormentavano il suo sonno e attingevano alle sue notti – egli chiamava molto spesso suo padre, gli parlava dettagliatamente di un vecchio con un carretto da fieno e gli chiedeva spesso perdono… ma di cosa, e perché, Ralja non potè capire, da quelle parole a mezzo, pronunciate dalle labbra screpolate. Il nome di Despina trasformava interamente quest’uomo: diventava ora gentile e supplice, ora arrogante e duro, e Ralja sentiva di cominciare ad odiarla, senza conoscerla. Perché l’aveva incontrata prima di lei…

Al settimo giorno si svegliò senza il sudore incollato al viso e quando aprì lentamente gli occhi una certa forza gli aveva restituito lo spirito, perché la guardò come una volta, al bosco, al loro primo incontro, con ammirazione ed insistenza.
“Siete voi ?” – mormorò, e qualcosa aveva cacciato il vuoto nei suoi occhi che adesso sorridevano.

Questa volta la dottoressa non distolse lo sguardo, cedendo a questa attrazione più forte di lei, né la sua mano, quando le sue dita forti sfiorarono le sue. Da quel momento questa donna aveva compreso che era lei quella che lui attendeva.

Intanto Kalana perse la pace dei suoi giorni. Aveva deciso di andarsene dal bosco, poi giurava di restare vicino a questa donna, la sua, e di proteggerla. Da chi esattamente egli non lo diceva nei suoi pensieri, ma senza accorgersene si abituò al fatto che il male respirasse accanto a lui, da una grande gola aperta.
È vero che con gli operai egli si capiva bene, ma in quei giorni padre Ticho, il contabile, buttò là che qualcuno rubava i tronchi d’albero e che questi diminuivano.

“Come, li ruba?” si sbalordì il forestiero, ma l’operaio che era già passato oltre, abbozzò solo un lieve movimento di spalle “Nella notte, Kalana, al chiaro di luna, qualcuno si arricchisce, e i boschi sono diventati un campo aperto, da quando sono arrivati costoro”
Erano le parole di Ticho che forse alludevano agli affari di cuore di Kalana, ed egli oscillava tra furore e sospetti. Da molto tempo sentiva che il fiume nero lo portava, torbido e pieno d’acqua, e che egli era un cattivo navigatore, incapace di resistere ai flutti. Lanciò qualche parola ai guardiani che sorrisero condiscendenti, che Ticho vedeva dei fantasmi durante il giorno, poi gli diedero un colpetto sulla schiena, consigliandogli di occuparsi del rimboschimento. Si passavano una piccola fiasca d’acquavite – per scaldarsi – spiegò il Grigio, ed una fiamma astuta bruciava nei suoi occhi.

Kalana vide rosso. Malgrado la natura l’avesse dotato di un sangue bollente si trattenne e decise di agire senza rumore e da solo. Una notte in cui persino la sorridente luna non era visibile, prese la sua carabina e si diresse verso il bosco. La sua emozione, nata dall’arroganza dei malfattori, si era già spenta ed al momento camminava tranquillo.
La notte era densa di tenebre e se non si fosse conosciuto il luogo non si sarebbe potute notare il mucchio di tronchi d’albero. Non si sentiva il rumore di un uccello notturno, né il brontolio di un camion, ma egli percepì delle deboli voci ed un alito estraneo nel crepuscolo. C’erano! Gliel’avrebbe fatta vedere! Era certo Ticho che aveva delle mani e degli occhi da ladro e che aveva fatto combutta con lo Schwartz…

Tirò il grilletto e lo sparo si unì al grido di donna, che come una somma magia avrebbe voluto pietrificarlo. Aveva fallito!
Quando la sua torcia elettrica illuminò le sagome riconobbe i corpi insanguinati di Ralja tra le mani del… Grigio.
La mattina il bosco si svegliò con la notizia che Kalana aveva ucciso sua moglie.

(Traduzione italiana a cura di Gemma Francone e Franco Blandino dalla traduzione in francese di Maria Uzunova)

Dipinto di Franco Blandino

Poeti dal mondo: Ivanka Deneva, Bulgaria