La sesta figlia: Assita del Burkina Faso

1622152_267280910103863_944837058_nPATRIZIA GHIGLIONE (a cura)

Vengo dal Burkina Faso; la mia vita là è stata una vita ricchissima, perché ho avuto molta fortuna. Mi chiamo Assita, Sita, che vuol dire sesta, la sesta figlia. Io ero in mezzo a cinque uomini, voglio dire fratelli, la sesta bambina, che era una donna. Quando ero piccola, andavo a scuola; la scuola da noi costa molto cara, anche quella pubblica, così facevamo delle vendite di frutta per poterla pagare per tutti. Arrivare al liceo è stato ancora più difficile perché i soldi che guadagnavamo con la frutta non bastavano più; costava 100 euro. E quindi andavo a fare le pulizie da questo e da quello e c’erano anche i fratelli più grandi che mi aiutavano a pagarla. Sono sempre stata una donna che ha avuto il coraggio di alzare il braccio, il mio braccio era sempre alzato. Quando ce l’hai, la vita, non hai bisogno di dire che non puoi. Devi dire posso sempre, anche se vedi che è difficile. Ognuno non deve perdere la dignità né l’opportunità che ha avuto. Quindi ho pensato questa cosa e una volta sono entrata in un ufficio, che era la sede di un ente di cooperazione internazionale. Lì ho visto un apparecchio posato su un mobile e ho detto a un signore, un italiano, che c’era lì: «signore come devo fare, mi piacerebbe sapere come funziona questa macchina» e mi ha messa davanti al computer e dopo due mesi sapevo fare Excel e Word.
E ho imparato un mestiere. Si facevano progetti di sensibilizzazione e di informazione sull’AIDS, facevamo teatro con gli studenti, facevamo formazione. Capitava che sul lavoro ogni responsabile di settore mi chiedeva aiuto: era una bella soddisfazione perché, in un mondo di uomini, era riconosciuta la mia capacità. È difficile per un uomo riconoscere la tua superiorità, quando sei donna. Ma bisogna sapere che se tu sei superiore, non è mica colpa tua. Questa esperienza di lavoro mi ha dato molto, ho imparato a contare sulle mie forze, ad essere più sicura di me.

Dell’Italia, allora, non sapevo nulla, immaginavo. Vedevo le telenovelas spagnole e credevo che fossero italiane: parlavano d’amore e di quelle cose lì. Anche il caffè, io credevo che fosse italiano. Dicevo sempre che il mio sogno era quello di venire in Italia a lavorare in una grande piantagione di caffè. Non avevo mai visto il caffè, non sapevo nemmeno come fosse fatto. Poi ho incontrato mio marito. Così l’Italia è venuta nel mio Paese e così mi ha presa dal mio Paese. Allora ero follemente innamorata di un ragazzo del Burkina Faso che sempre loro non sanno fermarsi a una donna soltanto, vanno da una e dall’altra. Quindi eravamo due, tre fidanzate, sempre. Tutti questi cretini della mia vita, erano tutti infedeli. Ci siamo conosciuti meglio, con mio marito, e abbiamo anche cominciato a parlare. Lui sì, è stato un vero gentleman, non mi ha mai forzata. E io non l’ho mai forzato, il nostro è stato un amore puro. Ci siamo conosciuti un anno e poi, il secondo anno, ci siamo sposati. Avevo un po’ paura perché mia madre non voleva che le portassi uno straniero, così le ho detto: «tu mi scuserai moltissimo, ma questo è l’uomo della mia vita»; «se sei sicura, fai la cosa che vuoi fare» mi ha risposto.
Così ci siamo sposati e mio marito ha accettato tutte le condizioni, per esempio la cerimonia religiosa. Noi non siamo mai stati molto religiosi, mia madre è stata sempre cristiana e mio padre mussulmano: ma andava nei bar a bere e comprava il maiale; poi ci chiamava a mangiarlo in camera, perché non voleva farsi vedere dai vicini. Lui ci ha sempre detto: «scegliete cosa volete, pregate buddista, cristiano, musulmano, come volete; voglio solo che crediate in qualcosa». Mi ha anche insegnato altre cose, mio padre; mi diceva: «nella vita tu devi alzare la testa e andare avanti», questo lo diceva particolarmente a me, che ero donna. Intanto, però, noi siamo cresciuti con tre mogli, tre mogli di mio padre, più una fidanzata. C’era molta tensione tra le mogli, gelosie che a volte coinvolgevano i figli. Quando ero piccola io ero diventata anoressica perché non volevo vedere tutta quella cosa. Non mangiavo niente, soffrivo per la situazione e protestavo. Bevevo solo acqua e basta. Poi ho deciso di continuare a vivere e ce l’ho fatta. L’ho deciso anche per ringraziare tutti, che si erano dati un gran da fare per aiutarmi. Vengo da una terra che si dice povera, ma la povertà io la vedo sempre in due sensi: essere poveri ma felici, essere ricchi senza nessuna felicità. Una povertà piena di gentilezza è meglio di una ricchezza misera. Se c’è il sorriso negli sguardi, vuol dire che la vita ti viene incontro, che hai la vita a tuo favore. Tu puoi dire che non è ricchezza? Io dico che è ricchezza.
Quando mi sono sposata, sono venuti i parenti e gli amici di mio marito dall’Italia e abbiamo fatto festa e abbiamo bevuto champagne ed è stata la giornata più bella della mia vita. Anche perché c’era ancora mia madre. Mia madre, da quando era morto mio padre, faticava a procurarsi il cibo per noi. Lei andava al mulino e raccoglieva le bucce del mais, le setacciava per far uscire un po’ di quello che era rimasto e, alla sera, faceva delle minestre di mais, aggiungeva zucchero e ci dava da mangiare. Io oggi darei un miliardo di euro per riavere mia madre e mangiare tutti i giorni quella minestra insieme.

E sono stata incinta; e al terzo mese ho saputo che mia madre aveva il cancro all’utero. Da tanto tempo era malata, ma il dottore le aveva detto che magari, avendo avuto sette figli, le ovaie ne avevano sofferto, si erano ferite. Perdeva molto sangue. Al mio paese se non hai soldi non ti seguono, dal punto di vista sanitario: le attrezzature mediche e i farmaci sono tutti importati, costano delle fortune. Dopo tanti anni di questa malattia, dunque, finalmente siamo andati da un dottore come si deve perché ho pagato molti soldi. Il dottore l’ha vista e mi ha detto: «tua madre non ha più molto da vivere, non si può più fare niente, è troppo tardi». Bisognava darle la morfina ma anche la morfina non si trovava facilmente; prendeva delle medicine che contenevano, tra l’altro, un po’ di morfina. E così andavo da mia madre con la mia panciona, e lei vedeva in me una vita che nasceva e io vedevo in lei una vita che se ne andava. Lei mi diceva: «voglio vedere la tua bambina, sei sicura che vivrò abbastanza?». Così mi chiedeva di portarla da quelli che curavano con le erbe, diceva: «può darsi che una tisana farà il miracolo». Io sapevo che non funzionava così ma per darle questa speranza la portavo. Lei non voleva che io vedessi che soffriva: quando andavo a trovarla, si faceva vedere tutta a posto, ben vestita, e si muoveva come se niente fosse. Poi mi diceva: «adesso vai da tuo marito, io sto già meglio». È stata una prova di amore, il regalo più bello che mi ha fatto.
Quando è mancata, mio marito mi ha portata in Italia; ha saputo prendere la decisione giusta.

In Italia la Sanità e la Scuola sono le fortune che al mio Paese non abbiamo. Le scuole pubbliche da noi hanno aule per centocinquanta bambini, che pagano 50 euro per frequentare: i padri ricevono 100 euro in busta paga e devono pagare a rate la scuola per i figli. Ci sono delle lunghe panche su cui si siedono i bambini, nessun banco, nessuna sedia. Non esistono i luoghi dove giocare né i campi per le partite di calcio. Le bambine si divertono con le lattine di pomodoro vuote e con la sabbia; quando possono permetterselo. Perché a sette anni devono lavare i piatti, pulire la casa; andare a cercare l’acqua. A 8-9 anni devono badare ai fratellini più piccoli. Non hanno domenica, non hanno sabato.
Io oggi ho due figlie, le mie bambine hanno tutto. Qui 10 bambole, 20 bambole; tu vai lì e non trovi neanche uno che abbia una bambola. Ma quando porto le mie figlie in Burkina Faso, appena arrivano sono attorniate dagli amici, dai cugini e, improvvisamente, non hanno più bisogno di nulla, né televisione, né altro. L’umanità paga: ci sono musiche, per i quartieri, i bambini ballano, hanno sempre tanto da fare.
L’Italia, purtroppo, non è solo scuola o sanità. Un incontro negativo con un’ignorante, per esempio, l’ho avuto proprio qua.
Tu sei bianca e io sono nera, non vedo la differenza. In Burkina Faso diciamo un uomo di colore e pensiamo a un bianco; al mondo siamo tutti colorati, le cose vanno così. Quindi non possiamo dire: «quella lì è africana e non capisce niente nella vita, non ha studiato, non è intelligente perché è “di colore”». No, gioie mie, esistono gli africani intelligenti come esistono bianchi intelligenti. È lo stesso.
Insomma, è andata così: in quel momento mia figlia era piccola e giravo nel mercato con il passeggino. Questa donna si avvicina e mi dice: «voi venite dall’Africa con i vostri passeggini e, per rompere le balle, salite sui piedi alla gente». Io ho risposto: «signora, se sono salita sul suo piede le chiedo scusa, ma questo è un posto per tutti»; «Dovete andare al vostro Paese».
Comunque, un Paese è per tutti, dove vai è casa tua. Altrimenti prendiamo un muro, chiudiamo tutto, nessuno entra, nessuno esce. Non c’è aereo, non c’è macchina. Facciamo così.
Nella vita tutto deve piacere a tutti, perché esiste. Altrimenti conviene scavarsi un buco e stare sottoterra.
Bisogna accettare la faccenda dell’esistenza degli altri, anche solo per il fatto di onorare quest’opportunità che abbiamo di vedere. I ciechi vorrebbero vedere e non possono. Noi che siamo fortunati, dobbiamo proprio dire : «quello lì non mi piace, non voglio vedere la sua brutta faccia?». Brutto è una parola pericolosa, oltretutto. Perché una faccia è sempre una faccia. E di certo bella, in un modo o nell’altro, sarà.
Ora ne incontro tante, di facce, in questo mestiere che mi sono inventata. Mi occupo di esportazioni, mando nel mio Paese automobili e oggetti usati, cose utili, che qui si trovano in abbondanza e che là mancano del tutto. Mi sono data da fare e ce l’ho fatta; proprio perché, come dicevo, nella vita non c’è bisogno di dire che non si può, anche quando tutto sembra particolarmente difficile.

(Beauwindow https://www.margutte.com/?p=4999)

Assita durante l'iniziativa 'Beauwindow - vita in vetrina' a Ceva (CN, Italia)

Assita durante l’iniziativa ‘Beauwindow – vita in vetrina’ a Ceva (CN, Italia)