Il filo interrotto

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GABRIELLA VERGARI

Sulle prime non ci aveva fatto nemmeno caso.
La bugia le era affiorata alle labbra in modo talmente spontaneo e naturale che non era riuscita a trattenerla e l’aveva sputata fuori così, quasi di getto.
Una sorta di gioco.
Se non piuttosto di sfida.
O forse solo di curiosità, un po’ per vedere come sarebbe andata.
La sincerità era sempre stata il valore supremo, presso di loro.
Suo padre ci teneva tanto da averlo dichiarato in un incisione che troneggiava all’ingresso, proprio dirimpetto all’eventuale visitatore che non avrebbe potuto ignorarla.
Un Salve o un Cave Canem, tradotto in un bel monito che intendeva mettere subito in chiaro come stessero le cose, in quella casa.
Sua madre gliel’aveva poi inculcata, fin dalle fasce.
«Posso accettare da te qualunque cosa, anche la più spiacevole,» continuava a ripeterle «purché ti riconosca sincera.
Vedi, Beatrice, la fiducia è un filo sottilissimo ma portentoso.
Finché regge, può arrivare a sopportare ogni genere di peso. Una volta però spezzato, non si riesce a riannodarlo mai più.»
E quell’epilogo da lastra tombale, mai più, le aveva sempre fatto una grande impressione, caricandole addosso il gravame di un’enorme responsabilità.
Sapere che l’integrità di quel filo dipendeva da lei, le dava proprio le vertigini, consapevole di potersi trasformare ora in un’Arianna industriosa ora in un’implacabile iconoclasta.
La vedeva, Maria, distruggere le tele dei ragni che usavano annidarsi tra le travi del soggiorno.
E ciò, che ogni volta lei provava, era soprattutto compassione per quei piccoli pazienti capolavori della natura, inesorabilmente abbattuti dalle energiche spazzate con cui la donna aveva la meglio su quanto era solita definire immonde schifezze.
A lei, invece, i ragni restati nudi e disorientati al centro del loro universo distrutto suscitavano una terribile pena e avrebbe fatto non so cosa per difenderli e proteggerli.
Perché del resto stupirsene, se la sua amica Orietta metteva lo zucchero lungo i balconi per nutrire le formiche?
Chi l’aveva stabilito che si desse un modo unico di osservare e fare i conti con la natura?
Insomma, per farla breve, quella bugia Beatrice l’aveva vista quasi come una rivalsa sui tanti fili spezzati a cui, nel tempo, aveva assistito impotente.
Un modo per sondare se, all’irreparabile, non si potesse pur trovare un qualche scampo.
Nel ripensarci dopo, a freddo, si era comunque sentita stringere il cuore.
Non riusciva proprio a distaccare la memoria dallo sguardo buono di suo padre che si riaddolciva, come trovando conferma a ciò in cui aveva sempre creduto: «Vedete, che vi avevo detto? Non è stata lei.»
E neppure dal sorriso di sua madre, aperto all’abituale, fiduciosa indulgenza.
Pazienza, si era detta Beatrice alla fine, ormai è andata.
Di notte però la vicenda aveva assunto tutt’altra piega.
Lo sguardo e il sorriso dei suoi le erano riapparsi in sogno, come spesso capita, ma non più al naturale.
Si erano invece distaccati dai volti, deformandosi e slargandosi in mille particolari grotteschi fino ad assumere dimensioni mostruose.
Gli occhi si erano frangiati di ciglia lunghe come tentacoli e la bocca di sua madre le si era avvicinata al collo, aprendosi in un sorriso irto di zanne appuntite come seghetti di falegname che avevano preso ad addentarla, soffocandola in una morsa.
Il peggio era comunque venuto dopo, al risveglio.
Si era ritrovata piena di pustole rosse e doloranti tutt’attorno alle labbra, al mento e al collo.
«Orticaria da contatto.» aveva diagnosticato il medico di famiglia consultato d’urgenza, mentre scribacchiava qualcosa sul ricettario. «Sette giorni di queste,» aveva garantito porgendo il foglietto a sua madre «e tutto passerà.»
Beatrice l’aveva sperato, benché qualcosa le dicesse che non sarebbe stato così semplice.
E infatti, la notte successiva, l’incubo non solo era tornato, ma si era più articolato.
Dalla bocca di sua madre era fuoriuscita una miriade di ragnetti che avevano subito preso a imprigionarla nelle loro tele bellissime e dedaliche.
Prima le labbra, serrandogliele proprio come in un bavaglio, poi le spalle, il torace, le braccia, le mani.
Divincolandosi con tutta se stessa, lei aveva provato a gridare finché, in suo soccorso, non era giunta trafelata Maria.
Questa volta però i ragnetti non si erano lasciati sopraffare dalla famigerata ramazza e anzi, ancora più istigati dai colpi che la donna aveva preso a dar loro alla cieca, le erano balzati addosso tutti insieme, stringendola con fili sottilissimi e micidiali, come il Lacoonte dei Musei Vaticani.
Inutile dire che il mattino seguente le pustole di Beatrice erano aumentate, così come il pallore e le occhiaie che avevano iniziato a illividirle il volto.
«Uhm,» aveva commentato sua madre, divisa tra lo stupore e l’incipiente preoccupazione.
«Uhm,» le aveva fatto eco il medico, consultato di nuovo, prima di invitare alla calma e all’attesa.
Uhm avrebbe voluto fare eco anche lei.
Che sollievo sarebbe stato restare nell’incertezza come gli altri, sperando nei rimedi.
Ma Beatrice oscuramente se lo sentiva che, per le sue notti agitate, non ci sarebbe stato granché da fare e più il tempo passava e più le visioni si facevano tormentose e inquietanti.
Era una larva racchiusa all’interno di un bozzolo che diventava sempre più angusto, e man mano la comprimeva fino a schiacciarla.
Oppure si trovava aggrovigliata dentro uno strano gomitolo di bava lucente, che all’improvviso scivolava lungo sentieri e strade sconnesse. Una sorta di serica valanga che aumentava le sue dimensioni, fino a precipitare da un dirupo lasciandola a dondolare nel vuoto, appesa a un tratto di   filamento che sarebbe bastato un soffio a spezzare.
Un’altra volta doveva invece affrontare la scopa di Maria che, con colpi secchi e decisi, la cacciava fuori di casa, mentre tutti i suoi familiari ridevano di lei, scuotendo la testa in atteggiamento censorio.
Come del resto non farlo, con una che aveva voluto rompere il filo?
Le pustole l’avevano intanto ricoperta del tutto, malgrado le dosi sempre più massicce di cortisone e si stava pensando al ricovero presso una struttura specialistica.
Beatrice non sapeva più come fare e ogni giorno che passava si sentiva più stringere all’angolo.
La via della sincerità le appariva ormai impraticabile. Quella della menzogna ancora più impervia.
Possibile che un gesto, forse sconsiderato ma in fondo compiuto senza reale volontà di dolo, potesse avere conseguenze tanto gravi e serie?
Possibile che la serenità della sua vita fosse andata compromessa così facilmente, in un colpo solo?
Possibile che le sue giornate si svolgessero tra i tormenti del prurito e quelli della coscienza?
E poi, anche se l’avesse voluto, non avrebbe più nemmeno potuto confessare alcunché, dato che le pustole le rendevano difficile perfino muovere la lingua.
Oddio, che devo fare? A chi posso rivolgermi?
Nel pieno dello sconforto, afferrò una sera il tablet sperando in qualcosa che riuscisse a distrarla, e cominciò a digitare a casaccio.
Le dita le dolevano per le pustole, ma le immagini che presero via via a balzarle agli occhi le procuravano un minimo di sollievo, benché fossero per lo più legate ad annunci pubblicitari e sollecitazioni commerciali.
Un’altra forma di ragnatela, le venne fatto di pensare, frutto anch’essa di fili sottilissimi e trame impalpabili che collegavano il mondo, ma dove sincerità e menzogna stavano così fittamente intrecciate da rendere spesso impossibile distinguerne i confini.
Continuò la navigazione per un bel pezzo, passando da un sito ad un altro, da un link ad un altro, da un video ad un altro, finché di fronte ad un quadro di pescatori intenti a rimagliare le reti alla luce di un sole isolano, non le si chiusero gli occhi per la stanchezza.
Il sogno la raggiunse quasi subito, portandola questa volta all’ingresso di un antro.
Qualcuno le consegnava il capo di un gomitolo di lana posto chissà dove e la invitava a entrare.
L’ambiente scuro e tetro era circondato da pareti di roccia ricoperte di fossili e guano.
Via via che lei avanzava, il filo si srotolava morbido dietro i suoi passi, mentre il sentiero di terra battuta assumeva sempre più la forma di un budello.
Purché non si riveli l’ingresso di un labirinto e non mi ritrovi faccia a faccia con il Minotauro, si sorprese a pensare Beatrice, con inspiegabile lucidità.
Non ne poteva più di tutta quella storia ed era francamente stufa  delle allusioni simboliche con cui il suo inconscio si stava sollazzando a tormentarla.
A dispetto però dei timori, il percorso proseguiva sostanzialmente lineare, seppure lungo, molto lungo, tanto che ad un certo punto lei temette di essere caduta in un circolo vizioso e di stare girando in tondo senza sosta.
L’ennesimo incubo, sospirò rassegnata, disponendosi al peggio.
Ma, dopo un’ulteriore svolta, si ritrovò finalmente in un luogo che aveva l’aria di un centro vero e proprio.
Beatrice provò un po’ a raccapezzarsi. Stava per succedere qualcosa, se lo sentiva, ma non aveva la più pallida idea di che.
L’ambiente era intanto cambiato, lasciando filtrare una lama di luce lì dove prima non erano regnate che ombre e cupezza.
Fu sollecitata dall’idea di una rinascita, ma non voleva crearsi illusioni: gli eventi degli ultimi tempi le avevano impartito lezioni troppo dure.
Poi, dopo un’attesa che le parve interminabile, cominciò a sentire dei suoni, come di fanfare e tamburi.
Da dove diavolo venivano?
In cerca di risposte si guardò attorno, notando che, da una delle pareti laterali, cominciava a  snodarsi un corteo di esseri sconosciuti, alla fine del quale troneggiava la più grossa delle tarantole mai viste.
Ecco, ci siamo, si disse Beatrice, mi consegneranno a quest’insetto abnorme, e sarà la fine.
Per quanto le ispirasse ribrezzo, il pensiero si impossessò di lei come una naturalezza che la sorprese.
Al grado in cui era avanzata la vicenda, valutò che non poteva darsi epilogo più congeniale né d’altronde scorgeva altre vie d’uscita.
Purché non la portino troppo alle lunghe, fu tutto il suo augurio.
Appena raggiunto il centro del centro, la tarantola fece cenno ad uno del seguito di andare a prendere qualcosa e quello scomparve in un fiat.
Che obbedienza, commentò Beatrice ammirata. Magari l’avessi conosciuta anch’io.
Ora invece non le restava che sospendere il fiato e aspettare il momento che sentiva imminente.
Avrebbe l’esserino portato una gogna, un cavalletto di tortura, una forca, un insieme di ceppi e catene, una maschera della vergogna, una ruota dentata…
Non c’era quasi fine agli strumenti che gli umani avevano escogitato per suppliziare i loro simili. Ma proprio mentre lei li stava meticolosamente passando in rassegna, l’altro tornò recando tra le zampette pelose un lunghissimo filo di nylon. Beatrice strabuzzò gli occhi per lo sbalordimento.
Ma davvero? si disse.
E, colmo dei colmi, neppure in cento vite avrebbe poi potuto immaginare che cosa si trovasse legato ad una delle estremità. Eppure non c’erano dubbi, quello che vedeva era proprio… un aquilone dalle tinte iridate?
La tarantola le fece allora intendere di avvicinarsi a prenderlo e, tremando come una foglia, Beatrice si accostò alla sua grande sagoma nera.
Nel ricevere quel dono inusitato, si sentì colpire da un bagliore e, alzata la testa, si accorse del foro circolare sopra di loro.
Doveva essere un’uscita: la luce pioveva da lì senza lasciare margini d’equivoco.
Come riempiendosi di una nuova risoluzione, Beatrice allora comprese.
Che la via  per la conoscenza fosse tutto un intrecciarsi e dipanarsi di fili e ragnatele?
E che ognuno fosse chiamato a trovare il proprio modo di riannodare i fili interrotti, anche quelli (o forse soprattutto) quelli degli errori commessi?
La sua prova si era a ogni modo conclusa.
Si legò perciò al polso l’aquilone e quello, docile alle sollecitazioni dell’aria, si levò in volo, riportandola all’esterno con sé.
«Evviva,» la svegliò l’eccitazione di sua madre «Le pustole si sono ridotte. Il cortisone sta finalmente cominciando a fare effetto.»
Ancora insonnolita e frastornata, Beatrice la fissò per un po’ in silenzio, incerta se rivelarle o meno quello che le si era rivelato.
Ma, dopo averci ben riflettuto, alla fine preferì semplicemente abbracciarla con un poco convinto:
« Certo, mamma, e come no, il cortisone…»

***

Il racconto è il penultimo della raccolta Mondi à la carte, appena uscita per CTL EDITORE, Livorno.

“Ventidue proposte narrative, alcune anche brevissime, che al pari di un’illuminazione repentina ci ricordano come, appena fuori dai nostri rassicuranti programmi e progetti, si possano all’improvviso spalancare altre dimensioni dell’esistere, sì da condurci oltre iruoli imposti e gli schemi precostituiti, alla ricerca della savana”.