Fracci: il nome italiano della danza

Intervista a Carla Fracci e Beppe Menegatti

carla-fracciCLAUDIO SOTTOCORNOLA.
Solo quando vidi la Fonteyn danzare alla Scala, capii che quella era la mia strada

Siamo andati a trovare Carla Fracci per ricostruire un «ritratto d’artista» che fosse in qualche modo specchio del fantastico mondo della danza. Accanto a lei il celebre marito, il regista teatrale Beppe Menegatti.
Dal Metropolitan di New York all’Opéra di Parigi, Fracci è dunque sinonimo di Italia, come Verdi e Pavarotti. Ma se incontrate la «ballerina stanca» (come diceva Montale), in un qualsiasi camerino di teatro, vi colpisce la sua schiettezza, appena temperata da un grande senso della misura: sobrietà e concretezza come stile di vita. Del resto, è lei stessa a mettere bene in chiaro: «Si nasce per essere donne, mica ballerine!». E lo dice accanto al marito, con il quale ha dato vita a un lungo sodalizio (sposi dal ’64), prolifico di spettacoli ma anche di un figlio, Francesco, 23 anni, «alto 1.92», mi dicono con orgoglio, laureando in architettura a Venezia. Una vita piena di soddisfazioni umane, e naturalmente di allori professionali. Carla Fracci ha appena firmato con la Scala un contratto di tre anni, fino al ’96 (allora saranno cinquant’anni nel celebre teatro): mezzo secolo sulle punte…

Come era la bambina Carla Fracci?
«Una di quelle bambine vivaci che vivono in campagna, con i nonni. Ricordo la libertà e la spensieratezza di una fanciullezza bella, serena, con i parenti che ti voglion bene, le passeggiate, le corse nei campi, rubare la frutta… Vengo da una famiglia molto modesta, molto umile, ma molto coraggiosa e onesta, e di questo sono pienamente orgogliosa: mio padre era tranviere, mia madre lavorava come operaia all’Innocenti. C’era il problema di lasciare la bambina in mani sicure, specie mentre mio padre era in guerra. Così sono stata con i nonni e con gli zii in campagna, e mia madre veniva a trovarmi appena lo poteva».

Che cosa ricorda dei primi contatti col mondo della danza?
«Mi sono trovata alla Scala non per mia scelta, perché non sapevo che cosa fosse la danza. Ero una bambina che aveva molta musicalità e un senso del movimento molto acuito. Quando accompagnavo i miei genitori nelle sale da ballo, si fermavano tutti a guardarmi perché ballavo veramente bene. Rientrati a Milano, alcuni amici di famiglia consigliarono di iscrivermi alla scuola del Teatro alla Scala. Così, a nove anni, ho fatto questo salto radicale, per me molto penoso, dalla campagna alla città. Soprattutto, non capivo che cosa fosse il lavoro alla sbarra. Ma poi, lentamente, le bambine venivano scelte nei balletti, e io, a dodici anni, mi sono trovata come comparsa nel balletto “La bella addormentata”, dove appariva al primo atto quella straordinaria artista che è Margot Fonteyn. Allora si è illuminato in me il senso del teatro, della danza, ho avvertito un’ispirazione, una luce vera. A quel punto mi sono messa a lavorare, ho avuto degli insegnanti straordinari, che hanno capito il talento che potevo avere: lunghi anni di lavoro, molte soddisfazioni».

E molti incontri importanti…
«Sì, ho lavorato per esempio con Luchino Visconti nella “Traviata” e nella “Vestale”, ma ero una ragazzina, lo guardavo come un mito inavvicinabile. Lui invece era molto dolce, molto tenero, mi avrebbe voluto nella prima di “Mario e il mago”, che invece fece la Novaro. Ho anche dei ricordi molto belli di Maria Callas, alle cui opere noi ragazzine facevamo un po’ da contorno. Era piena di frasi simpatiche per noi, che pronunciava con l’inflessione veneta del marito Giovan Battista Meneghini. Maria era molto miope, così quando in scena stavamo tutte abbracciate attorno a lei, in un cerchio, ci diceva: “Ma sapete che io non vi vedo?”. Era una cosa buffa, dato che poi, nella “Traviata”, la si vedeva scendere quelle scale volando, quasi senza toccare terra. Ma l’ho vista anche in momenti di tensione terribile, persa in un angolo del palcoscenico come un uccellino vulnerabile, lei che chiamavano “tigre”! Io e mio marito abbiamo frequentato molto anche Vittorio de Sica, pranzando spesso con lui, la moglie e la figlia. Era un uomo pieno di vita e spiritoso, di grande eleganza e savoir faire, dotato soprattutto di grande generosità verso tutti».

Fra le tante eroine portate sul palcoscenico, in quale si riconosce di più?
«Quando si portano in scena dei personaggi bisogna un pochino amarli tutti, crederci. Poi ci sono i ricordi legati alle persone che ti hanno dato molto, come registi e coreografi. Per esempio, John Cranko ha lottato per avere me come sua prima Giulietta, un personaggio che io amo molto, come la famosa “Cenerentola”, che è un po’ la mia storia. E poi c’è il Teatro alla Scala, la mia prima “Giselle”!».

Di Carla Fracci si tende ad affermare l’immagine della danzatrice romantica. È una definizione adeguata? – chiediamo al celebre marito e regista, che sta seguendo con attenzione la nostra chiacchierata.
«Carla è una danzatrice che ha al suo arco molte frecce. È stata eccellente nel “Bolero” di Bejart, ma lo è stata anche nella “Medea” di John Butler. Certo, ci sono le grandi punte interpretative, come il ruolo di Giulietta, ma è un grosso equivoco considerarlo romantico in senso detrattivo: Giulietta è una rivoluzionaria, perché è la prima che si oppone alla volontà paterna. Carla, del resto, ha affrontato anche i ruoli più impervi basati sui canoni della danza contemporanea, come nel recente “Fall River Legend”. Oggi potrebbe affrontare molto bene Madame Bovary, perché Carla ha una educazione morale che la porta a guardare questi ruoli, non come se stessa in uno specchio, ma da un punto di vista critico, andando alle radici, alle motivazioni più profonde per cui una donna si è mossa sentimentalmente e moralmente in quel modo. Non a caso Carla è stata scelta da George Balanchine, l’inventore più clamoroso della grande tecnica contemporanea».

Dal pubblico al privato: che cosa rappresenta la famiglia per Carla Fracci?
«È chiaro che la famiglia è importante, un figlio è forse il mio successo più grande. Si nasce per essere donne, mica ballerine! E questo dimostra un po’ il mio tipo di carattere», risponde la danzatrice. Le fa eco il marito: «Quando due persone formano una famiglia, quella diventa la cosa più importante. Carla ed io ci siamo potuti permettere di seguire queste carriere così difficili, con spostamenti impegnativi, grazie anche alla presenza di un vero angelo domestico, la signorina Maria Luisa Graziadei, che ci ha aiutato ad allevare Francesco».

E il rapporto con la cucina? Di solito le grandi professioniste non hanno il tempo di diventare grandi cuoche…
Spiega Menegatti: «Per le persone di teatro il rapporto più difficile è proprio con ciò che si mangia, l’alimentazione. È la cura particolare di chi deve adoperare il proprio fisico nella integrità più assoluta: Carla, naturalmente, ma io stesso, quando devo affrontare una prova di sei ore con duecentocinquanta persone da manovrare, il che richiede una vera e propria preparazione ginnica. Questa preparazione deve essere garantita da uno scrupoloso senso dell’alimentazione. Non mi vergogno affatto a dire che, quando siamo ospiti di grandi alberghi, come il Savoy di Londra, abbiamo necessità di un appartamento con due bagni, di cui uno viene trasformato in una cucina dove, tra lo stupore generale, cuciniamo da soli, anche perché siamo italiani».

E gli hobby?
«Carla ha un hobby abbastanza simpatico, quello di raccogliere pettini per la testa. Ne ha una collezione di 250 pezzi, da quelli più popolari a quelli più rari, come una splendida corona di corallo donatale da una scrittrice di grande cultura cileno-statunitense, Parmenia Migel».

Signora Fracci, che cosa conta di più nella vita?
«Nella vita bisogna saper prendere le cose belle e lasciare alle spalle quelle che ti disturbano. Quando ho dei momenti di tensione o di stanchezza, penso a quello che la mia insegnante diceva di me alle mie colleghe, con il suo forte accento inglese: “Ma fate come Fracii: le cose le entrano da un orecchio e le escono dall’altro”. Certo, ora è più difficile farle uscire dall’altro, perché le responsabilità sono enormi e, quando si prende coscienza di questo, se ne sente anche il peso».

Signor Menegatti, c’è un prezzo che sua moglie ha dovuto pagare per realizzare una carriera di danzatrice così grande?
«La carriera di una ballerina va affrontata come qualsiasi altra carriera, come un contadino affronta seriamente il lavoro e il rendimento dei propri campi, come una infermiera affronta la cura dei malati. Purtroppo, le ballerine hanno questo senso di autocommiserazione, per cui sembra che i sacrifici li debbano fare solo loro. Ma non è così. Questa intervista lei l’ha fatta a Carla e a me, perché siamo persone che non hanno più vent’anni né quaranta. Perché i grandi personaggi (e qui mi riferisco a Carla) diventano veramente grandi e imitabili, nella sublimazione del proprio lavoro, nella sublimazione del proprio gesto. Una grande tagliatrice di abiti è come una grande ballerina: lei non la troverà a diciotto anni né a trenta. Sì, Coco Chanel è tale anche a venticinque anni, ma la Coco Chanel assoluta è una donna che fino a settant’anni sa fare il miglior tailleur della terra. Se no, non siamo Chanel».

Pubblicato per la prima volta in: La Provincia, 25 luglio 1993. Oggi inClaudio Sottocornola, Varietà. Taccuino giornalistico: interviste, ritratti, recensioni, approfondimenti, ricerche su costume, società e spettacolo nell’Italia fra gli anni ’80 e ’90, Marna editore, 2016. Margutte ne parla QUI)