2. La République des Lettres

Friedrich von Schiller (da Wikipedia)

Friedrich von Schiller (da Wikimedia Commons)

DINA TORTOROLI
Il poemetto La Résignation non è l’unico componimento scampato alla rescissio actorum di Gian Carlo Imbonati, operata dal Manzoni, ma è quello la cui attribuzione ha avuto l’avallo di un’autorevole perizia calligrafica: un motivo in più per dedicargli la massima attenzione.
La chiamata in causa di Schiller induce, in un primo momento, a considerarlo veramente «una traduzione assai libera, quasi potremmo dire un rifacimento» (Sanesi) del poemetto Resignation / Eine Phantasie, pubblicato nel 1786, sulla rivista letteraria  Rheinische Thalia.
Però, nonostante la segnalazione - che amareggiò talmente Ireneo Sanesi da paralizzarne la curiosità  intellettuale – provenisse da una fonte autorevole, attira l’attenzione e suscita perplessità il fatto che Schiller, dopo aver esordito:  «Auch ich in Arkadien geboren» (Anch’io nacqui in Arcadia) al verso uno, dica – al verso due e tre -: «Auch mir hat die Natur / An meiner Wiege Freude zugeschworen» (Anche a me la natura promise al nascer mio ogni gioia), e ribadisca, al verso quattro: «Auch ich in Arkadien geboren».
Pare persino superfluo far notare che, nella comunicazione  ordinaria, chi si esprime così parla dopo colui che ha detto: «Il cielo mi fece pure nascere  nell’arcadia. La natura, sulla mia culla, giurò di rendere felici tutti i giorni della mia vita».
Inoltre è facile verificare che l’Imbonati ripercorre effettivamente le epoche della propria esistenza, mentre Schiller aggiunge il sottotitolo Eine Phantasie, quasi a prendere le distanze da affermazioni che non corrispondono alla sua reale situazione.
Procedendo nella lettura, si può poi constatare che Schiller si impegna nell’elaborazione artistica di motivi a lui cari come la religiosità pietistica, la fratellanza, la gioia. Assume talvolta atteggiamenti declamatori e – questo deve essere evidenziato -  pone l’accento su un tema classico: l’oraziano carpe diem.
Carlo Imbonati, invece, ci sta davanti non tanto come poeta, ma come uomo, dominato dal timore di essere giunto alla fine del tempo avuto in dono.
In ogni modo, stabilire quale dei due autori, per primo, si fosse interrogato sulla propria visione della vita e chi lo avesse fatto poi, adeguandosi a un itinerario di riflessione già tracciato, è problema di secondaria importanza. Nella prospettiva in cui noi guardiamo oggi a questi componimenti, acquista invece notevole valore la sensazione che si ha – leggendoli in sequenza – di assistere alla messa in comune, con intento didascalico, di temi di importanza fondamentale come il contrasto tra bene e male, la coscienza, l’amore della verità, l’ordine morale del mondo.
Schiller divide il testo in strofe, e già nella seconda introduce il tema che gli sta a cuore: «Des Lebens Mai blüht einmal und nicht wieder» (Fiorir solo una volta può il Maggio della vita), che alla fine riproporrà, a sigillo del componimento: «Du konntest deine Weisen fragen / Was man von der Minute ausgeschlagen / Gibt  keine Ewigkeit zuruk» (Chieder potevi a savii tuoi consiglio, / Il ben, ch’offre il momento e non si prende, / Nessuna eternitade unqua lo rende). (Traduzione italiana di Antonio Bellati, in Operette di lettura piacevole ed istruttiva, Saggio di Poesie Alemanne recate in versi italiani da Antonio Bellati, Milano, Fontana, MDCCCXXXII, p. 70).
Il poemetto imbonatiano, invece, è composto di due parti di 45 versi ciascuna, più quattro versi al centro, che introducono un mutamento di registro.
La prima parte ha un timbro più colloquiale ed è più strettamente autobiografica. Infatti, scorrendo velocemente quei versi si trova conferma di tutto ciò che le testimonianze superstiti della damnatio memoriae ci fanno sapere di lui.
Carlo parla in prima persona. Con dolente sarcasmo, dice che dovrebbe ritenersi un privilegiato, perché è persino nato nell’«arcadia» (in minuscolo! Vale a dire nel palazzo Imbonati, fra gli accademici Trasformati: «cigni» – a detta di Pietro Verri -, oltre che riformatori illuminati).
Pertanto, fin dalla culla, gli è stata pronosticata una vita tutta di giorni felici. (A conferma di ciò, basta leggere l’ode L’Educazione, del Parini).
Però, non è stato così. Lui ha ancora ben poco da vivere e non ha mai assaporato la dolcezza di quell’avvenire così bello: la sua è stata un’esperienza di dolore. (Carlo si ammalò gravemente all’età di dieci anni e a quindici rischiò addirittura di morire, a causa di un male che poi si cronicizzò).
Non solo egli deve dolorosamente constatare che è finita la sua giovinezza, ma dichiara di vedere – imminente – il suo faccia a faccia con l’oscura e vasta eternità, cui consegnerà intatto il pegno di felicità già menzionato: quel dono ingannevole, del quale il suo cuore smentì troppo spesso il fascino tanto vantato. (Morirà poco più che cinquantenne).
Si appella pertanto all’Eternità, la cui fama di giudice inflessibile, ma anche imparziale, induce a sperare che nell’al di là il male venga finalmente riconosciuto come tale.
Farà spavento, allora, aver commesso crimini; al contrario, chi – innocente sventurato – sarà stato trattato con rigore dai capricci della sorte, troverà consolazione.
Che cosa potrà essere imputato a lui? Soltanto la tempesta dei sensi, propria dell’adolescenza. Un momento tumultuoso, e subito gli fu chiesto di sacrificare la propria brillante giovinezza, in vista del premio che avrebbe ricevuto dalle mani dell’Eternità. (Carlo aveva accettato di lasciare Milano e di diventare allievo del  Collegio Clementino di Roma, dal 1770  al 1774, cioè dai diciassette ai ventun anni, e vi aveva assunto, prima del tempo, l’atteggiamento austero della maturità).
Ripensando all’obbligo di rinunciare alla sua Laura, Imbonati ha uno scatto di sdegno: quello fu un sacrificio crudele. Nessuno avrebbe dovuto pretenderlo: egli si sentì morire ogni giorno.
Gli fu data in cambio una dottrina consolatoria: il suo momentaneo dolore sarebbe stato ripagato nell’al di là, da secoli di piacere. Riflettendo sul fatto che tutto è fuggevole – compreso il piacere -, è più saggio prepararsi a raccogliere frutti in un mondo che non ha fine.
A questo punto, il tono del discorso cambia: terminata quella che potrebbe essere considerata anche la replica all’ode dedicatagli dal Parini, l’Imbonati, consapevole delle tesi che andavano elaborando pensatori dei salotti intellettuali francesi e dei sodalizi culturali tedeschi, orienta le proprie riflessioni verso un più ampio orizzonte.
Egli ammette di aver conosciuto anche voci derisorie, che confutavano la speranza, ma a parlare – dice lui – era un mondo corrotto.
Le voci del mondo si erano fatte più pressanti e imperative: come poteva ragionevolmente credere in quell’asilo della cui esistenza non c’è alcuna prova concreta? È vergognoso ubbidire ai propri rimorsi.
Imbonati riconosce che c’era del vero nelle parole dei beffardi: nessuno gli ha svelato il mistero dell’al di là. Facilmente avrebbe potuto prevederlo, ma ciò nonostante aveva scelto di attenersi ai principi inculcatigli dagli educatori. Non si era mai lasciato distrarre dai piaceri mondani e aveva  tenuto testa agli errori del suo tempo.
Pensa dunque di meritare un corso di giorni più sereni, per breve che esso sia. (Non è improbabile che Imbonati componesse La Résignation nel momento in cui, conosciuta Giulia Beccaria Manzoni, cioè proprio nel 1786, stando alla testimonianza dell’amico Sébastien Falquet-Planta, egli provava  finalmente quella «tranquillità d’animo e felicità» di cui ringrazierà Giulia – con un commovente «attestato pubblico e solenne» – nel proprio testamento: prezioso autografo, conservato presso l’Archivio di Stato di Milano).
In ogni modo, la consapevolezza dettata dall’esperienza lo induce a questa conclusione: la vita può essere resa attraente dal piacere come dalla speranza, ma non è possibile vivere ispirandosi a entrambe le muse. La remunerazione – per lui che ha sperato – consiste appunto nell’aver vissuto portando nel cuore quella consolazione, e adeguandovi ogni suo gesto.
È evidente che la rassegnazione, che dà il titolo al componimento, non si configura come un gesto di resa, ma è un atto eroico di accettazione, che rende il protagonista martire, nel significato etimologico del termine, vale a dire testimone.
Pertanto, La Résignation,  il primo documento in cui sentiamo Gian Carlo Imbonati parlare di sé e di ciò che gli sta a cuore, ci permette di constatare che il Manzoni non esagerò, quando celebrò le doti morali e l’esemplarità della vita dell’incomparabile scomparso, nel carme In morte di Carlo Imbonati / Versi di Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre.
E mi pare ancora più importante evidenziare il fatto che  la statura morale e la levatura intellettuale dell’Imbonati coincidono perfettamente con quello dei più celebri Idéologues, in contatto coi quali egli trascorse gli ultimi dieci anni di vita. È identico persino il loro orizzonte linguistico.
Lo si può constatare, per esempio, quando, a metà del poemetto, viene introdotta una visione apocalittica.
Essa rimanda al riflesso che le «grandi fisiche catastrofi», come il terremoto che sconvolse la Calabria nel 1783,  ebbero, nelle meditazioni di quei filosofi.
Imbonati ricorre a un frasario che immediatamente fa ricordare le celebri pagine  dell’Invocazione con cui Volney apre Le Rovine. Là, è ben noto, viene introdotto un «Genio», in soccorso del  «giovane mortale» alla ricerca della verità (Le Rovine ossia Meditazioni sulle Rivoluzioni degl’Imperi, di Volney, Lugano, Tipografia Elvetica, 1862, vol. I, pp. 21-24, 12-13, 72-74, 32, 104-105).
Ebbene, quegli stessi insegnamenti: la «dottrina delle tombe», i «sistemi di religione» dei despoti – opposti alla «legge della Natura» -, nonché la messa in guardia dalla «superstizione» e dalla tentazione di «credere senza evidenza» vengono sintetizzati dall’Imbonati in ventun versi, dal desolante epilogo: «Suvvia, questa eternità che il tuo orgoglio reclama, / Questo fantastico asilo in cui rinasceranno i morti, / Sono il frutto vergognoso dei terrori della tua anima, / Sono il frutto dei tuoi rimorsi».
Sarebbe assurdo parlare di coincidenze casuali: questi rimandi inducono piuttosto a ipotizzare anche in questa circostanza un dibattito culturale, un dialogo a distanza di due pensatori, intenti a mettere in chiaro le proprie posizioni su un problema, che, però, Imbonati non può considerare col medesimo distacco scientifico di Volney, perché in lui prevale l’emotività del condannato a morte.
Pertanto è con questa consapevolezza di un imminente faccia a faccia con la temibile Eternità  che Carlo Imbonati si è interrogato sull’esistenza «nel tempo»: sul male e sul bene, sulla menzogna e sulla verità, sulla rinuncia e sui piaceri, sulla dissipazione e sulla saggezza, sullo scetticismo e sulla fede.
Come ho già detto, decisi di pubblicare le mie considerazioni in un libretto, intitolato Il piacere e la speranza,  traduzione dei termini juissance  ed espoir: le due Muse il cui potere abbellisce e consola la vita dei mortali, a detta di un genio, a cui Gian Carlo Imbonati, sulla falsariga di Volney, fa ricorso come a un messaggero di  verità.
Oggi, sono indotta a riproporle all’attenzione di un più vasto pubblico, perché La Résignation appare ai miei occhi come l’Arc de triomphe verso il quale convergono, a stella, le strade percorse prima del suo ritrovamento e dal quale si dipartirono quelle affrontate in seguito, sempre col problematico compito di ricostruire almeno il profilo del «philosophe Imbonati», uno di quei « génies puissants»  che inducono Stendhal a dichiarare: «C’est l’existence de ces hommes […] qui […] fait de l’Italie l’un des premiers pays du monde» (È l’esistenza di questi uomini che fa dell’Italia uno dei primi paesi del mondo). (Stendhal, Courrier anglais, Paris, 1935-36, vol. I, pp. 211-212).

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