Woman’s Worst Enemy: Woman di Beatrice Hastings

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Da “Woman’s Worst Enemy: Woman” di Beatrice Hastings, a cura di Maristella Diotaiuti (Astarte Edizioni 2022)

Dall’introduzione di Maristella Diotaiuti

Woman’s Worst Enemy: Woman [Il peggior nemico della donna: la donna] può essere considerato a buon diritto il manifesto femminista di Beatrice Hastings. Appare sotto forma di allegato, nel mese di luglio del 1909, come pubblicazione autonoma ma interna al giornale inglese d’avanguardia The New Age, nel quale Hastings ha impegnato gran parte della sua energia di scrittura. È la sua prima opera indipendente, dal momento che tutte le altre sue opere di narrativa e non, furono serializzate sulla rivista. [...] Il titolo, volutamente provocatorio, nasce dalla sua opposizione ai miti della maternità che le stesse donne promuovono e impongono alle altre donne. Hastings intende sottoporre a critica e riformare gli atteggiamenti morali verso la maternità, verso il parto e tutto il processo procreativo, investendo anche la sessualità e il secolare controllo esercitato sul corpo femminile dovuto alla sua capacità procreativa. Un corpo, né nominato e né previsto dagli atti legislativi, considerato come semplice contenitore riproduttivo, ma indispensabile, fondamentale per la costruzione della struttura patriarcale e capitalistica. [...] Mettere in discussione la maternità significa mettere in discussione tutto il fondamento ideologico e culturale alla base, non solo dell’ordine sociale ed economico, ma della stessa identità di donna, la sua ragion d’essere, la sua funzione nel mondo stabilita sulla ferrea equazione biologica e culturale donna=madre. Hastings è, in altre parole, impegnata in una vera e propria decostruzione del simbolico materno e del femminile, nello smantellamento della mistica della femminilità e della maternità, nella liberazione dai ruoli classici previsti per le donne, in maniera così totalizzante e sistematica da far sembrare qualsiasi affermazione contraria oziosa e peregrina, da non lasciare vuoti di riflessione o interstizi che consentissero ulteriori passaggi del maschile.

Da “Woman’s Worst Enemy: Woman” di Beatrice Hastings, traduzioni di Carolina Paolicchi (Woman’s Worst Enemy: Woman) e di Elena Alibrandi (Risposte ai corrispondenti)

Tra tutte le occupazioni della vita umana tra cui poter scegliere, non avrei mai dovuto optare per la maternità. Mai, in nessun momento della mia esistenza, ho desiderato essere madre. Da ragazzina, l’idea del processo mi turbava e disgustava, e qualsiasi accenno al parto mi dava la nausea. Indugiavo nella mia mente tra dilettevoli fantasie, finché il violento trauma della conoscenza non mi mostrò un abisso spalancato di dolore: e quell’abisso, mi dissero, era il destino di tutte le donne. Decisi allora, per spirito di libertà, che non sarebbe stato il mio. [...]  Un artista tedesco che ha rovinato la sua poesia con falsità filosofiche, ha scritto: “L’uomo vuole vivere! La donna vuole solo essere il mezzo della vita dell’uomo”. La storia della civiltà dimostra la falsità di tale maschilismo presuntuoso. La donna civilizzata non si accontenta di essere il mezzo della vita dell’uomo: vuole vivere lei stessa. Ciò che fa crollare la civiltà degli uomini è la loro stupida negazione del diritto delle donne a vivere la propria vita. Un tempo odiavo a tal punto il mio essere donna che avrei potuto rinnegarlo. Ma ho imparato a criticare e rifiutare il feticcio della superiorità dell’uomo, e ho riflettuto sul ruolo della donna come nemica e dell’uomo come vile strumento della natura, placandomi di fronte alla conclusione che lo scontro, in ultima analisi, è tra donna e natura. [...] Per la madre perfetta, l’intero processo della maternità sarebbe dall’inizio alla fine una delizia sensoriale e spirituale. Mi sembra di capire che esistano ancora donne così, a cui partorire dà meno fastidio che andare dal dentista. Le cui lievi fitte del travaglio, in confronto a quelle vissute dalla maggior parte delle donne, sembrano le increspature di un lago in confronto alle onde violente di un oceano in tempesta. Gli esseri umani migliori sono sempre quelli che nascono da questa classe di madri. Eppure a questi bambini non viene assegnato nessuna educazione speciale; non si investe un centesimo per assicurare che le qualità ereditarie naturalmente conferite da un parto quasi divino si accrescano. No! Tutti i fondi rimanenti vanno alla costruzione di ospedali per curare le infezioni uterine di donne la cui maternità è un crimine, o alle prigioni, i manicomi e gli stabilimenti idroterapici destinati alla loro sfortunata progenie. Al mio giovanile disgusto verso l’idea del parto aggiungo una conclusione: in vita mia non ho mai conosciuto un adulto di cui vorrei essere la madre. [...]

Dal saggio di Stefania Tarantino “L’ascesa della donna contro la tirannia della più potente passione al mondo”

Beatrice Hastings ha una concezione altissima della maternità. Proprio per questo i suoi interventi sono duri e radicali e perseguono un duplice obiettivo. Da un lato quello di non sacrificare e non ridurre la donna al suo “ruolo” materno e, dall’altro, quello di smettere di pensare alla maternità come una “funzione” sociale ma come a qualcosa di irriducibile alle logiche di mercato e a qualunque forma di negoziazione contrattuale come quella del matrimonio. Il suo è un pensiero di rottura che apre nuovi orizzonti e che va in direzione di un tipo di sapere che, muovendo da una riflessione radicata nel corpo, evidenzia la possibilità di un’etica altruistica e di un’ontologia relazionale basate sull’interdipendenza, la vulnerabilità e la reciprocità. Il suo pensiero, come quello di molte sue contemporanee, è una bussola attraverso cui è possibile immaginarsi un’altra realtà, un altro modo di stare al mondo. Il suo contributo intellettuale ha rappresentato una potente leva di trasformazione non solo per se stessa ma per tutte le donne.[...]

Dalla postfazione di Giada Bonu

Senza Beatrice Hastings non saremmo le stesse. Giornalista, poeta, autrice, donna senza precedenti. In gran parte dimenticata, torna alla luce quando il Caffè letterario Le Cicale Operose concentra le sue ricerche su Amedeo Modigliani, celebre pittore e suo compagno per alcuni anni. Non saremmo le stesse: è un pensiero ricorrente leggendo i suoi articoli femministi. Nata nel 1879, i primi decenni del Novecento sono gli anni di più fervida attività, fino alla morte avvenuta nel 1943. La scrittura è “praticata come un’arma contundente”, si scaglia contro i canoni della femminilità (tuttora più vivi che mai), attacca le fondamenta di un regime di genere costruito sulla segregazione e sulla dominazione. La sua affermazione di genere nella scrittura si riflette nella vita: una vita fatta di poche mediazioni e molte scelte affermative, in un contesto storico nel quale dichiarare la propria cifra di donna e intellettuale era di per sé un atto rivoluzionario. Beatrice Hastings scrive per il The New Age, giornale che aveva contribuito a fondare. Lo fa in maniera camaleontica, usando quasi sempre pseudonimi (se ne contano almeno tredici), a seconda del contenuto del suo scrivere (se in forma di poesia, narrativa, cronaca giornalistica, saggio politico). Irriducibile a un solo “abito”, sceglie di vivere molte vite, sia geografiche che affettive. Sudafrica, Sussex, Parigi, Londra. Cambia città e cambia reti, senza nascondere la sua bisessualità e il ruolo che il piacere e il godimento hanno nella vita di una donna. Rivendica lo spazio della sua autonomia, di pensiero ed economica, si scaglia con furia e ironia contro le schiere di uomini pronti a irretirla e delegittimarla (perché quando una donna parla non può che essere rimessa al suo posto). La strenua difesa del diritto a scegliere per la propria vita la accompagna fino al 1943, quando a seguito di una lunga malattia e di molte sofferenze decide di togliersi la vita con il gas della cucina. Viene presa per pazza, dissoluta, incompetente. Non ha timore a dire la parola più autentica, che è spesso la più scomoda. [...]

Dalla nota delle editrici

“Il peggior nemico della donna: la donna”: impossibile non rimanere colpiti dal titolo provocatorio di questo pamphlet di Beatrice Hastings. Per questo motivo, dopo averlo conosciuto grazie al lavoro del Caffè letterario Le Cicale Operose di Livorno che lo ha riportato alla luce, abbiamo deciso di pubblicarlo. Come fondatrici di Astarte Edizioni, una casa editrice attenta alla valorizzazione del pensiero e delle voci femminili, sentiamo nostro l’invito dell’autrice a creare una rete di donne che lavorino insieme per sollevarsi dalla posizione subalterna alla quale sono state relegate dalla società capitalistica e patriarcale.
La scelta di pubblicare oggi questo testo di Beatrice Hastings è quindi
frutto della convinzione del suo valore come spunto per leggere il contesto attuale. Il femminismo di Hastings presenta aspetti avanguardistici per la sua epoca e precocemente intersezionali: il suo discorso, rivolto prevalentemente alle donne inglesi, si apre per includere tutte le classi sociali e per rivendicare il diritto di tutte le donne ad occupare spazio, a farsi visibili. Se per certi versi la forma del suo discorso e l’immaginario a cui attinge sono inevitabilmente figli di un’epoca ormai passata, riteniamo che il suo messaggio sia ancora valido nelle sue componenti più sostanziali e profonde. A questo testo del 1909 si devono quindi perdonare alcuni limiti dovuti all’epoca, per apprezzarne invece la radicalità del messaggio, tanto più che,
come si legge chiaramente nelle risposte ai corrispondenti in appendice e come spiegato nell’Introduzione della curatrice del volume, Maristella Diotaiuti, Hastings stessa spiega la violenza di alcune sue affermazioni come estremizzazioni condotte allo scopo di destabilizzare la coscienza borghese dei lettori del giornale The New Age, e suscitare così un dibattito. Hastings più volte ripete nel testo che soltanto la donna che desidera avere figli genera una prole sana, sia mentalmente che fisicamente: questa prospettiva che oggi verrebbe descritta come abilista è chiaramente figlia del suo tempo.
Allo stesso modo, la femminilità di cui Hastings parla è da lei intesa in senso strettamente biologico, mentre oggi il dibattito femminista si è aperto a prospettive più ampie.
Molti sono invece gli aspetti di questo testo ancora estremamente attuali: come approfondito da Giada Bonu nella Postfazione, negli oltre cento anni che ci separano da Beatrice, il corpo della donna non ha smesso di essere un campo di battaglia e il diritto all’autodeterminazione riproduttiva è ancora lontano dall’essere pienamente conquistato. Ancora oggi il diritto alla salute sessuale e riproduttiva non è del tutto garantito: ricordiamo ad esempio che la concreta attuazione della legge 194/1978, che regola l’interruzione volontaria della gravidanza, è ostacolata da una percentuale sempre
maggiore di personale sanitario obiettore di coscienza. Fra le violenze subite dalle donne si passa spesso sotto silenzio la violenza ostetrica, un abuso riconosciuto dal punto di vista legislativo da meno di vent’anni e al quale, con un secolo di anticipo, Hastings fa riferimento quando parla della tendenza a medicalizzare il parto, dell’assenza di riconoscimento del trauma e della sofferenza della madre, della carenza di figure femminili che assistano la puerpera comprendendone le esigenze. Riteniamo che sia necessario recuperare gli scritti di autrici come Hastings dal momento che la visione patriarcale del corpo della donna, seppur scalfita, non è ancora stata superata: oggi come nel 1909, alcune donne sentono nei confronti della società l’obbligo di fare figli; oggi come nel 1909, in Italia l’accompagnamento delle donne nel percorso della maternità e della genitorialità è ancora estremamente carente, e il lavoro di cura ricade quasi esclusivamente su di loro. E mentre il ruolo delle donne si esaurisce nel lavoro di cura, quello dell’uomo si lega generalmente alla produttività economica, rafforzandone così la posizione di predominio all’interno della società e, quindi, della famiglia. Particolarmente attuale e condivisibile ci è sembrato quindi l’avanguardistico riferimento di Hastings, colto da Stefania Tarantino, al diritto della donna all’autonomia economica: ancora oggi le donne hanno difficoltà a parlare di soldi, hanno meno conti in banca degli uomini (soprattutto dopo il matrimonio), percepiscono salari più bassi, più difficilmente riescono a ottenere contratti a tempo indeterminato e ruoli apicali meglio retribuiti. Come reso ancora più evidente dalla pandemia che stiamo vivendo, hanno maggiori probabilità di perdere il lavoro e, in generale, dipendendo economicamente dagli uomini, hanno maggiori difficoltà ad allontanarsi da situazioni di disagio e di violenza. Woman’s Worst Enemy: Woman, per quanto inizialmente rivolto a una società ormai temporalmente lontana, ci parla già in modo chiaro di tematiche ancora cruciali. Il nostro è quindi un invito a leggerlo e a farlo attuale.

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(A cura di Silvia Rosa)