L’ira e il furore negli scatti di Dorothea Lange

Dorothea Lange screenshot

LAURA BONFIGLIO

È in corso, nella città di Torino, a CAMERA, una mostra fotografica da non perdere perché i temi trattati sono purtroppo di tragica attualità: la crisi climatica, le migrazioni, le discriminazioni tra esseri umani.
Il titolo della mostra è Dorothea Lange, racconti di vita e lavoro ed è curata da Walter Guadagnini, direttore artistico di CAMERA, e da Monica Poggi.
La fotografa, nata nel New Jersey nel 1895, è stata, come scrisse John Szarkowski, “per scelta un’osservatrice sociale e per istinto un’artista”.
Nonostante ci separi quasi un secolo da queste immagini i suoi scatti ci fanno riflettere sul presente. La locandina dell’evento ci mostra una madre coi suoi bambini che sta scappando dalla carestia; questo ritratto di una giovane donna disperata e stremata dalla povertà ci ricorda moltissimo l’immagine della Madonna. Migrant Mother vive insieme ai sette figli in un accampamento di tende e auto dismesse.
La maggior parte di questi scatti è fatta tra gli anni Trenta e Quaranta, periodo nel quale Lange viaggia per gli Stati Uniti, insieme al marito, l’economista Paul S. Taylor, documentando con la sua macchina fotografica gli eventi che hanno modificato l’assetto economico e sociale americano. Fra il 1931 e il 1939, il Sud degli Stati Uniti viene infatti colpito da una grave siccità e da continue tempeste di sabbia, che mettono in ginocchio l’agricoltura dell’area, costringendo migliaia di persone a migrare. Dorothea Lange fa parte del gruppo di fotografi chiamati dalla Farm Security Administration (agenzia governativa incaricata di promuovere le politiche del New Deal) a documentare l’esodo dei lavoratori agricoli in cerca di un’occupazione nelle grandi piantagioni della Central Valley: Lange fotografa e raccoglie storie e racconti, riportati poi nelle didascalie che completano le immagini.

Proprio in quegli anni lo scrittore John Steinbeck pubblica Furore (titolo originale The grapes of wrath) romanzo di enorme successo che lo porterà a vincere il premio Pulitzer nel 1940 e che diventerà un film per opera del grande regista John Ford.
Il romanzo rappresenta il manifesto della politica del Presidente americano Franklin Delano Roosevelt, la politica del new Deal, ma viene molto criticato per la vicinanza a tesi politiche di sinistra e per le espressioni considerate volgari dei personaggi. Al centro della vicenda è l’esodo verso la California della famiglia Joad, contadini dell’Oklahoma impoveriti e sfrattati dalle loro terre; sono mezzadri che lavorano da generazioni i campi e la loro condizione, già dura, diviene critica a causa di continue tempeste di sabbia che negli ultimi tempi hanno trasformato i terreni un tempo fertili in lande aride e sterili.
Le banche creditrici dei contadini hanno così l’occasione giusta per espropriare le terre di chi non può pagare, sostituendo la forza lavoro manuale con macchine che garantiscano maggiori profitti (la meccanizzazione invece che una risorsa per i contadini diventa una delle altre ragioni di perdita del lavoro). Ormai ridotti in uno stato di povertà estrema, partono sempre più numerosi per la California, dove si dice che ci sia lavoro per tutti, cosa che si dimostrerà falsa.
Il viaggio, lungo la Route 66, attraverso Texas, New Mexico e Arizona, è lunghissimo e tutti i migranti sono costretti a fare tappe nei luoghi dove c’è acqua ed è possibile montare una tenda, creando piccole comunità provvisorie e solidali soprattutto nella condivisione del cibo e nella preparazione dei sepolcri per i molti bambini che non resistono alla traversata. La strada come luogo di vita quindi, come ci racconta Dorothea Lange.
In Furore, anche Steinbeck critica aspramente questo tipo di società con uno sguardo che si trasforma in giudizio morale che non fa sconti a nessuno e con cui diventerà il narratore della grande depressione.
Il titolo originale dell’opera si riferisce al verso di una canzone patriottica ottocentesca “Mine eyes have seen the glory of the coming of the Lord: he is trampling out the vintage where the grapes of wrath are stored” che cita una frase del Libro dell’Apocalisse: “E l’angelo lanciò la sua falce sulla terra e vendemmiò la vigna della terra e gettò le uve nel gran tino dell’ira di Dio”.
La disperazione e l’ira nascono infatti dalla frustrazione dei miseri e degli sfortunati, vittime dei pregiudizi del sistema e di chi detiene le leve del potere economico (in Italia Furore viene pubblicato dalla casa editrice Bompiani nel 1940 in una traduzione limitata dalla censura del regime fascista).
Questo è il contesto economico e sociale che Dorothea Lange ci mostra con i suoi scatti, poetici e asciutti nello stesso tempo, con una elevata carica emotiva resa dagli sguardi persi e spaesati dei soggetti, che cercano di mantenere un minimo di dignità davanti alla macchina fotografica.

Un altro brutto capitolo della storia americana è quello che riguarda gli americani di origine giapponese che, dopo la dichiarazione di guerra in seguito al bombardamento aereo di Pearl Harbor, vengono internati in campi di prigionia. Si tratta di un pezzo di storia poco noto ma che viene documentato da Dorothea Lange che sente una vicinanza emotiva coi poveri, coi vinti, prigionieri a causa della Storia.

CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18,
10123 Torino.
La mostra si tiene dal 19 luglio all’8 ottobre 2023.

ScatTO