Il toro di Bastian (storia vera)

ANNI ’90, ALTA VALLE STURA

Il campanile di Sambuco e il monte Bersaio

Il campanile di Sambuco e il monte Bersaio

SILVANO GREGOLI

Ma che cosa avrà mai Sambuco per essere così popolare? Sarà perché si stira, placido, tra terra e aria, sul versante solatio della valle? O sarà forse per via del Bersaio, colosso di pietra emerso dalle acque per fare da sfondo al paese e illuminarlo a giorno nelle notti di luna piena? Sta di fatto che aleggia su Sambuco un inspiegabile senso di aristocrazia, come se il destino avesse voluto farne un ricettacolo di vicende fuori dal comune.
In questo contesto ambiguo, l’avvenimento più rilevante fu senza dubbio l’acquisto dell’ultimo toro da parte di Bastian: mandriano magnetico e sulfureo, sempre accompagnato dai suoi cani, da molti considerato un’incarnazione del Sarvan (uomo selvatico, capace di tutto).
La scelta del toro non fu fortuita, e il misterioso legame che presto nacque tra i due andò ben al di là di una semplice complicità. Fu subito evidente, infatti, che se il toro fosse diventato uomo sarebbe diventato Bastian. E Bastian il suo toro.

Era, quel toro, un animale singolare. Non era nero e nervoso come i tori di Spagna. Non aveva corna affilate come stiletti, né sembrava particolarmente collerico. Certo aveva un collo enorme e le spalle erano avvolte da muscoli terrificanti. Ma era chiaro di cotenna e a volte, se si osservava la mandria da lontano, poteva anche confondersi con le altre mucche.
Un esame attento e uno sguardo ravvicinato rivelavano tuttavia particolari inquietanti. In primo luogo il mantello chiaro non era omogeneo. Sul collo, sulle spalle, sulle natiche e sui testicoli, il biancore bovino sfumava in zone brunite, con riflessi metallici. Ma era soprattutto la goccia scura intorno agli occhi a rivelare l’indole torva dell’animale. Il toro sfoggiava infatti due occhiaie nero-antracite, così grandi e nette da far pensare a un maquillage teatrale eseguito dal diavolo in persona. E invero, il suo occhio esorbitato mandava a tratti bagliori demoniaci di una vertiginosa profondità.
C’erano anche stati dei precedenti. Un giorno che rientrava in paese dal pascolo non lontano, il toro di Bastian aveva visto Alfredo camminare davanti a lui sulla stessa strada.

Alfredo

Alfredo

Con un’improvvisa sgroppata aveva allora puntato sull’intruso, soffiando e zoccolando come un ossesso. Alfredo non era stato a cincischiare: senza pensarci due volte si era buttato a capofitto oltre il parapetto ed era rotolato nella ripa sottostante. Alto sulla strada, il toro di Bastian mugghiava paurosamente urtando il parapetto con il corpo e con le corna. Ma Alfredo già scappava a gambe levate verso i ghiaioni del Vilar, senza voltarsi, senza perdere un istante.
Bastian, qualche passo dietro al toro, aveva assistito alla scena senza battere ciglio.

Anche Bastian era un uomo singolare. Mandriano da sempre, da sempre aveva preferito la placida compagnia delle mucche a quella, litigiosa, degli uomini. Litigioso lo era anche lui, certo. Ma una vita trascorsa con le mucche sulle montagne lo aveva risparmiato dalla peggiore delle miserie: la mediocrità. Non gli accadeva mai di essere solo un tantino indiscreto, o un po’ testardo o mediamente cattivo. Quando occorreva – e occorreva spesso –, diventava più intrigante di Machiavelli, più cocciuto di un mulo e più malvagio di Berlicche. In più, era l’unico del paese a frequentare assiduamente gli spiriti dei boschi che l’avevano adottato conferendogli i loro poteri e le loro magie.

Bastian

Bastian

Ai tempi del toro, Bastian era sulla sessantina. Il corpo era secco. L’occhio, color delle castagne. Lo sguardo, cangiante dal malizioso al maligno, dall’ironico al fanciullesco. Il capello era grigio, ma folto e riccioluto. Bastian non aveva mai preso moglie. A Sambuco, per tutta parentela, gli era rimasto un fratello con due figli: un florido ragazzone e una ragazza parecchio riservata. L’inverno lo trascorreva anche lui in paese, però in distaccata autonomia dagli altri membri della famiglia. Appena arrivata la bella stagione risaliva agli alpeggi con mucche e toro: al Besàut dapprima, sulle pendici basse del Monte Vaccia; al Gias dle fomne dopo, su, in alto, quando l’estate era al colmo.
Però che nome! Gias dle fomne voleva dire, nell’antica parlata provenzale delle montagne, “Alpeggio delle donne” ed era un posto straordinario. L’accesso non era agevole. Dal basso si arrivava tramite un sentiero ripido e umido che tagliava con innumerevoli zig-zag il versante settentrionale del Monte Vaccia. In quel sentiero, non si era ancora entrati che già veniva voglia di uscirne. Eppure bisognava perseverare, salire metro dopo metro, tornante dopo tornante, nella speranza di rivedere la luce, molto più in alto. Sì, perché dopo le tenebre della selva oscura, il Gias dle fomne era la luce, il cielo, il sole, l’aria, lo spazio, il mondo, il vento, la vita, la gioia.
Di donne ce n’erano poche al Gias dle fomne – anzi nessuna. Quale donna sarebbe salita fin lassù? Ma a Sambuco si mormorava che certi giorni – o certe notti – Bastian ricevesse la visita di talune francesine che scendevano al Gias dall’alto, attraverso la Colletta Bernarda. E infatti, ogni tanto, Bastian arrivava in paese con delle camicie nuove a motivi provenzali che si abbinavano perfettamente ad altrettanti foularini, griffati Soulejado, di ottima fattura, sconosciuti dalla nostra parte delle montagne.

«Bastian, sono di nuovo passate le bagascette francesi? Ti hanno portato il foularino?»

Per aggiungere mistero a mistero, lo stesso Bastian aveva una volta raccontato di essere visitato, la notte, da una fomna d’ombra, cioè da una “donna d’ombra”; ma non ne aveva precisato la natura. Anzi, ne aveva parlato sottovoce e con una tale angoscia che a tutti era venuto un brivido. E così la dimensione magica di Bastian ne era uscita rafforzata.
Qualche volta un bracconiere raccontava di averlo visto vagare in cima al Ciaval, in piena notte, sotto la luna, senza ragione apparente. Ma il più delle volte le storie dei bracconieri o dei cacciatori raccontavano che la mandria di Bastian era di qua o di là, ma che di Bastian non c’era nessuna traccia, né di qua né di là.

Nessuno saprà mai come siano veramente andate le cose al Besàut, quella notte. Se Bastian fosse profondamente addormentato o se fosse in giro per boschi di luna. Se i cani avessero urlato per ore o se invece fossero stati zittiti da qualche misterioso ordine notturno. Se le mucche avessero muggito tutte insieme o se invece avessero fatto finta di niente.

Erano diverse ore che il toro se ne stava ritto, immobile, vicino alla fontana sfavillante di luna, lo sguardo assorto sulle falde basse del Bersaio dove brillavano le poche luci di Sambuco. Ma a un certo punto, all’improvviso – forse ricevette un ordine – uscì dalla sua cupa apatia e si diresse veloce verso il cancello chiuso. La pesante barriera di larice fu trovata, l’indomani, fracassata e sbriciolata come se qualcuno, non contento di abbatterla, avesse anche voluto calpestarla.

Uscito dal recinto, il toro di Bastian raggiunse la strada sterrata e si allontanò dall’alpeggio caracollando sotto una luna immensa. Non era evaso dalla quiete del Besàut solo per assaporare le delizie di una passeggiata tra boschi e radure incantate. Quella notte aveva finalmente deciso di compiere L’Atto che da tempo giaceva annidato nelle tenebrose circonvoluzioni del suo cervello taurino.

Il toro intanto aveva già percorso tre chilometri di sterrata e si stava avvicinando alla nazionale che porta in Francia. Ecco infatti, a breve distanza, il lungo nastro d’asfalto, scuro e silenzioso. Senza esitazione il toro imboccò la strada nazionale trotterellando come possono farlo nove quintali di carne, ossa, corna, zoccoli e determinazione. All’uscita di un tornante, un valligiano assonnato al volante della sua utilitaria evitò di un soffio un testone d’inferno cui seguiva una montagna di carne inferocita.
Giunto al bivio dove si trovava l’indicazione Sambuco km 0,9 l’animale lasciò la nazionale e si diresse verso il borgo addormentato. All’altezza del cimitero, un raggio di luna fece scintillare i suoi terribili occhi.
Settecento metri più in là, Sambuco dormiva in silenzio, e nel suo letto dormiva Ezio, il robusto nipote di Bastian, rimasto solo in paese dopo la partenza della sorella verso una vita più facile in città e quella del padre verso una casa di riposo della bassa valle.
Non correva, il toro, ma l’andatura era irruente e l’occhio arcigno. All’uscita della Via Curta rallentò decisamente il passo. Non c’erano più dubbi, ormai: la marcia notturna del toro di Bastian stava per concludersi.

Un orribile muggito ruppe infine il silenzio della montagna.

Il primo a uscire in strada per vedere che cosa stesse succedendo fu Gioan. Erano circa le tre di notte e alla vista del toro infuriato Gioan si sentì mancare le gambe. L’uomo non era un pivellino e non ci mise molto a capire che bisognava scappare subito. Con un guizzo si buttò al di là della ringhiera che dominava, dall’alto, l’orto dei Bruna.

Gioan

Gioan

Il toro nel frattempo si era immobilizzato davanti alla porticina che dava sulla stanza da letto di Ezio, a pochi passi dalla stalla. Oscillava sulle zampe anteriori scuotendo la testa e mugghiando minacciosamente. Anche Ezio si era svegliato e aveva subito capito. Non si era mai fidato di quell’animale, e tanto meno se ne fidava adesso, a quell’ora e con quella luna.
“Devo assolutamente chiuderlo nella stalla” pensò.

La strada era stretta in quel punto, e il toro la occupava tutta. Occorreva giocare d’astuzia, farlo rinculare verso la piazzetta pochi metri più in là, aprire la porta della stalla, aggirarlo e spingerlo dentro. Poi bisognava chiudere la porta.
Ezio riuscì a compiere i primi gesti con sorprendente facilità. Il toro sembrava essersi calmato. Giunto sullo slargo aveva volto all’indietro il testone e Ezio aveva incrociato uno sguardo ambiguo. Forse la lunga passeggiata e gli orribili muggiti che ancora riecheggiavano per le viuzze di Sambuco l’avevano un po’ stordito. Forse era entrata troppa luce nei suoi occhi, e adesso non chiedeva altro che rifugiarsi in un luogo buio.

Dopo avere aperto la porta della stalla, Ezio si posizionò dietro al toro e gli diede una pacca decisa sulla natica: «Pògia! Pògia!».
Il toro avanzò di qualche passo, ma sull’uscio si impuntò. Ezio si stava spazientendo: “Ma perché, non stava bene al Besàut quella brutta bestia? Cosa era frullato in quel suo testone? E Bastian, dov’era quello là? Non doveva forse occuparsi delle sue bestie, invece di girar per boschi, di notte, chissà con chi?”
Ezio aveva acquisito la baldanza che hanno gli uomini giovani alle prese con gli animali che credono stupidi. Il suo corpo muscoloso premeva forte contro le natiche del toro: «Pògia! Pògia! Pògia!».

Nel frattempo la porta si era richiusa a metà. Bisognava dunque riaprirla.
Ezio percorse allora il lato sinistro dell’animale immobile, oltrepassando il collo e la testa. “Queste corna non sono poi così terrificanti”, pensò. Anche l’occhio, bistrato dalla sinistra goccia d’inchiostro, sembrava mansueto in quel momento. Ezio spinse la porta con la mano fino ad aprirla completamente.

Un urto violentissimo sulla schiena lo scaraventò diversi metri più in là, sul fondo della stalla, contro il muro che sosteneva la greppia ancora piena di fieno. Ezio perse conoscenza per qualche frazione di secondo; si riprese, tastò le pietre del muro… Sembrava non capire. Ecco, ora gli sembrava di capire un po’ meglio, ma doveva ancora voltarsi per capire veramente.

Si voltò infine: la silhouette nera del toro riempiva la porta spalancata sulla strada.

Nell’angolo c’era una balla di fieno intatta. Ezio spiccò un balzo sulla balla e di lì dentro la robusta greppia, costruita all’antica e infissa nel muro a mezz’altezza con grossi modiglioni di larice stagionato, duro come il ferro. Il toro avanzò lentamente fino a occupare il centro della stalla e dalla sua posizione inespugnabile guardò Ezio negli occhi. Da un finestrino alto penetrava un raggio di luna che illuminava il muso del bestione. Ezio sentì confusamente che il toro era venuto dal Besàut per ucciderlo e che la resa dei conti si stava svolgendo lì, nella stalla oscura, una notte di plenilunio.

Una cornata, rabbiosa, fece volare in pezzi il primo metro di greppia da cui Ezio fuggì con un salto. Metro dopo metro, metodicamente, il toro di Bastian cominciò a sconquassare lo spazio di sopravvivenza del povero Ezio.
Al di là della mole del bestione, attraverso la porta rimasta aperta, Ezio vedeva la salvezza: il selciato della strada, un angolo della casa dei Bruna, poi, più lontana, la frazione Moriglione con il suo campanile splendente di luna. Ma non c’era tempo per le malinconie. L’ultimo pezzo di mangiatoia esplose nell’aria scura della stalla. Ezio fu proiettato contro il soffitto e cadde pesantemente sul pavimento di terra battuta. Un corno gli aveva staccato una larga fetta di cuoio capelluto e il suo orecchio destro penzolava sulla guancia. Ma non c’era nessuno per impressionarsi del sangue che sgorgava dallo squarcio.

Senza fretta il toro si girò di fianco per sferrare l’attacco finale.

Appoggiato al muro si trovava un contenitore del latte: un grande bidone d’alluminio alto come un uomo. Il bidone era vuoto e Ezio, pur non potendolo sollevare, riuscì a smuoverlo e a nascondersi dietro.
L’urto del cranio del toro contro lo scudo improvvisato risuonò come il tocco di un campanone fesso. Ezio incassò la botta.
Cornata dopo cornata, sempre trascinando il bidone davanti a sé, Ezio si era insensibilmente avvicinato alla porta. “Soprattutto non bisogna cadere”, pensò. In strada si intravedevano diverse silhouette di sambucani, ma nessuno si azzardava a entrare nella stalla. L’avevano capito tutti che si trattava di una lite in famiglia e che il toro era venuto dal Besàut per applicare una sentenza.
“Bòng!”, “Bòng!” martellava il cranio del toro di Bastian contro la corazza d’alluminio del povero Ezio, prossimo alla fine, grondante di sudore e di sangue, le ossa fracassate dai colpi che per fortuna si smorzavano un po’ contro la struttura assorbente del bidone.

Ezio era finalmente arrivato sulla soglia della stalla e, con uno sforzo supremo, riuscì a proiettarsi in strada, ad afferrare la maniglia della porta di legno e a chiuderla dietro di sé.
In strada, fantasmi sambucani in pigiama lo raccolsero subito, tutto insanguinato, e lo spinsero fuori tiro, in un riparo dove nessun toro sarebbe mai potuto entrare.
Più tardi, un’automobile lasciò Sambuco con a bordo una grossa forma esanime, avvolta in una coperta.

Chiuso nella stalla, il toro di Bastian muggì lamentosamente tutta la notte, conscio di quel che sarebbe accaduto all’alba.

Saran state le sette di mattina quando un camion per il trasporto del bestiame parcheggiò sulla piazzetta facendo scendere un Bastian enigmatico, con un foularino provenzale al collo. Poco dopo Bastian entrò nella stalla. Senza il minimo rumore, senza un fremito, il toro lo seguì sulla piazzetta illuminata dal primo sole sbucato dietro il Vaccia. L’autista del camion aveva abbassato la rampa di legno e il toro la risalì, cupo e abbattuto, consapevole della fine imminente.

***

Sono ormai passati diversi anni da quella notte e nel piccolo mondo di Sambuco sono successe tante cose. Dopo una lunga degenza in ospedale, Ezio andò a vivere in città lasciando Sambuco per sempre. Anche il toro di Bastian lasciò Sambuco per altri cieli, per altre lune, per altre battaglie, per sempre. Bastian vendette tutte le mucche, e gli alpeggi del Besàut e del Gias dle Fomne andarono in rovina sotto i fulmini e i temporali estivi.
Ora Bastian regna su Sambuco: un’enorme casa tutta per sé. Lo sguardo è sempre lo stesso: malizioso sotto i riccioli che nemmeno la canizie riesce a debellare.
Ogni tanto, qualche visionario racconta ancora di aver scorto, nottetempo, un toro gigantesco aggirarsi nei pressi del cimitero del paese. Altri l’avrebbero intravisto avanzare pesantemente lungo la strada del fondovalle. Scintille scaturivano dai suoi zoccoli. Bagliori dalle narici. Lampi dagli occhi inferociti.
Forse anche per questo nessuno intralcia la strada a Bastian. Gli uomini lo temono. Le donne lo blandiscono, fingendo un improbabile istinto materno. Ogni tanto scompare per qualche giorno. Nessuno sa dove vada e nessuno glielo chiede.

In mezzo a tutte queste magie, Sambuco si crogiola al sole dell’alta Valle Stura. Ne ha viste altre, altre ne vedrà. Non si cura né di Cortina d’Ampezzo né di New York. Scende giù dalle crode del Bersaio un’aria fine come un miracolo. E i raggi del sole non sono gli stessi che illuminano gli altri paesi della valle. Figurarsi poi i raggi della luna.

Il Bersaio e la luna (acquerello di Maddalena Poleggi)

Il Bersaio e la luna (acquerello di Maddalena Poleggi)

***

La sera dell’11 luglio, e tutta la notte seguente, si sentirono dei muggiti strazianti salire dai prati intorno al cimitero. Il toro di Bastian non si dava pace.

L’indomani, di primo pomeriggio, Bastian fu visto attraversare i prati e incamminarsi deciso su per il sentiero dei Virèt che bordeggia il Rio Bianco.

Nessuno potrà mai dire dove e quando avvenne il ricongiungimento, né cosa successe in quei brevi istanti. Certo è che Bastian, vivo, da quel sentiero non tornò più.

Ora, ai piedi del Bersaio, è calato il silenzio.

Ciao, Bastian.

QUI la versione francese

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