Odi Freddi e Lavori Angelici

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LORENZO BARBERIS

“Omen Nomen”, Piergiorgio Odifreddi è noto soprattutto per i suoi implacabili, razionali interventi anticlericali, condotti con una magnifica ironia algida e sprezzante. Gli Odi Freddi, appunto. Ma accanto alla pars destruens e “diabolica” vi è anche la pars costruens, il “labor angelicus” a cui è intitolato questo intervento a Mondovisioni del matematico cuneese: il suo lavoro di divulgatore logico, matematico, scientifico in generale.

“Viviamo di scienza, ma ci nutriamo di altro” spiega Odifreddi, e non ha certo torto: usiamo la tecnologia senza conoscerla, spesso “come un selvaggio si mette la sveglia al collo”. Così la tecnologia si ammanta di divino, e i cellulari diventano la nostra vera divinità.

Gulliver, nei suoi viaggi scritti da Swift, incontra un popolo che venera come proprio dio un piccolo oggetto tascabile, che consulta ad ogni istante, prima di prendere qualsiasi decisione. Questo popolo ha semplicemente la stessa ossessione, universalizzata, dei gentlemen inglesi dal ’700 in poi per la seconda protesti tecnologica: l’Orologio (la prima, nota mia, sono ovviamente gli Occhiali, dal ’300). Ecco, oggi, invece di Phileas Fogg su cui i londinesi regolavano l’orologio, avremmo in Swift l’uomo contemporaneo che compulsa disperatamente il suo smartphone per farsi dire ora, chiamate, meteo, indicazioni culturali di ogni tipo.

Per Odifreddi ciò dipende dal fatto che la nostra cultura è totalmente umanistica, e condizionata da un certo culto per l’approssimazione creativa che egli ascrive, con una punta di divertita e divertente cattiveria, all’umanesimo (non del tutto a torto, sono costretto ad ammettere a denti stretti).

Cita a questo proposito lo Scalfari che intervista Nanni Moretti (e fa così ricordare allo spettatore, senza citarlo, il suo parallelo e più acuminato dibattito con Ratzinger). In verità, la scena che Scalfari narra, del papa che si sente gravato dal grande compito alla nomina, si siede “nella stanzetta” dietro alla finestra fatale di Piazza San Pietro, riflette finché non riceve la luce divina, il soffio angelico (“non so che razza di allucinazioni si abbiano quando ti nominano Papa”), è totalmente inventata: quella “stanzetta” non esiste. Lo stesso Scalfari, tallonato dalla stampa estera, alla fine ammise in una conferenza stampa quello che molti avevano capito: ma sì, ero andato lì, avevo parlato col Papa, senza registratore, senza appunti, senza niente, poi ho scritto il pezzo e mi sono confuso e, insomma, ho inserito una scena tratta di peso dal film sul Papa di Nanni Moretti, uscito in quei giorni in concomitanza con la fatidica attesa (e profeticamente ispirato, più che altro, alla curiosa rinuncia di Ratzinger, novello e diverso Celestino). Ma cosa conta, in fondo lo spirito colto era giusto, obiettava infastidito Scalfari. In fondo non conta dire cosa dice il papa, chiosa Odifreddi come al solito adorabilmente maligno, basta dire quello che direbbe e farebbe se fosse infallibile, cioè se fosse Scalfari.

I giornali italiani accolsero la notizia col più pudico riserbo, e l’Osservatore Romano, che prima aveva dato grande spazio al pezzo enfatico della “pecorella smarrita”, lo rimosse alla chetichella dal proprio sito.

Insomma, bisogna sempre diffidare dei vizi del giornalismo, anche dei grandissimi, per questa tendenza umanistica a infiorettare e a cercare l’effetto. Sulla scienza, fa l’esempio recente di Tim Hunt, ricercatore inglese di primo livello che avrebbe dichiarato che i laboratori scientifici vanno divisi per sessi. Hunt è divenuto di improvviso talebano, o era una battuta ironica? (nota mia: avrebbe detto, parlando anche a delle ricercatrici, letteralmente: “noi ci innamoriamo di voi, e voi di noi, e questo non va bene per la ricerca”; propendo quindi più per una galanteria un po’ goffa più che per un progetto di segregazione sessuale).

Odifreddi ricostruisce poi l’origine della sua passione per la logica dalla lettura di un volume di Bertrand Russell, nobel per la letteratura (“l’opposto, un letterato che prende una medaglia Fields, è un po’ più raro”, aggiunge): “avendo studiato dai preti” egli aveva evitato alle superiori ogni latinorum, andando ai geometri per poi riproporsi di essere ingegnere. Ma Russell (a Collisioni ha suonato anche il gruppo nostrano “La Teiera di Russell”, da un suo noto paradosso: Odifreddi non era l’unico cuneese sedotto dall’estimatore di Peano), scoperto su una bancarella con un saggio divulgativo, lo fa appassionare alla logica e così sceglie matematica e quest’ambito di ricerca.

Odifreddi cita il paradosso del mentitore (“Ulisse dice che tutti i greci sono bugiardi; ma Ulisse è greco!”), che da curiosità che era nella cultura filosofica greca diviene un elefante nella stanza sempre più ingombrante che alla fine frantuma tutta la cristalleria aristotelica. Con Godel, diviene la frase che si auto-contraddice (nota mia: un foglio con due lati: “l’affermazione dall’altra parte del foglio è vera / l’affermazione dall’altra parte del foglio è falsa”) che rende necessario riscrivere il Tertium Non Datur per evitare il syntax error del sistema. Da qui, tra l’altro, parte Alan Turing per sviluppare la moderna informatica, basata sull’euristica booleana di Zero e Uno.

Manca quindi la storia della Scienza ai licei, a fianco di quelle – giustissime – dell’Arte, della Letteratura, della Filosofia e generale. Qui intervengono i divulgatori: e Odifreddi, completati i suoi studi logici a cinquant’anni, nel 1999, inizia a divulgarli. Poi, “l’appetito vien mangiando”, a una trilogia della logica ne aggiunge una della matematica, e poi si allarga alla scienza in generale.

Oltre a proporre questa impostazione di storia della Scienza (che trovo corretta), declinata ovviamente nelle materie scientifiche o a loro fianco, come Storia della Matematica e così via, Odifreddi critica invece la svolta che vi è stata e che ha peggiorato la situazione: non si è avvicinata la cultura scientifica a quella umanistica, ma dai ’70 in poi si è allontanata ulteriormente con il bourbakismo, i seguaci (anche inconsapevoli) di Nicolas Bourbaki, nome collettivo di un comitato di giovani turchi della matematica che hanno portato al trionfo dell’Insiemistica.

Utilissima per porre alcune questioni logiche, pessima per insegnare, separando artificiosamente l’insegnamento moderno da una tradizione millenaria: non più somma di numeri ma “unione di gruppi di elementi”; il rifiuto delle figure geometriche in quanto “falsanti” (la geometria opera con figure “pure”, ideali, quindi non si può ovviamente disegnare un punto, o una segmento, meno ancora una infinita linea…).

Odifreddi conclude spiegando come l’avvicinamento delle due culture può e deve avvenire anche dall’altra parte: la scienza deve rendere ragione del suo rilievo umanistico e “divulgarsi” senza volgarizzarsi; in Italiano, ad esempio, si dovrebbe affrontare Galileo Galilei, per Italo Calvino il nostro più grande autore (gli chiesero: “Insomma! E Dante?” E lui sbuffò: “D’accordo. In prosa.”).

E qui Odifreddi giustamente elogia Galileo, che “sa cosa si deve fare in chiesa: non sentire la predica, che non interessa a nessuno, ma guardare il candeliere che si muove a pendolo, e così iniziare a studiarne il moto”. Da qui, come altrove ha spiegato Odifreddi (qui non ci torna, l’incontro sta per finire) Galilei arriva fino a concepire il primo livello della relatività, poi sviluppata da Einstein.

Insomma, se Avati (che, la mattina, spesso interpellava Odifreddi stesso) è stato interessante per aver approfondito, da par suo, il rapporto tra letteratura e cinema, Odifreddi ha avuto il merito, nonostante il suo sottile sarcasmo, di attenuare l’”odio freddo” che molti di noi umanisti nutrono per la sua materia.