Nel naufragio del contemporaneo, quale direzione, quale canto?

C.Sottocornola, Paradise lost

C.Sottocornola, Paradise lost

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

“E subito riprende/ il viaggio/ come/ dopo il naufragio/ un superstite/ lupo di mare”,
G. Ungaretti, Allegria di naufragi, Versa, il 14 febbraio 1917

Mi sembra sempre più di vivere nella prospettiva evocata da Giuseppe Ungaretti in “Allegria di naufragi”, silloge poetica pubblicata alla fine della Grande Guerra, che documenta il clima di provvisorietà e la contingenza del vivere. Siamo sulla zattera della globalizzazione, alla deriva di immani cambiamenti epocali, flussi migratori incontrollati, pervasiva occidentalizzazione del pianeta, rivoluzione infotecnologica senza precedenti. Questo mondo spazza via i rapporti di vicinanza umana e prossimità, a favore di una straniante virtualizzazione e mercificazione della vita. “Chi vuoi conoscere?” – recitano tanti annunci nel Web – “Un uomo, una donna, e di che età, razza, altezza?”: ci sono le “ordinazioni” anche di varia umanità, proprio come di prelibata gastronomia. E le relazioni “su commissione”, che obbediscono al bisogno immediato, alla compulsione del momento, al gioco dei “mi piace”, generano poi disamore e noia, disperazione e angoscia, violenza pubblica e privata. Ma soprattutto indifferenza. D’altro canto, il lavoro, sempre più specialistico, il tempo, sempre più accelerato, le opportunità sempre più selettive e la fortuna sempre più casuale alimentano una percezione ansiogena e claustrofobica dell’esistenza, dove ognuno “fa parte per se stesso”. E il familismo, i figli vezzeggiati come la coppia talora esibita quale farmaco di salvezza e salute, lasciano spesso il posto a separazioni strazianti, efferate violenze, odi conclamati a stento repressi, quando non tragicamente incarnati da efferati omicidi che coinvolgono coppia, figli, territorio.

Questa civiltà ha destituito i rapporti umani di significanza. E poiché il bene della relazione è costitutivo dell’esperienza umana, essa ne risulta enormemente impoverita, inaridita, danneggiata. Il valore – in genere – si dà nel riconoscimento… come si vede dalla gioia che scaturisce dai rapporti umani, anche quelli più quotidiani e connessi all’esercizio dei propri doveri, mentre nell’autosufficienza c’è solo narcisismo, cinismo e cieca competizione, dove l’altro viene asservito al proprio gioco di dominio e, se non funziona, non si integra o contrasta, viene neutralizzato dalla nostra indifferenza, che “uccide” a basso costo, e genera immani solitudini tutt’altro che elettive. Ci muoviamo allora in uno spazio disabitato e non c’è più una mano a prestarci aiuto, a impedirci la deriva, il precipitare languido, come scriveva Pascoli: “…precipitare languido, sgomento,/ nullo, senza più peso e senza senso,/ sprofondar d’un millennio ogni momento!// di là da ciò che vedo e ciò che penso,/ non trovar fondo, non trovar mai posa,/ da spazio immenso ad altro spazio immenso;// forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?/ La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,/ io te, di nebulosa in nebulosa,// di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!” (G. Pascoli, La vertigine). Insomma, potremmo perderci e perire per sempre, senza alcun cenno di condivisione dei nostri simili, come ho visto – con sentimenti analoghi a quelli che mi suscita “La vertigine” pascoliana – in un vecchio film di fantascienza, dove giovani belli e pigri, in una situazione ludica e di rilassamento, ignoravano la richiesta di aiuto di chi cadeva in acqua per inerzia e indolenza (bastava allungare una mano), causandone l’annegamento.

Ma il vuoto che sperimentiamo attorno a noi, come vuoto antropologico, di relazioni significanti e di appartenenza, genera un’insussistenza identitaria e culturale, che comporta una condizione di vacuità e indeterminatezza, dove non c’è più ordine di priorità, direzione, gerarchia, intensità, e noi ci muoviamo come a tentoni nella notte. La notte diventa quindi il paesaggio più congeniale all’uomo contemporaneo (a meno che non sia un ipnotizzato destituito di criticità), e d’altro canto se della notte conosciamo il fascino (le identità si ibridano, le direzioni si incrociano e invertono, i flash che ci abbagliano sono anche segnali di vita, piste percorribili  e orizzonti possibili), ne avvertiamo anche i pericoli, drammaticamente segnalati dalle cronache degli ultimi decenni, un vero bollettino di guerra con i morti e i feriti delle “stragi del sabato sera”, spesso adolescenti che cercavano nel battito dionisiaco della notte l’attimo fuggente che se li è presi e portati via. Ma è possibile attraversare la notte? Viverla cioè, come un’occasione da spendere nel modo più nobile, più intenso, più autentico? Certo, una luce abbagliante, una luce accecante, un sole, sarebbe del tutto stonato in un paesaggio notturno, com’è quello della nostra civiltà, sospesa tra pensiero debole e nichilismo da un lato, produzione e consumo dall’altro. Lo cogliamo nell’irritazione che suscitano in noi quanti ci fronteggiano con la certezza di possedere una verità che li esonera dalla ricerca e dal confronto, e alla fine risulta sempre correlata alla loro piccolezza, che diventa però arrogante e presuntuosa nel volerci omologati  ad essa. Occorre allora una luce discreta, non invadente, ma capace di riscaldarci e generare conforto, sostenerci nel viaggio, trarci fuori, guidarci, una luce che può essere solo interiore, rintracciabile negli abissi della nostra coscienza, nelle sue incertezze, nei suoi sforzi di lucidità e coerenza più gravosi . E’ nella fedeltà a questa luce interiore che la coscienza porterà se stessa in salvo, attraverserà la notte.

Lo sforzo è di solidità, coerenza, disciplina, equilibrio (come è per il protagonista stordito e annichilito dalla brutale violenza dei totalitarismi in “Il sogno del prigioniero” di Eugenio Montale). Mantenere la direzione… E’ un dato che non si può eludere: coinvolge mente, cuore e corpo. Non si può trasgredire in un punto, senza ledere l’equilibrio e l’armonia del tutto. E’ veramente l’operazione del funambolo o del timoniere. Che segue il suo sogno, incurante dell’abisso che lo circonda di lato, di sopra e di sotto, perché vede solo la meta nella gioia del cammino, o meglio, la coglie come il radar del pipistrello nelle tenebre che lo avvolgono. Non dialogare con il male – esorta l’attuale pontefice – (ti spaventeresti), ma lasciati guidare dal bene… e poco importa se esso è una flebile luce, un’esile intermittenza, che si manifesta nelle più fitte tenebre – “ Tu cammina, canta e cammina…”, diceva Agostino… Che è poi la questione di avere un’etica e di avere un’estetica, che oggi mancano, almeno come modalità condivisa.

Sarebbe ingenuo, ma soprattutto presuntuoso, pensare di tornare a condivisioni del passato, fondate sulla richiesta di adeguazione a un modello dato da una cultura, una religione, una civiltà. Occorre quindi, resi edotti da secoli di riflessione critica e filosofica, ma anche di evoluzione della sensibilità collettiva e dei costumi, pensare a un approccio etico più che a un’etica, ad una attitudine estetica più che a dei canoni, che siano dinamici, flessibili e, soprattutto, inclusivi. La mentalità binaria è una semplificazione che qualche volta può anche servire, e che è senz’altro servita in passato, a segnalare direzioni percorribili ed altre non praticabili ma, in generale, è oggi decisamente insufficiente e, talvolta, fuorviante. Non posso chiedere all’altro di  aderire al mio credo religioso, al mio orientamento sessuale, alla mia identità culturale, ma posso al più – e forse devo –  sollecitare in lui uno sforzo di  autenticità e coerenza rispetto al  suo credo, alla sua affettività, alla sua specificità. E allora, sia in ambito etico che in ambito estetico, occorre orientare la nostra soggettività alla massima autenticità (non epidermica e spontaneistica, ma ontologica e profonda) di cui è capace, come premessa ma anche metodologia del suo svolgersi e manifestarsi nel mondo. Ma tutto ciò esige un lavoro di disintossicazione, di purificazione, una ascesi della mente, dell’anima, del corpo, e comporta disciplina, lavoro, fatica.

Perché occorre passare dal vedere e guardare al riconoscere, come ci ha insegnato la fenomenologia, con la sua teoria dell’epoché e il suo appello alla purezza dello sguardo. Occorrono occhi nuovi, cuore nuovo… intensità di vita (ma che spesso la vita ti toglie…). Sì, intensità. Perché non è necessario ammalarsi gravemente, basta un piccolo e protratto malessere per risvegliarsi e comprendere com’è bello tutto ciò che viviamo… Come tutto è dono… l’odore della pioggia… la polenta calda della domenica… il tepore delle coperte… o il sole dell’estate… Tutto è provvidenziale e struggente, non perché qualche eterno minorenne vede dovunque interventi straordinari di un Grande Capo, ma perché tutto si comprende, si richiama, si riconosce… in fondo noi siamo miracolosamente convenuti qui… ci capiamo… c’è una temperatura, una luce, un suono coi quali possiamo sintonizzarci, e questo accade sempre, è accaduto tutti i giorni della nostra vita… Il mondo, se lo vediamo attraverso tutte le risonanze, i riverberi e i rimandi di cui è capace e che si manifestano in esso, si presenta con il fascino di una immensa pista da ballo… l’occasione di una grande danza universale… “Tutto è grazia…”, diceva il “curato di campagna” di Bernanos. Anche la notte, anche le tenebre. Ma di quanta grazia siamo capaci? Quale grazia siamo capaci di accogliere, generare, trasmettere?

Certo, mantenere la purezza dello sguardo, l’intensità della visione, la fedeltà all’ispirazione, mentre intorno infuria la tregenda di questa civiltà tardo-capitalistica al suo collasso e sfacelo, non è certo facile né ovvio o scontato… Anche perché spesso siamo indotti dai media a pensare secondo futili e fatui standard di grandezza e visibilità, cui cedono da tempo con le loro gigantografie anche i nostri politici, e talvolta la stessa Chiesa cattolica, illudendosi che una strategia comunicativa risolva il problema del senso, mentre le masse decidono la grandezza in funzione della esposizione mediatica, e la ricercano entrando dalla porta di servizio di reality e Tv-verità… Ma io sono sempre colpito dai piccoli atti, dai gesti invisibili, dalla nobiltà nascosta che attesta un occulto sangue blu, una bellezza ordita nel silenzio, quasi nella noncuranza di un atto dovuto eppure splendente, di cui di solito nessuno si avvede, che talvolta, nel crogiuolo dei giorni, diventa l’eroismo di una vita intera vissuta nel segno della benevolenza e dell’amore, della disciplina e della fedeltà a un compito. Una nobiltà, una condizione eletta, una disposizione dello spirito che possiamo attuare o tradire ad ogni istante… come una rotta da cui si può deviare, e che alla fine segnalerà la distanza rispetto alla meta che si poteva raggiungere… Come sono colpito dai gesti, dagli sguardi, dalle parole credute occulte, che rivelano volgarità, meschinità, malizia, e che costruiscono vite banali, sempre più orientate al banale, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo… E lo sapeva bene anche il controverso, ma spesso illuminante, mistico orientale Sai Baba, quando diceva, in linea con la sua tradizione di pensiero (e riassumo a braccio): fate attenzione al Karma [destino] che andate costruendo, perché esso vi seguirà come una benedizione o come una maledizione…

Propongo quindi un’etica del quotidiano e un’estetica dell’anima, una sintesi fondata sull’orientamento interiore al valore. Di fronte a uno sguardo orientato ad esso, crollano le convenzioni e i cliché, resta la speranza, che è poi la virtù escatologica per eccellenza, quella che ci consegna all’impegno e al viaggio, e ci fa guardare all’approdo finale con coraggio, come a una estrema, pacificante benedizione dove incontrare finalmente noi stessi, liberi dal nostro peso nella leggerezza dello Spirito. Ma questa “morte” è un cammino quotidiano, ed è una continua nascita, o rinascita, alla luce della trascendenza che ci abita.
(tratto da Claudio Sottocornola, “Effatà”, CLD-Marna, 2015)