Il fantasma Mediterraneo

MARIO NICOLAO

And I hear my secret sea flood in, my hushed inner sea
(‘Cicadas’, FL 171)
omaggio a Agnostos Nomolos

Molti fantasmi custodisce il Mediterraneo, nell’andirivieni incessante delle sue onde verdi-azzurre. Il fantasma di Jaufré Rudel che lo attraversa per andare a morire a Tripoli, il fantasma di Percy Bysshe Shelley che annega al largo di Lerici. Quel mare ha restituito il suo corpo ma non la sua anima, che forse urla ancora nelle tempeste oppure pigola dolcemente fra gli ulivi della Liguria, come l’allodola.
Il Mediterraneo è esso stesso un fantasma, il fantasma di un dio che ha cancellato una civiltà, provocando la furia di un vulcano a Santorini, anche se io credo (con Pierre Vidal-Naquet) che Atlantide sia ‘solo’ un mito ateniese. Ma è il Mediterraneo che inghiotte i corpi dei Persiani a Salamina e, più tardi, quelli dei turchi e dei cristiani a Lepanto.
Il Mediterraneo, ancora, è il fantasma delle sue molte civiltà, nate da un coito marino, il mare dei fenici e dei greci, il mare viola di Odisseo e di Rubaldo Merello, e quello verde sormontato dalla falce di luna del pirata-ammiraglio Khaireddin, che sconfisse Andrea Doria a Prevesa, (e del poeta siro-libanese, nostro contemporaneo, Adonis), il mare quasi marcito della laguna di Venezia dove Richard Berengarten scrive “Actaeon”.
E quanta gente uccisa, sgozzata e massacrata, gettata in quel grande lavacro che è sempre il mare, ma soprattutto ‘questo’ mare, vasto ma chiuso. Un mare che continua a levigare e infine a disperdere milioni di teschi e di ossa, nei secoli dei secoli.
Dicevo che il Mediterraneo è il fantasma di un dio, un dio più possente di Pan e di Dioniso, un dio che tace e inghiotte, il dio che scuote quelle terre che lui stesso ha generato e nutrito, le terre greche, le terre italiche e quelle dell’altra sponda, a Oriente.
1
Richard Berengarten è l’ultimo degli appassionati poeti inglesi che hanno cantato il Mediterraneo (e la sua terra d’elezione, la Grecia, l’Hellas che sognava Shelley contro i “Persiani”). Solo che mentre altri nomadi inglesi, Forster e Durrell, lo hanno cantato ‘attraverso’ un poeta greco-alessandrino, Kavafis, il nostro Berengarten lo ha cantato ‘con’ un poeta greco, Jorgos Seferis, che scriveva in greco demotico come il cantore di Alessandria.
Insieme: le poesie di Richard Berengarten si intrecciano con quelle di Seferis, nel momento in cui le leggiamo. Per così dire si danno l’eco come «waves/ expanding, re-echoing» (“Avebury”, FL 50). Berengarten si trovava in Grecia nel momento in cui una giunta militare (I Colonnelli) prendeva il potere nel sangue destituendo il governo legittimo, nell’aprile 1967. “The Easter Rising” (FL 1-14), il poema di Berengarten, scritto a Tebe, in quell’anno, è uscito dal paese con uno stratagemma ed è stato pubblicato con lo pseudonimo di Agnostos Nomolos, al quale ho dedicato questa mia breve testimonianza. Jorgos Seferis è morto quattro anni dopo, nel 1971. Tre anni dopo cadeva la dittatura militare, nel 1974.
Le poesie che ho preso in esame vanno dal 1965 al 2000 (“For the living”, Selected Writings 1). E parlerò solo di un aspetto dell’opera poetica di Berengarten, il suo legame con la cultura mediterranea, legame che buona parte della grande poesia inglese ha sempre mantenuto e non ha mai rescisso.
Ci sono poeti marini e poeti di terra. I poeti marini amano le onde e le nuvole, tutto ciò che è immutabile ma cangiante, i poeti di terra amano ciò che è stabile ma soggetto a rovina. Berengarten è un poeta di terra. Il suo simbolo araldico è l’albero, ciò che si radica nella terra e tende al cielo. Ciò che sfida la folgore:

«survivor tree
skeletal
under storm clouds
budding slow
through despair
thrusting hopes
of high skies
cirrus strewn
milky ways
and birds returning»  (FL 119-120) [1]

La Grecia di Berengarten non è quella marina, è quella di terra, o meglio è quella terrestre, cantata voltando le spalle al mare ma sentendone sempre il basso continuo, “in the sea’s secret speech” (“Shell”, FL 170). Anche le “blue islands” di “Song, for Petro” (FL 168)sono percepite come terre emerse. Berengarten guarda agli uomini, alle loro fatiche, ai loro canti, alle loro risa. Cammina sulla riva, dove i pescatori sono pronti a porre le lampare di notte (“Volta”, FL 157) e gli innamorati passeggiano avvinti. Ascolta il paesaggio estivo, vibrato dalle cicale (Cicadas):

«where, in high pitched voices, they argue my destiny
till their whole assembly has reached its decision
and I can smell them, out there in the darkness». (FL 171) [2]

E enumera i moderni agonisti greci, Theodorakis, Papandreou, Kanellopoulos, Glezos (“The Easter Rising”, FL 8).
Come un cantante girovago raccoglie le loro voci, la loro gioia e la loro disperazione e noi sentiamo Berengarten, l’amato Riccardo che oggi vive a Cambridge, come uno dei nostri, un figlio di quel mare fatale, il Mediterraneo.

3

Seguendo la costa della Grecia, dopo la stretta d’Otranto, il Mediterraneo s’incanala in un lungo e profondo golfo, il mare Adriatico. Qui, navigando verso Trieste, sulla sinistra ci sono le coste quasi sempre basse e sabbiose dell’Italia mentre a destra la costa è dirupata, battuta da acque alte, e subito annuncia i monti dell’Albania, del Montenegro, della Serbia, della Bosnia, della Croazia e della Slovenia, nazioni diverse che fino a qualche anno fa chiamavamo con un solo nome, Yugoslavia. Una terra aspra e martoriata, più volte invasa e insanguinata. E come ha ragione Berengarten di scrivere nel 1991: «Watch where you walk. You think you tread on stones?/ You’re wrong, my friend. It is your brother’s bones» (BB 16). [3]
E che sollievo per noi italiani, accompagnati da una giusta fama di mediocri soldati invasori (ma, attenzione quando resistiamo in casa, come invasi, da partigiani irregolari, da “banditi”, non siamo poi tanto mediocri), non aver compiuto gli stessi crimini dei nostri “alleati” nazisti nella dissennata seconda guerra mondiale, quando mio padre combatteva dalla parte sbagliata in Montenegro e scriveva a casa lettere accorate, criptiche e spesso censurate, proprio sul comportamento dell’esercito tedesco, e sui suoi ufficiali, di cui capiva perfettamente la lingua essendo nato in Austria e diventato cittadino italiano a 10 anni, nel 1919, dopo la grande guerra mondiale, la prima.
È una farfalla blu (The Blue Butterfly, Selected Writings 2, il titolo del libro) che posandosi un attimo, a Sumarice, sulla mano del poeta inglese (ma Berengarten appartiene anche a noi: è greco, italiano, yugoslavo, insomma è mediterraneo) ci fa ritornare al sangue versato, alle popolazioni massacrate in massa dai soldati della Wermacht e dalle S.S. nei Balcani (e in Italia, dopo il 1943, e in tutta l’Europa. Chi può avere dimenticato?).
Questa farfalla, blu e insieme triste, nel colore e nel doppio significato, è il sigillo che lo spirito del tempo invia al poeta, il tocco delicato che lo ridesta all’orrore della storia umana, perché talvolta una carezza può significare più di un pugno, di una percossa.

«…The glimpse, the graze, the grasp,
the only true synchronicities, of the inner and outer combining.
To know them, to know one knows, and then to let go
of knowing, like this blue butterfly’s flight
here in Šumarice, over these hills, this Maytime:
dance of the imago…» (BB 101) [4]

E la bellezza, il bene si esprimono sottovoce, come fa Berengarten in questi versi, spesso giocati sul “pianissimo”. Vorrei quasi dire che “blue” è il colore del suo tono e della sua memoria. “Blue” è il colore dei suoi versi, di questi versi.
Berengarten non è un poeta politicizzato, ma è un poeta della polis, un “poeta civilis”, com’era Primo Levi che infatti figura in epigrafe al libro (con Rebecca West e Zhuang Zhou, quest’ultimo nel celebre apologo della farfalla, caro a J.L.Borges). La sua poesia prende immediatamente e naturalmente la strada della denuncia e della difesa, della denuncia del crimine e della difesa dell’oppresso, dall’avvilito, del martirizzato. E tuttavia non c’è mai enfasi. Berengarten diventa “la vittima”, la sua voce è quella dimessa della vittima.

«Straining to gaze upwards, I heard another burst
Of gunfire wash over me, as from some distant hill.

So my world ended. My eyes rolled open, still». (BB 44)

«…And you’ll not find me
nor you nor you, till the almond tree flowers
on the mountain, and there is no more sea».  (FL 56) [5]

Capisco bene perché Berengarten abbia tradotto in inglese Cesare Pavese (1969) o Umberto Saba (Lopez 1971), autori italiani dalla voce sommessa che, proprio per questo, grida più alto.
A volte basta elencare le cifre come fa il poeta inglese in “Two documents”: 19.545 Serbi nel campo di prigionia di Sabac, 405 ostaggi uccisi a Belgrado e così via (BB 5). Nudi fatti per nudi versi in prosa. O riportare i messaggi, le parole: “Tell the comrades to fight till they crush the enemy” (“Don’t send bread tomorrow”, BB 6). Parole di speranza, parole che la farfalla scrive “in invisible ink across its page of air”, dove “Nada”, che in spagnolo significa “nulla”, qui significa appunto, e per sempre, “speranza” (BB 9).
extra
Abbreviazioni e riferimenti
BB       Richard Berengarten, The Blue Butterfly, Shearsman Books, Exeter, 2011.
FL       Richard Berengarten, For the Living: Selected Longer Poems 1965-2000, Shearsman Books, Exeter, 2011.
Guido Lopez, Trieste’s Umberto Saba, European Judaism 1971, 5(2): 38–37
Cesare Pavese, Tre poesie (tr. Richard Burns), Southern Review 1969, 5(1): 98–103

[1] «albero sopravvissuto
scheletrico
sotto nuvole di temporale
lento germoglia
attraverso la disperazione
spinge fuori speranze
di cieli alti
cirri sparsi
vie lattee
e uccelli che ritornano»  (FL 119-120)

[2] «dove, con voci acute, discutono il mio destino
finché l’intera assemblea ha raggiunto la decisione
e sento il loro odore, là fuori nel buio» (FL 171)

[3] «Attento a dove cammini. Pensi sia un campo di pietre quello? / Ti sbagli, amico mio. Sono le ossa di tuo fratello» (BB 16).

[4] «…Guardare, sfiorare, afferrare,
uniche vere sincronicità, che combinano interiore ed esteriore.
Conoscerle, conoscendo si conosce, e poi lasciar andare
la conoscenza, come questo volo blu di farfalla
qui a Šumarice, su queste colline, in questo maggio:
danza dell’imago …» (BB 101)

[5] «Mi sforzavo per guardare su e ho sentito un’altra esplosione
di spari, un’onda su di me, come da colline lontane

Così è finito il mio mondo. Gli occhi roteati, aperti, ancora». (BB 44)

«…E tu non mi troverai
né tu né tu, finché il mandorlo fiorirà
sulla montagna, e mare più non esisterà». (FL 56)

Questo saggio, inedito in italiano, è stato pubblicato nella traduzione inglese in The Salt Critical Companion to Richard Berengarten, curatori Norman Jope, Paul Scott. Derrick and Catherine E. Byfield, 2011, pp. 43-47 (Salt Publishing, Cambridge).

Traduzioni in nota di Silvia Pio
Fotografie di Bruna Bonino

English

http://www.berengarten.com/site
Manual, poesie di Richard Berengarten

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