Una bugiarda aureola di gloria

Battaglia di Vittorio Veneto (da Wikimedia Commons)

Battaglia di Vittorio Veneto (da Wikimedia Commons)

GIGI GARELLI
Cent’anni fa l’Italia entrava nella Grande guerra sospinta da un’ondata di retorica e falsi miti.
Ma fin da subito si alzarono voci di denuncia contro le menzogne della propaganda interventista, in particolare dal mondo femminile

Guerra

È arrivato il centenario della Grande Guerra, con il suo fardello di celebrazioni cariche di enfasi e di retorica. Come già accaduto in passato ad ogni decennale, ci sarà chi sceglierà di sottolineare lo spirito risorgimentale del conflitto, chi il richiamo profondo delle terre irredente e chi ancora il coraggio e l’abnegazione delle truppe al grido eroico di “Savoia!”. Ma questa volta qualcosa è cambiato, e forse si sentiranno anche musiche diverse, un po’ per lo spirito corrosivo della post-modernità che guarda con sospetto all’epica delle grandi narrazioni, un po’ per la possibilità di accedere in modo sistematico alla mole di documenti sedimentati nel corso del tempo che ridimensionano la solidità storica di certa vulgata, un po’ anche perché la distanza dai fatti consente di guardarli con occhio disincantato.

Le voci del dissenso circa il patriottico ardore dell’entrata in guerra, costrette fino a qualche anno fa nei circoli degli antimilitaristi con l’accusa di disfattismo, oggi hanno ricevuto legittimità acquistando un più ampio diritto di cittadinanza. Da qualche tempo non è più così raro sentir dire che se l’Italia arrivò alla guerra non fu per prendersi Trento o Trieste, ma perché nel primo decennio del secolo era cresciuta una decisa volontà di guerra e si era espansa in modo incontrollabile. Non è più scandaloso sentir parlare di una vera e propria cultura della guerra che finì per alimentare un gran fervore di spinte a vantaggio dell’intervento nelle elite capaci di orientare l’opinioni pubblica, come testimoniano centinaia di scritti condivisi non soltanto dai lettori minori o dalle  personalità più eccentriche della cultura del primo ‘900, ma anche da coloro che hanno fatto la storia italiana del primo quarto di secolo.

Non fu un secondo Risorgimento
A essere contestate sono in particolare le radici risorgimentali della Grande Guerra, quelle che la vorrebbero collegata al desiderio di pienezza di un’identità nazionale incompiuta. Il concetto di nazione e di nazionalità che viene sbandierato come motore dell’ingresso in guerra dell’Italia nel 1915 non può essere ricondotto al Risorgimento, movimento che vedeva nella “nazione” un’idea a servizio della libertà e uno strumento per inverare la libertà dei popoli. Non fu certo inseguendo questo ideale che l’Italia entrò in trincea: quel che prevalse fu la nazione come strumento per selezionare i popoli più forti, in un’ottica che esprimeva volontà di potenza e che doveva permettere di stabilire ranghi e graduatorie nella gerarchia delle potenze del mondo, un ideale costruito non in vista della libertà dei popoli, ma come strumento di aggressione e come criterio di selezione gerarchica.
Un’idea ben chiara di questa trasformazione è offerta dalle pagine delle riviste che costruivano e alimentavano il clima culturale dei primi anni del Novecento, quando ancora non c’erano televisione e radio a fare opinione. Erano gli anni dei quotidiani  e delle “Riviste” firmate da intellettuali di grido, tirate già in alcune migliaia di copie a numero, e si chiamavano La Voce e L’Acerba, Il Regno e Il Leonardo. Fu sulle loro pagine che si accese il dibattito sull’opportunità dell’intervento, e fu nei loro corsivi d’assalto che venne tirata in ballo l’idea di nazione come bene da difendere con orgoglio, indicando nella guerra la strada giusta “per combattere i soprusi altrui e per tutelare il diritto nostro”.
Ci furono anni di fervente lavoro nelle retrovie, insomma, per portare legna al fuoco di un conflitto che fu enormemente più che la risposta piccata all’attentato localista che causò la morte dell’arciduca d’Austria per mano dell’attivista serbo Gavrilo Princip.

La “Grande” Guerra
La Prima Guerra Mondiale ha dimensioni e caratteristiche tali da non avere paragoni con nessuno dei conflitti che l’hanno preceduta. È innanzitutto una guerra dal valore costituente e periodizzante, capace di inaugurare una nuova epoca, il “secolo breve” di cui parla Hobsbawm, e di generare un assetto geo-politico radicalmente nuovo. Se è stata capace di far cadere il II Reich guglielmino, all’apparenza solido e prospero, di far intervenire gli USA, ponendo le condizioni per farli diventare i nuovi padroni del mondo, di demolire potenze imperiali secolari, non può essere imputata a un fatto circoscritto e puntuale, per quanto importante, come l’assassinio dell’Arciduca d’Austria. Nasce dai rancori covati per anni nel cuore delle vecchie potenze europee, come ben evidenzia Freud là dove parla di una guerra “voluta” descrivendo l’”entusiasmo verso la morte” che attraversa l’Europa nei primi anni del Novecento, per contagiare poi altre potenze anche lontanissime, dal Brasile all’Australia, che addirittura farà proprio di questa guerra l’evento fondativo della propria autonoma identità.
Ma è anche una guerra ideologica, in cui si scontrano blocchi culturali separati da profonde fratture. In primo luogo è sfida della kultur tedesca alla civilisation anglo-francese, laica, liberale, democratica, tecnologica, come recita un documento degli accademici tedeschi a sostegno dell’entrata in guerra della Germania: “Non è guerra per l’Alsazia o la Lorena, ma all’Illuminismo e alla sua eredità…”.
Ma è anche scontro aperto tra il pacifismo e il militarismo interventista di cui è espressione di punta il Futurismo, che dipinge la trincea come alcova, le pallottole come petali, la mitraglia come dama. Nello scontro con l’interventismo militante il pacifismo arriva in ritardo, colto alla sprovvista dall’esplosione di un conflitto che, per quanto voluto, stordisce per la sua violenza sproporzionata. Seppur covato da tempo, esplode come imprevisto dopo un lungo periodo di pace, o meglio, di non-guerra. Gli ultimi conflitti che avevano toccato il mondo occidentale nell’800 erano stati in Crimea, in America tra Nordisti e Sudisti, o a Sedan: in questo scenario i pacifisti italiani, forti e determinati contro il Colonialismo, si trovano impreparati. E tuttavia il loro pensiero matura rapidamente e si consolida come dottrina consapevole e autonoma, affinando le proprie ragioni col progredire della guerra cogliendone tutta la modernità e le differenze rispetto ai conflitti del passato.

Una guerra “moderna”…
Bastarono pochi mesi per capire che ci si trovava di fronte a un evento senza precedenti, innanzitutto perché si trattava di una guerra di massa. Il nuovo secolo si era avviato verso la società di massa in mille ambiti, dallo sport al cinema, dai partiti alla scuola, dalle manifestazioni ai divertimenti. Ora l’Europa si trovava costretta a fare i conti con la tragedia di massa e la morte di massa: dalla battaglia della Marna a quella di Verdun i bollettini di guerra andarono assumendo dimensioni inusitate, nonostante la Guerra di Secessione americana del 1861 e il conflitto Russo-Giapponese del 1904 avessero lasciato intravedere il potenziale distruttivo delle nuove armi, in particolare delle mitragliatrici. Alla fine della guerra i numeri furono impressionanti: la Francia contò 1.300.000 morti, la Gran Bretagna 1.000.000, la Russia quasi due milioni, come la Germania; l’Austria 1.100.000, l’Italia 670.000.
Quella che si era combattuta era una guerra tecnologica, in cui il Positivismo aveva perso la propria verginità: era caduta la maschera buona e ottimista della scienza, quella che avrebbe dovuto condurre l’umanità al progresso, migliorando le condizioni di vita, e si era scoperto in modo esplicito che di tecnologia e di scienza si poteva morire, e perdipiù ferocemente! Spesso si guarda a Hiroshima come luogo dove la tecnica ha svelato il proprio volto crudele, dimenticando che prima di Hiroshima c’è stato Ypres, il laboratorio a cielo aperto per la messa a punto delle bombe a gas, e che la tecnologia ha dato il proprio massiccio contributo al corso della I Guerra mondiale, con la costruzione di aerei, mitragliatrici, carri armati, obici, sottomarini…
Un simile impegno di risorse aveva chiesto alla guerra di essere una guerra totale, in cui tutto – stampa, economia, strutture – doveva essere mobilitato per la guerra. L’intera produzione industriale europea era stata orientata, direttamente o indirettamente, a sostenere lo sforzo bellico, e ne aveva ricevuto un incremento, a partire dai casi più eclatanti di Ansaldo, Ilva o Fiat, fino ad arrivare alle piccole aziende di provincia  come la Way Assauto, fabbrica astigiana che vide decuplicare i propri operai da 400 a 4.000 nel corso dei 3 anni di guerra.

…che viene da lontano.
Per comprendere le ragioni di un conflitto di tali proporzioni è necessario andare al di là delle scintille “prossime” e delle cause immediate che tutti conoscono, dalle tensioni nell’Impero austro-ungarico all’assassinio dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo, guardando ad altri fattori “remoti” di portata continentale.
C’è innanzitutto da riandare alla crisi economica del 1873-1895, considerata la prima crisi del Capitalismo per sovrapproduzione, figlia di un periodo di stagnazione con profonde ripercussioni in termini di tensioni sociali. Il rimedio escogitato fu la creazione dei grandi trusts, ovvero di legami e intrecci sempre più stretti tra banche e imprese che portarono l’espansione del capitale a superare i confini nazionali in cerca di nuovi mercati. La nuova frontiera diventò quella dell’imperialismo, consacrato nel 1884 dalla Conferenza di Berlino, che aveva bisogno dell’esercito e dello Stato per affermarsi e consolidarsi.
Poi c’è da considerare il nazionalismo, figlio esasperato del patriottismo ottocentesco, nelle sue diverse forme: il Pangermanesimo che affondava le radici nella storia del pensiero tedesco, da Fichte a Hegel, solo per citare i classici; il revanscismo francese, il nazionalismo russo-serbo-slavo-ungherese, ceco…, il Sionismo, il Nazionalismo italiano nella sua versione militare e in quella irredentista. In tutte queste variegate forme e variazioni, il nazionalismo fu benzina sul fuoco dell’Imperialismo.
Per quanto paradossale possa sembrare, un’altra fonte di tensione internazionale che condusse l’Europa in guerra fu rappresentata dalle alleanze. Già Kant, ne La pace perpetua, aveva intuito che le alleanze sono nemiche della pace, in quanto mutevoli, fragili e figlie di opportunismi. Triplice alleanza e Triplice intesa ne sono state la dimostrazione più lampante: dietro le maschere delle finalità difensive si nascondevano mire bellicose pronte ad esplodere al momento opportuno.
Circolava poi da tempo il timore di un movimento operaio capace di organizzarsi orizzontalmente per opporsi in modo compatto allo strapotere del Capitale, e proprio per scongiurare questa minaccia il capitalismo operò per far diventare orizzontale un conflitto verticale come quello di classe.
Infine non può essere dimenticata la corsa agli armamenti che vide coinvolte un po’ tutte le nazioni europee fin dall’alba del Novecento, in particolare Inghilterra e Germania, prigioniere del circolo vizioso che ancora oggi attanaglia l’economia: la crisi economica vede nelle spese militari una valvola di sfogo, ma le armi prodotte poi vanno usate, confermando il detto secondo cui “non si fanno armi per la guerra, ma si fanno guerre per le armi”.

L’altro sguardo sulla guerra
Ma non ci fu soltanto chi soffiò sulla brace per attizzare le fiamme del conflitto. Già nel 1919, ad armi ancora calde, esce il film J’accuse del regista francese Abel Gance, prima di una serie di pellicole di chiara impronta antimilitarista. È particolarmente espressiva la scena in cui un uomo cammina seminudo tra due trincee, e tutti i soldati che lo vedono passare, da entrambi i fronti, restano incerti sul da farsi: non sanno se fare fuoco su quell’intruso, perché non vedendone l’uniforme non sanno se sia un camerata o un nemico. Solo se è in divisa l’uomo uccide e viene ucciso senza remore, e forse proprio per questo i monumenti di guerra raffigurano uomini in uniforme, per mettere al riparo delle mostrine l’umanità di chi ha perso la vita al fronte.

copertina
È in fondo lo stesso messaggio lanciato da Emilio Lussu nel romanzo Un anno sull’altipiano, nel celebre episodio ripreso anche da molte antologie scolastiche in cui racconta di avere sotto tiro un ufficiale austriaco e di rinunciare a sparare perché lo vede prendere un caffè e accendersi una sigaretta. Gesti quotidiani che frenano il soldato e lo dissuadono dal premere il grilletto: “La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari”, commenta Lussu. “La guerra era per me una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo”; e tuttavia “fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo”.
Ci fu però anche chi fece un passo oltre, pensando che bisognasse scegliere tra la coscienza di uomo e quella di cittadino, che non fosse giusto obbedire ad ogni costo e che far la guerra e uccidere fossero sinonimi. Mi piace ricordare in particolare tre donne che ebbero il coraggio di palesare questi loro pensieri, pagando a caro prezzo la loro scelta: Rosa Genoni, Fanny Dal Ry e Rosa Luxemburg.

Rosa Genoni, una passerella lunga fino all’Aja
La prima, nota più come stilista di avanguardia che come militante pacifista, nel ’14 partecipò a Milano a una conferenza su donne e guerra, prendendo chiaramente posizione circa il conflitto che aveva da poco incendiato l’Europa: “Alle donne spetta il compito di battersi per la pace e la neutralità”, disse dal palco, e immediatamente iniziò a raccogliere firme per dissuadere il governo italiano dall’entrata in guerra, convincendolo a cercare soluzioni pacifiche per i conflitti internazionali. Erano i giorni in cui a Milano iniziavano ad arrivare i primi militari profughi da Belgio e Francia in cerca di aiuto, e la Genoni allestì nei padiglioni Bonomelli con la fondazione “Pro Humanitate” spazi per offrir loro un primo soccorso.
Nella speranza di scongiurare l’ingresso dell’Italia in guerra, partì nell’aprile dell’anno seguente alla volta dell’Olanda per partecipare come unica rappresentante italiana al Congresso internazionale femminile dell’Aja, in cui si discuteva del ruolo delle donne nella costruzione di una cultura della pace. Ma di lì a un mese la sua speranza andò delusa, e al suo rientro in Italia fu segnalata alla polizia come disfattista.

Fanny rossa
La propaganda instancabile di Fanny Dal Ry
Anche Fanny Dal Ry, esponente del socialismo antimilitarista italiano dei primi decenni del Novecento, fu perseguitata duramente per la sua coraggiosa opera di propaganda, e i suoi scritti precedenti la Grande guerra hanno un sapore di profezia se letti alla luce della tragica conferma degli anni seguenti.
Nata a Verona nel 1877 da famiglia di origine trentina, Fanny aveva trascorso l’infanzia con i suoi in Eritrea ed era arrivata a Genova a vent’anni per fare la maestra. Iscritta al partito socialista rivoluzionario, cominciò ben presto a frequentare il gruppo che aveva fondato il giornale antimilitarista La pace, su cui pubblicò il suo primo articolo nel 1905. Due erano in quel momento le posizioni dei socialisti europei nei confronti del militarismo: la maggioranza riformista riteneva che questo sarebbe stato superato con la fine del capitalismo, mentre la corrente rivoluzionaria condivideva con gli anarchici l’idea secondo cui l’esercito è lo strumento attraverso il quale il capitalismo mantiene il proprio dominio, educando al patriottismo e all’obbedienza. La rivista La pace e Fanny Dal Ry seguivano questa seconda posizione, sostenendo la necessità di una propaganda tra i soldati e l’impegno a opporsi alla guerra con uno sciopero generale.

È del 1908 il primo congresso antimilitarista italiano, organizzato a Siena da La pace. Vi parteciparono sindacalisti, socialisti rivoluzionari e anarchici che si fecero immortalare in una storica foto di gruppo: attorniata da una ventina di uomini compare come unica donna Fanny, seduta in prima fila. Pagò cara la partecipazione al congresso, condannata a cinque anni di carcere e duemila lire di multa per il suo intervento, raccolto di lì a poco in un articolo. Non era la prima punizione che subiva: due anni prima aveva ricevuto una pena di un mese, sempre per un articolo in cui aveva scritto: “Intensificare la propaganda antimilitarista è attualmente un’imperiosa necessità. Chi asserisce il contrario, chi tenta ostacolare l’antimilitarismo in qualsiasi modo, cova nell’animo, cosciente o no, istinti criminali”.
Allo scoppio della guerra, La pace ribadì le proprie posizioni, e Fanny rilanciò il tradizionale appello dell’Internazionale: “Vinti di tutto il mondo, alla riscossa! Al mostruoso grido: Lavoratori di tutto il mondo, sgozzatevi! l’Internazionale operaia contrapponga con fierezza nuova: Lavoratori di tutto il mondo uniamoci!”. Dalle colonne del giornale continuò a battersi contro l’ingresso in guerra rimanendo punto di riferimento per il pensiero pacifista, costretta al silenzio solo nel maggio 1915, quando con un colpo di mano il governo italiano decise per l’intervento.
Qualche riga dall’articolo Gloria scritto per l’opuscolo Abbasso la guerra lascia intuire il tono appassionato dello stile di Fanny: “Chi può compiutamente rievocare col pensiero l’orrore supremo delle infinite battaglie, che non un lembo di terra hanno lasciato terso di sangue? Chi può dire il numero di vite umane, violentemente spazzate dal mondo nelle imprese folli, che la gloria sublima?
Un morboso ragionar da mentecatto chiamò grandezza patria l’imposizione di un dominio violento esteso a città rase al suolo, ridotte a cimitero; una fatale aberrazione di pensiero giudicò valore l’obbrobrio umani di colossali raccapriccianti macelli d’eserciti; una deplorevole psicosi collettiva decretò ammirazione illimitata ed innalzò obelischi a chi, avido d’imperio, passò nel mondo con la violenza distruttrice della folgore; a chi, assetato di potenza, inesorabile precipitò sulle nazioni con la terrificante impetuosità della valanga, che tutto travolge. […]
Colonne infami appariranno al pensiero e al sentimento progredito delle generazioni venture, le superbe colonne innalzate con somma impudenza a memoria glorificata degli atroci maciullamenti di carne umana, compiuti per il conteso possesso d’un pezzo di terra, per sete di supremazia e di potere. Esse le abbatteranno, forse, per dimenticare la vergogna dei barbari antenati, come il figlio dell’assassino, pur incolpevole, tenta d’indurre l’oblio sulle proprie origini: oppure, documento storico d’un’era ormai sorpassata e abusivamente detta civile, le conserveranno nei musei della scienza per misurare con senso d’orgoglio il cammino compiuto.
Come presentemente si giudica delinquente la spavalderia del camorrista napoletano, che si batte a colpi di coltello unicamente per provare il proprio coraggio e la propria bravura, così una mentalità collettiva più evoluta vedrà nella sua vera luce delittuosa i vicendevoli sterminii fra popoli e rileverà con infinito stupore come gli uomini si vantassero di combattere da leoni, frase con la quale non potevano meglio significare la bestialità delle loro zuffe selvagge.
Non più, non più sarà chiamato eroe l’uccisore dei suoi simili; non più sarà esaltato il valore, il coraggio guerriero, coraggio da fiere.
E se lauri verran tributati e ghirlande ancor saranno intessute, non di grandi assassini, circonfusi d’una bugiarda aureola di gloria, orneranno la fronte, ma di pensatori, di scienziati, si martiri dell’idea, coraggiosi autentici, che – si chiamino Giordano Bruno od Emilio Zola – serenamente affrontano l’ira d’una ignoranza cieca, la prepotenza d’un pregiudizio volgare, l’universalità cocciuta d’una opinione contraria e si lasciano bruciare sul rogo o malmenare da una folla bestiale senza ritrattare una menoma affermazione, sorridenti all’interiore bellezza di una idea luminosa di verità e di giustizia.
Coraggio civile assai più fecondo di bene, che la più lontana posterità non cesserà d’ammirare!
Spogliata dal suo manto ingannatore, la gloria bellica apparirà in tutto il suo orribile aspetto di falciatrice crudele, d’ossuta megera ingorda di giovani vite; e, perduto ormai ogni fascino, più non le sarà possibile trarre le masse laboriose nell’orrendo baratro in cui precipitarono i miliardi d’illusi, che ne seguiron le orme.
E allora davvero l’umanità potrà chiamarsi civile”.

Rosa Luxemburg: “O il socialismo, o la barbarie”.
Forse meno enfatico, ma non per questo meno efficace, è il tono degli scritti di Rosa Luxemburg, impegnata senza sosta nella lotta per la pace, contro la guerra imperialista e il colonialismo. Nel sua opera del 1900, intitolata Riforma o Rivoluzione, Rosa afferma che la guerra svolge un ruolo decisivo per lo sviluppo del capitalismo, dal momento che il militarismo è sempre stata l’arma di cui si è servita la borghesia per difendere i propri interessi contro i concorrenti di altri paesi.
Nel 1913, Rosa pubblica una delle sue opere più importanti, L’accumulazione del capitale, in cui sostiene che l’imperialismo è sorto per risolvere il problema dell’eccesso di capitale dei paesi capitalistici sviluppati, considerando determinante per il capitale appropriarsi di spazi naturali e sociali precapitalistici attraverso la colonizzazione. Letta a posteriori in questa prospettiva, la Prima guerra mondiale era dunque il risultato di una guerra inter-imperialista, che poteva condurre a due esiti diversi: o la fine del capitalismo o la regressione della civiltà umana. Di qui la sua famosa frase: “O il socialismo, o la barbarie”.
Fedele alle sue posizioni a favore della pace, Rosa le mantenne anche allo scoppio della guerra finendo in carcere nel 1914 con l’accusa di incitamento alla disobbedienza civile per aver invitato i soldati ad abbandonare la guerra e a ritornare nei loro paesi per iniziare la rivoluzione socialista.

Dietro la retorica nazionalista della guerra, Rosa individuava negli interessi della borghesia nazionale le reali motivazioni del conflitto, denunciando che le guerre, oltre a causare la distruzione di paesi e popoli indeboliscono l’organizzazione dei lavoratori e accendono l’odio tra di loro.
Rosa Luxemburg fu rilasciata dal carcere solo nel 1918, e si pose alla guida del movimento rivoluzionario insieme a Karl Liebknecht. La loro istanza antimilitarista da quel momento venne repressa brutalmente, senza più limiti: entrambi furono assassinati l’anno successivo.

L’articolo di Gigi Garelli è comparso anche su “Il granello di senape” n. 2 – 2015

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