Pietro: R-esistente

pietro 1

PATRIZIA GHIGLIONE
Ho conosciuto mio nonno nella mia infanzia, è morto quando avevo appena 13 anni, perciò non ho potuto viverlo in modo del tutto consapevole. Qualcosa, tuttavia, è riuscito a trasmettermi, della dedizione che aveva nei confronti della causa, quella della liberazione dalle oppressioni esterne ed interne.
Aveva poco meno della mia età, appena 17 anni, quando entrò nelle formazioni partigiane. In periodo di guerra le responsabilità si sentivano prima, si era costretti a scegliere subito quello che si sarebbe voluto essere da grandi. Quando decise di salire sulle montagne, lo fece entrando in un gruppo resistente autonomo, si chiamavano proprio così, “gli autonomi degli autonomi”. Mi raccontava quanto fosse stata dura la vita sulle montagne, di come fossero lunghi i mesi invernali. Mi raccontava, soprattutto, l’impotenza. Quando, per esempio, si stavano dirigendo verso un rifugio e c’era la neve alta. Ad un certo punto, uno dei suoi compagni, scivolando sul sentiero, finì in fondo ad un baratro profondo un centinaio di metri. Si ruppe una gamba. Ascoltarono per giorni i lamenti di quell’uomo, senza poterlo soccorrere. Lo sentirono finché non fu morto. Sarebbero caduti anche loro nel baratro, se avessero tentato il salvataggio, non poterono far altro che assistere alla sua agonia. Non avevano mezzi. I partigiani cominciarono la loro guerra senza nulla, improvvisando. Partire a piedi verso le montagne privi di ogni sostegno e aspettare, magari per mesi, di essere chiamati all’azione; restare lì, in balìa del fato, ritrovarsi a contrastare le difficoltà quotidiane privi di risorse e di esperienza. Sono andato, anni fa, nella grotta dove si erano rifugiati, dove avevano vissuto. So che spesso sono stati costretti a derubare, per sopravvivere. Certo, bisogna saper sostenere queste prove, bisogna saper affrontare il peso di aver fatto e di fare cose sbagliate, per una causa giusta.
È un peso che io probabilmente non riuscirei ad affrontare.
Così come uccidere.
Uccidere un fratello che è dalla parte “sbagliata”.
Potrebbe, lui, non aver avuto la possibilità di scegliere.
Mio nonno non ha mai parlato della sua difficoltà di uccidere.
Noi vogliamo credere che non abbia mai avuto la necessità di farlo.
Credo che uccidere cambi davvero la vita.
Credo che si vivano esperienze, in queste situazioni estreme, che vanno oltre la parola.
Non possono essere raccontate o scritte.
Di certo, per quanto è possibile, si tenta di rimuoverle.
Per poter continuare a sopravvivere.

Mi è difficile immaginarmi in una situazione di guerra. Non vedo, nel mio oggi, un motivo, un’occasione per partecipare ad un’esperienza del genere. Se c’è una cosa in cui credo, questa è la libertà degli uomini. Sembra banale tirar fuori la parola libertà, un termine sottoposto ad usi ed abusi, fino ad essere completamente svuotato, privato del suo significato autentico.
Penso che la libertà possa essere tale finché non lede la libertà altrui. Troppo spesso, invece, sembra che la libertà di ognuno consista proprio nel togliere la libertà ad altri. Essere liberi, per me, è innanzitutto avere dei pensieri e la possibilità di esprimerli. Il diritto di pensiero e di parola è proprio da considerarsi un bisogno primario.
In questi tempi, ho la sensazione che qualcosa ci stia facendo dimenticare che possiamo pensare, parlare ed agire in maniera libera. O, almeno, che dovremmo poterlo fare. Qualcosa ci porta a considerare inutile il confronto e la discussione. Una sorta di nihilismo diffuso. Niente ha senso, per cui non c’è motivo perché si continui a soffermarsi su un pensiero, ad esprimerlo. Viviamo, così, una forma di vita superficiale. Ci abbandoniamo, anzi, all’uso di una Parola che ormai è entrata a far parte integrante del mondo del consumo, è diventata un oggetto, un elemento di scambio commerciale. Tutto, la politica stessa, non è altro che pubblicità. E, nel più coerente dei casi, diventa pubblicità elettorale.

Rimpiango i tempi, non vissuti, dei grandi comizi di massa. L’idea, il pensiero detto, che incoraggiava una presa di coscienza, che riusciva ancora a raggiungere tutti. Adesso disponiamo dei mezzi che consentirebbero alla coscienza di essere diffusa in modo capillare, eppure non li usiamo. Godiamo della tecnologia in quanto tale, come i nostri bambini consumisti godono di un giocattolo, per la novità che esso rappresenta. Non sono d’accordo sull’abbandono di questi mezzi, e d’altra parte credo che non si possa retrocedere. Abolirli, con le potenzialità che essi racchiudono, sarebbe assurdo.
Esistono, per esempio, occhiali tecnologici che hanno permesso ad un medico americano di salvare un paziente; ha scoperto, in tempo reale, alcune allergie dell’uomo che stava operando e ciò gli ha consentito di intervenire tempestivamente e in modo adeguato. Nella pubblicità, questi occhiali vengono utilizzati per fotografare, per mettersi in contatto con amici. Per amenità di questo tipo, insomma. Cose inutili, il gioco, fermarsi al piacere di avere qualcosa. Qualcosa che si è pronti ad abbandonare nel momento in cui la novità diventerà un’altra. Ecco il problema del consumismo, si accumulano oggetti perché si ha la libertà di farlo. Il diritto al possesso delle cose. Che non servono. L’uomo confonde la possibilità di fare o di avere qualcosa, anche di assolutamente inutile, con la libertà. Quando pensa ad essa, inoltre, non sa allontanarsi troppo da se stesso e dai suoi più stretti dintorni. È individualista, e nel modo più radicale.

In un certo senso, anch’io, con il mio comportamento, sostengo l’individualismo. Trovo il vero me stesso solo nella dimensione individuale, non mi sento inserito nel contesto che mi circonda; del resto, è ciò verso cui, per molto tempo, sono stato spinto ed indirizzato.
Un bel motivo per iniziare la mia Resistenza: oppormi a quella parte di me che si lascia soggiogare, che si occupa della propria coscienza e della propria consapevolezza, senza preoccuparsi di condividerla.
E, in questo modo, contribuire alla sua Liberazione.