15. Un prima e un poi

Alessandro Manzoni

Alessandro Manzoni (da Wikimedia Commons)

DINA TORTOROLI

Alberto Chiari, uno studioso del Manzoni particolarmente attento e schietto, dichiara: «Il Manzoni non è stato sempre così chiuso come lo si proclama; c’è stato invece per lui, chiaro e inequivocabile, un “prima” e un “poi”. Egli è stato, infatti, apertissimo “prima” della conversione ed è stato controllatissimo (il che non è affatto la stessa cosa dell’esser ermetico) “poi”, dopo la conversione: “prima” è pieno di irruenza, e non parla che in prima persona, “poi”, è pieno di prudenza, e fa parlare il più possibile gli altri anche per se stesso» (Tutte le opere di Alessandro Manzoni, I, “Introduzione” a c. di A. Chiari, Mondadori, p. 10).
Finalmente mi imbatto in una considerazione che combacia con mie sensazioni. E i prodromi del cambiamento io li avverto già nel 1805, durante il primo soggiorno parigino di Manzoni.
Il Carme ne è la confessio:  la “prova regina”.
La notizia della morte di Carlo Imbonati era giunta a Milano ben prima che Alessandro partisse per Parigi e il fatto che lui avesse infine deciso di recarsi presso la madre, pur sapendo che non vi avrebbe trovato chi “bramava” guidarlo “passo passo” in un’attività letteraria fuori del comune come la propria – finalizzata alla correzione del vivere sociale –  dimostra che il giovane aveva la forza necessaria per superare il trauma, causato da quell’agghiacciante evento.
Comunque fosse, nella capitale europea della cultura avrebbe potuto fare utili esperienze, e l’amabile cordialità di Giulia lo avrebbe senza dubbio aiutato a colmare le lacune della sua educazione sentimentale.
Malauguratamente, però, ecco che lei si illude di poter fare le veci dell’Imbonati (“Dille ch’io so, ch’ella sol cerca il piede / Metter su l’orme mie”, vv. 228-229) .
Alessandro si sente, pertanto, catapultato all’indietro, nuovamente a un punto di partenza, e come nel 1802 – nel sonetto Alla Musa aveva pregato la Dea: «Deh! fa che, s’io cadrò sul calle Ascreo, / Dicasi almen: Su l’orma propria ei giace», nel 1805 invoca Carlo Imbonati, non più tra i vivi:
«Deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
Io possa, o far, che s’io cadrò su l’erta,
Dicasi almen: su l’orma propria ei giace» (vv. 203-206).
Carlo Imbonati, negli anni vissuti al Clementino, aveva senza dubbio raccolto un’ampia documentazione delle strategie di perfezionamento morale, messe in atto dai Padri Somaschi per “ben formare il cuore e istillare le morali virtù direttrici di una incorrotta vita” (Paltrinieri),  Alessandro può quindi agevolmente sintetizzare quegli  ammaestramenti sotto forma di decalogo:
«Sentir riprese e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: né proferir mai verbo,
Che plauda al vizio, o la virtù derida» (vv. 207-215).
Purtroppo, però – “conscio a se stesso” di non essere in grado di attenersi a un così alto sistema morale di vita –, accorato quanto l’Alighieri davanti alla città di Dite (Inf. Canto VIII, v. 97: «O caro duca mio […] non mi lasciar»), Alessandro “così parlava e lagrimava”:
«O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
Non mi sia spento; a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
L’ingegno, e serva la ragion del core» (vv. 216-220).
Per capire il profondo significato della decina di verbi all’Infinito con valore di Imperativo, è sufficiente che il lettore ripercorra le puntate 7, 8, 9, dedicate allo “stile quotidiano di vita” del Clementino, attuato dai Padri Somaschi per ammaestrare la volontà della nobile gioventù loro affidata; perciò evito commenti ripetitivi, e mi permetto soltanto di constatare che Manzoni doveva aver letto non superficialmente le carte dell’ex clementinista.
Infatti egli era in grado di evidenziare ciò che Imbonati doveva aver considerato una peculiare benemerenza dei Maestri Somaschi: l’eccezionale capacità di  attualizzare e rendere vitale quel sistema delle virtù, la cui esaltazione echeggia in tutta la letteratura latina, nel Settecento alla base del sistema educativo scolastico.
Effettivamente è facile individuare nei nove versi citati i concetti etici di auctoritas, dignitas, frugalitas, constantia, abstinentia, industria, probitas, humanitas, pietas, fides, che affondano le loro radici all’interno del patrimonio ideale e morale del mos maiorum.
Nei mesi trascorsi dal giorno del suo arrivo a Parigi, la lettura era stata probabilmente l’attività preferita di Manzoni, se non l’unica.
Lo deduciamo, per esempio, da una lettera  di Arese a Pagani, senza data, ma del maggio 1806 (importante anche in relazione a un rattristante dissidio di cui ci occuperemo): «Caro Pagani, / Ho ricevuto una lunga lettera di Giulia e Alessandro. Giulia mi scrive dal letto, e relativamente alla seccatura che le ho dato mi scrive così: “Alessandro vi scrive che l’affare dell’impiego ci pare imbrogliato; è vero; se volete determinarne uno, scrivetemi precisamente, perch’io vi prometto in grazia vostra di fare un fogn (espressione milanese che significa tener celato) ad Alessandro; prenderò un bel momento nel quale egli corre dalla sua maitresse (il libraio), e a costo di arrossire in un’anticamera andrò da chi volete; ve lo prometto».
Alessandro tentava dunque di erudirsi, ma era assurdo sperare che la full immersion nel “brodo di coltura” imbonatiano potesse bastare a produrre trasformazioni miracolose della personalità, e il Carme lo dimostra: dimentico degli insegnamenti di Vincenzo Monti, Manzoni non è in grado di emulare l’Imbonati.
Pare persino non possedere più un patrimonio tecnico: si avvale di reminiscenze, ma quasi meccanicamente, con  prelievi e travasi del lessico o di immagini altrui.
Non crea un’ambientazione, non ricorre a descrizioni, e i protagonisti, nominati nel titolo, nel testo sono soltanto voci che risuonano in una scena buia dall’inizio alla fine.
La voce del poeta rievoca l’apparizione del defunto («Le ciglia aprendo, mi parea vederlo / Dentro limpida luce a me venire», vv. 18-19) di cui vuole eternare la “virtù”, ma si rivela molto impacciato nel differenziare l’ “aspetto” sofferente e “la calma” del volto:
«Come d’infermo, cui feroce e lungo
Malor discarna, se dal sonno è vinto,
Che sotto i solchi del dolor nel volto
Mostra la calma, era l’aspetto» (vv. 23-26).
Insomma, pare che Manzoni abbia contemporaneamente presente la “gente” “nel sembiante stanca e vinta” del XXIII dell’Inferno, e l’ “uom di Dio” della Visione di Ezechiello, di cui Vincenzo Monti scrive:  “Era placido e grave il suo sembiante”… “Chinò la faccia riverente” …”E fu sì mite il suo parlar…”.
Per un attimo – probabilmente per effetto della luminosità che circonda il fantasma – sulla scena si materializza la sponda di un letto, su cui  “placido” lo spettro  “si pone” e  “dolcemente” avvia un colloquio.
Manzoni si sente pertanto autorizzato a dare libero sfogo a dubbi, ricordi, passioni.
La sua voce è la protagonista assoluta; antagonista è il mondo: l’intero mondo, popolato di esseri inaffidabili e maligni, di poetastri, di cattivi maestri.
Alessandro – è evidente –  ha occhi soltanto per sé: gli interessa soltanto la sua sorte.
E ne ha motivo, poiché le circostanze lo hanno obbligato a provvedere alla propria esigenza di affetto e di attenzioni, dall’età di sei anni, quando gli era stato sottratto il “nido” familiare e l’unico aiuto gli era venuto dalla compagnia dei “prischi sommi”, di cui cantilenava – forse come fossero coccole sonore  –  i componimenti proposti dai maestri.
In ogni modo, di una cosa purtroppo è certo: nessuno imprimerà alla sua vita una svolta esaltante: lui è  “solo” e può soltanto compiangersi:
«e da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
A la cara cervice. A quella scossa,
Quasi al partir di sonno io mi rimasi;
E con l’acume del veder tentando,
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lagrima sul ciglio» (vv. 236-242).
Intenzionalmente, nel citare la descrizione dell’Imbonati, ho omesso i versi riservati al volto, perché Manzoni, inaspettatamente diventa abilissimo e va oltre la “fisiognomica”, fino a sfiorare la “morfopsicologia”, desumendo dall’osservazione di tratti somatici peculiarità psichiche e aspetti della personalità:
«Aperta
La fronte, e quale anco gl’ignoti affida:
Ma ricetto parea d’alti pensieri.
Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso
Non difficile il labbro» (vv 26-30).
Quel «volto né  superbo né modesto» (v. 79) riesco a vederlo anch’io.
Più esattamente, lo rivedo: è  quello del garzon bellissimo, che calamitò la mia attenzione quando visitai per la prima volta il Museo di Casa Manzoni, a Milano.
Era catalogato come “ritratto di Alessandro Manzoni ventenne”, eseguito a Parigi da un “anonimo pittore inglese”.
Io, però, non vedevo né i capelli crespi di Alessandro, né i suoi occhi “verdi” (Teresa Stampa Manzoni) né l’aria interrogativa o perplessa che ha nei suoi più noti ritratti.
Vedevo capelli inanellati e una scriminatura a destra anziché a sinistra, poi un abbigliamento sconcertante: per il soggiorno a Parigi Alessandro ventenne aveva recuperato la mantella di collegiale del Longone, da lui frequentato dal 1798 al 1801 (dai tredici anni e mezzo ai sedici e mezzo)? Lui, che a diciassette vestiva come Vincenzo Monti, incravattandosi fino al mento?
Ritornando al Carme, devo rimarcare che i versi introduttivi della descrizione, con la loro sintassi arbitraria, non permettono di capire che cosa precisamente Manzoni abbia voluto dire:
«Qual mentita in tela,
per far con gli occhi a l’egra mente inganno,
Quasi a culto, la miri, era la faccia» (vv. 20-22).
Al contrario, scatena inquietudine e allarme quel problematico aggettivo “mentita”, che immediatamente rimanda alla “mentita giovenca”, citata da Vincenzo Monti in una variante del primo Canto della Feroniade, in cui Giunone ricorda che Giove si era trasformato in una nube, per inseguire Io, di cui si era invaghito, e, per non essere scoperto insieme alla ninfa, l’aveva trasformata in candida giovenca: «Nella memoria le tornò la nube / Che fuor del grembo su l’Inachia riva  / La mentita giovenca un giorno mise» (vv. 532-533).
Una laboriosa, emozionante indagine mi ha infine permesso di trovare una risposta ai numerosi quesiti, e una soluzione all’enigma del travestimento-giustapposizione, analogo a quello operato da Giove.
Però devo rimandarne la relazione a un secondo momento, perché voglio concludere il discorso relativo ai Versi per l’Imbonati.
Non rinvio, invece, una confessione: a due “periti” d’arte, da me interpellati, è bastato vedere la fotografia del quadro per  respingere risolutamente la mia ipotetica attribuzione di paternità.
Pertanto, mi auguro che un giorno un’autorità competente voglia far eseguire una radiografia del dipinto, anche perché la mantella che il ragazzo trattiene con la mano destra potrebbe rivelare un’immagine sottostante; infatti, sembra oscurata ad arte. Forse dall’anonimo pittore inglese.
Chiuso momentaneamente questo argomento, persiste, però, il sentore di ambiguità, di contraffazione. Ritornano in mente il disconoscimento del Carme e le motivazioni così poco convincenti già prese in esame, (puntata n.11) anche se un qualcosa di vero si può trovare nella risposta di manzoni all’amico Luigi Rossari che gli aveva trasmesso da parte della Tipografia Bettoni “la gentile domanda del suo assenso” alla pubblicazione dei Versi in morte di Carlo Imbonati:
«… non posso dare l’assenso richiesto; essendo cosa da me rifiutata e disapprovata per molte ragioni, e fra le altre pel tuono d’arroganza che vi domina, e che per mia buona sorte, è ridicolo;…» (Lettera n. 188, del 19 agosto 1823).
In verità, soprattutto la lunga invettiva contro i mali del secolo e contro i poetastri può essere frutto soltanto della “bile” di Alessandro, intrisa com’è di rancore personale e di sfiducia negli uomini.
Quindi è senza dubbio un comportamento “arrogante” averla attribuita a chi era invece animato dalla speranza in un rinnovamento radicale e si era sempre attenuto al “decalogo”, proposto anche al “discepolo”.
A questo riguardo, vale la pena di ricorrere alla testimonianza di un amico delfinate, lo studioso Sébastien Falquet de Planta (imperdibile la monografia Les deux visages de Sébastien Falquet de Planta soldt et philosophe (1770-1839) di Yves Jocteur Montrozier), che non può essere sospettato di volere “idolatrare” la persona di cui parla, come talvolta accade ai compilatori di elogi funebri.
Il 28 maggio 1806, vale a dire poco più di un anno dopo la morte di Carlo, il Planta, che si era trasferito  a Torre Pellice, nelle valli valdesi, in cui l’Imbonati e la Beccaria lo avevano incaricato di cercare una casa adatta alle loro mutate esigenze, in una lettera ai propri genitori, residenti a Grenoble, fra l’altro racconta: «L’homme à qui j’ai le plus connu de cette precieuse qualité de l’âme qu’on appelle proprement la bonté, l’excellence de coeur, était un Milanais, jadis assez important par sa naissance et sa fortune, nommé Charles Imbonati. Il joignait à cette extrême bonté, de l’esprit, des connaissances, une probité scrupuleuse et un sincère amour de son pays» (LOUIS ROYER, Un ami dauphinois de la famille Manzoni: Sébastien Falquet-Planta), in: «Ausonia» cahiers franco-italiens, bulletin trimestriel de la section d’études italiennes de la Faculté de Lettres de Grenoble, a. III, n. 1, 1938, pp. 5-6  (traduzione letterale: L’uomo nel quale ho più conosciuto questa preziosa qualità dell’anima che si chiama propriamente bontà, eccellenza del cuore, era un Milanese, un tempo abbastanza importante per nascita e per ricchezza, chiamato Carlo Imbonati. Egli univa a questa estrema bontà, spirito, conoscenze, una probità scrupolosa e un sincero amore del suo paese).