Wendell Berry: la natura come misura e poesia

Foto di Guy Mendes (Creative Commons da flickr)

Foto di Guy Mendes (Creative Commons da flickr)

ATTILIO IANNIELLO & SILVIA PIO

Su The New York Times del 25 settembre 1977 Donald Hall definisce Wendell Berry «a prophet of our healing, a utopian poet» (un profeta della nostra guarigione, poeta un utopistico) paragonandolo in seguito a William Blake. La guarigione di cui Wendell Berry diventa profeta è quella della società a partire dall’agricoltura e dal rapporto con la natura.

Wendell Berry, nato a Henry County, nel Kentucky nel 1934, è un contadino proveniente di famiglie di contadini, un romanziere, un poeta, un attivista ecologista, e un pacifista. Nella sua lunga vita ha scritto più di cinquanta libri di poesia, narrativa e saggistica, e collezionato premi, riconoscimenti e affiliazioni.
Dopo aver terminato gli studi all’Università del Kentucky, fece parte di un programma di scrittura presso la Stanford University e in seguito iniziò una carriera di insegnante itinerante, vivendo anche in Toscana per un anno. Tornato infine in Kentucky, acquistò una fattoria appartenuta alla famiglia della madre e seguì la sua vocazione di scrittore.

Il suo messaggio è essenzialmente: gli esseri umani devono vivere in armonia con i ritmi naturali della terra oppure rassegnarsi a morire.
Berry crede fermamente che l’agricoltura contadina sia essenziale per la conservazione dell’economia locale e soprattutto per la sopravvivenza delle specie e il benessere del pianeta. Di conseguenza l’agricoltura e le comunità rurali sono al centro della sua scrittura, sia in prosa che poetica.

Nell’agricoltura occorre applicare non il criterio del profitto a tutti i costi, ma quello della natura: «Se l’agricoltura vuole continuare ad essere produttiva, deve preservare la terra, la sua fertilità e salute ecologica; la terra, cioè, deve essere usata bene…. per usare bene la terra chi la lavora deve conoscerla bene, sapere come farlo, avere il tempo di farlo e infine potersi permettere di farlo.
[…] L’agricoltura non può aver luogo se non nella natura; perciò, se non è fiorente la seconda non può esserlo la prima. Ma sappiamo anche che la natura comprende noi stessi. Non è un luogo cui arriviamo partendo da qualche sicuro punto di osservazione all’esterno. Siamo immersi in essa e ne facciamo parte mentre la usiamo. Se la natura non fiorisce, non fioriamo neanche noi. Quindi la giusta misura dell’agricoltura è la salute del mondo e la nostra, ed è inevitabilmente un’unica misura… Una delle sue finalità, una delle inevitabili misure naturali, è la produttività; ma essa si preoccupa anche della salute di tutte le creature che appartengono ad un determinato luogo, da quelle che popolano il suolo e l’acqua, agli esseri umani, alle altre creature che vivono sulla superficie della Terra, fino agli uccelli dell’aria» (da “La risurrezione della rosa. Agricoltura, luoghi, comunità”).

Guarigione è anche saper risorgere, vivere radicati alla terra però con orizzonti utopistici come Wendell Berry scrive nel “Manifesto: Il Fronte di liberazione del contadino pazzo” di cui riportiamo alcuni versi d’inizio e fine:
«Amate pure il guadagno facile,
l’aumento annuale di stipendio, le ferie pagate.
Chiedete più cose prefabbricate,
abbiate paura di conoscere i vostri prossimi e di morire.
Quando vi vorranno far comprare qualcosa
vi chiameranno.
Quando vi vorranno far morire per il profitto,
ve lo faranno sapere.
Ma tu, amico,
ogni giorno fa qualcosa che non possa essere misurato.
Ama la vita. Ama la terra.
Conta su quello che hai e resta povero.
[…]
Quando vedi che i generali e i politicanti
riescono a prevedere i movimenti del tuo pensiero,
abbandonalo.
Lascialo come un segnale della falsa pista,
quella che non hai preso.
Fai come la volpe, che lascia molte più tracce del necessario,
diverse nella direzione sbagliata.
Pratica la resurrezione».

La poesia del poeta contadino del Kentucky descrive il contatto con la terra non come un semplice gesto agricolo, ma come una forma di partecipazione intima dell’agricoltore alla fertilità e produttività della terra stessa:
«Il piantatore d’alberi, il giardiniere, l’uomo nato per coltivare,
le cui mani si protendono sotto terra e germogliano,
per lui la terra è una droga divina. Entra nella morte
ogni anno e ne ritorna esultante. Ha visto la luce posarsi
sul cumulo di sterco e rialzarsi nel frumento.
Il suo pensiero passa come una talpa lungo la cima dei filari.
Quale miracoloso seme avrà inghiottito
perché il discorso ininterrotto del suo amore gli sgorghi dalla bocca
come una vite che s’aggrappa alla luce del sole
e come l’acqua che discende nel buio?»
(da “L’uomo nato per coltivare”).

Ed è il rapporto intimo con la terra e, quindi con la natura che rende liberi:
«Quando la disperazione per il mondo cresce dentro me
e mi sveglio di notte al minimo rumore
col timore di ciò che sarà della mia vita e di quella dei miei figli
vado a stendermi là dove l’anatra di bosco
riposa sull’acqua in tutto il suo splendore
e si nutre il grande airone.
Entro nella pace delle cose selvagge
che non si complicano la vita per il dolore che verrà.
Giungo al cospetto delle acque calme.
E sento su di me le stelle cieche di giorno
che attendono di mostrare il loro lume. Per un po’
riposo tra le grazie del mondo e sono libero»
(da “La pace delle cose selvagge”).

Fonti:
https://www.nytimes.com/1977/09/25/archives/back-to-the-land.html
https://www.poetryfoundation.org/poets/wendell-berry
https://www.neh.gov/about/awards/jefferson-lecture/wendell-e-berry-biography
Rivista Poesia n. 258 marzo 2011, articolo di paolo Severini