Le mie prof. d’inglese

La terza media della prof. Cheluzzi (lei non presente) a Trento. Carlucci è nella fila intermedia al centro

La terza media della prof. Cheluzzi (lei non presente) a Trento. Carlucci è nella fila intermedia al centro

CARLO CARLUCCI

A Carla e Chiara

Può ancora servire il parlare di un mondo e di persone oramai lontanissime, appartenenti a un’epoca, guerra e dopoguerra, che ha attraversato e segnato, ancorché bambini, la nostra vita? Parlare ancora di un Fenoglio, dell’epopea della lotta partigiana sulle Langhe, del suo Liceo Govone, dei suoi professori straordinari, indimenticabili, quasi incredibili, a cominciare da Leonardo Cocito medaglia d’oro, impiccato dai nazifascisti, da Chiodi che ha saputo condensare in uno stile scarno e asciutto la figura splendida dell’amico e collega come pure nelle vicende della lotta partigiana (descritte in Banditi e ne hanno fatto oramai un piccolo, imprescindibile classico) a Maria Lucia Marchiaro, la prof. d’inglese della quale (ma non solo di lei) voglio tornare qui a parlare.
Quando mi accinsi a stendere, non certo da critico, il che non lo sono mai stato e tanto meno mai aspirato ad esserlo, quel “L’inglese di Beppe Fenoglio”, quasi mezzo secolo fa, Fenoglio era scomparso da otto anni e si stava rivelando una miniera di sorprese, ultima ed eclatante quella del suo opus magnum, il corpus assemblato da Lorenzo Mondo col titolo appunto Il Partigiano Johnny (il nomignolo inglese affibbiatogli dalla sua prof. Maria Lucia Marchiaro). Dietro quella pista che stavo seguendo, a poco a poco si materializzavano piuttosto scarne, e cioè povere come ventaglio, ma fondamentali, nella loro essenza profonda, esperienze scolastiche da me vissute.
Alle scuole Medie e poi nei due anni di ginnasio al liceo Prati di Trento ebbi la straordinaria fortuna di avere un’insegnante della stessa stoffa della prof. Marchiaro, la prof. Luisa de Cheluzzi che lasciammo dopo il ginnasio, ma tanta e tale fu la sua influenza che dalla nostra classe uscirono poi non pochi insegnanti di inglese, me compreso (a voler essere sinceri solo il prof. Coraiola di matematica fu in parte alla sua altezza e in parte il prof. Radice, al ginnasio, titolare della cattedra di greco e da noi affettuosamente soprannominato Riza, cioè radice in greco).
Nemmeno a sognarselo nella grigia, ancora tutto sommato austroungarica Trento degli anni cinquanta/sessanta… un momento però, noi eravamo della sezione B, quelli della A avevano un corpo insegnante di altro livello, formato da professori geniali, capaci, come vuole la consuetudine lessicale, di lasciare la loro impronta. Dimenticavo ancora la prof. Videsot di scienze in carico alle due sezioni, chiamata in codice da noi studenti, Verza per via di una cospicua crocchia in cui erano raccolti i capelli, oggetto di scherzi a volte pesantucci, ma lei sapeva non prendersela mai a male, inducendo così nei suoi alunni rispetto e, alla fin fine, vero amore per la materia.
Per la professoressa d’inglese, la de Cheluzzi io ero Charlie, altri studenti avevano altro nomignolo sempre in inglese, essendo persona estremamente dotata e quanto mai prodiga (e intelligente) nell’ampliare le nostre conoscenze, fornendoci testi di autori inglesi da portare a casa, da leggere con comodo. Erano testi opportunamente da lei scelti a seconda le capacità dell’alunno, in linea coi suoi gusti, certe preferenze. Insomma erano letture volte a stimolare, a incoraggiare la nostra creatività in ‹inglese›. Ricordo di aver scritto le mie prime poesie in questa lingua già in quarta ginnasio, avendola avuta come prof. alle medie ed essendo oramai dotato (assieme ad altri compagni di classe) di una sorta di autonomia o indipendenza creativa che prendeva direttamente la via della lingua straniera, rafforzandone, stimolando capacità, confidenza, duttilità. L’ultimo incontro con lei, oramai mi ero stabilito a Firenze, avvenne a Trento nel 1976, casualmente in via Madruzzo dove si era da poco trasferita oramai in pensione, non si era mai sposata e viveva da sola, come la prof. Marchiaro, come la signorina Giulia Di Pietro in via San Leonardo a Firenze dove andavo per perfezionarmi nella conversazione (di madre americana era traduttrice) e come la professoressa Margherita Maino (severissima nella mia preparazione per gli esami di abilitazione e poi raggiante per gli ottimi risultati da me ottenuti divenne amica, assai prodiga – era presidentessa del Lyceum – di ogni aiuto possibile).
Dopo essersi informata sulla mia vita (avevo avuto il dramma dei tre anni di malattia e della morte del mio piccolo Vieri, cui seguì la separazione dalla moglie), sul mio lavoro ecco che nell’accomiatarci la prof. Cheluzzi mi chiese: «Avrebbe piacere dottore (ci aveva sempre dato del lei anche alle medie…) se le facessi avere le sue poesie che mi scriveva in inglese e che io ho sempre conservato?». Dopo pochi giorni tornato a Firenze mi vidi recapitata la busta contenente le mie prime prove poetiche in lingua inglese che ancora conservo con commossa gratitudine.
A quei tempi (quelli dell’adolescenza) e anche negli anni successivi brevi note, sfoghi, piccole confessioni li redigevo in inglese (più raramente in greco) così che sarebbero sfuggite agli occhi di terzi indagatori (i benedetti genitori…), la lingua straniera rappresentando da una parte lo sdoppiarsi in altro recinto linguistico (allora l’inglese era tabù per la generazione cui appartenevano i genitori) e in parte l’entrare in moduli espressivi, in una sintassi e lessico che costituivano sorta di radicale, affascinante cesura rispetto alla neolatina materna, l’italiano appunto.
Questa prof. de Cheluzzi oltre a indicarmi la strada che poi avrei intrapresa, mi introdusse all’arte difficile dello sdoppiarsi, nel riuscire a percorrere un binario (quello dell’inglese) non parallelo, quasi montato su un giroscopio, non sovrapponibile, come accadeva con le neolatine. Dovevo confrontarmi a fondo su un problema non certo peregrino proprio e anche grazie alle successive prof. scaglionate opportunamente dopo la fondamentale esperienza ginnasiale, nella preparazione dei concorsi (abilitazione e concorso a cattedre). E per questa specifica preparazione molto ho dovuto a Giulia Di Pietro e alla prof. Maino. Poi intorno ai trent’anni quando, dopo aver pubblicato un lungo saggio su L’approdo letterario (L’inglese di Beppe Fenoglio), sentii il bisogno di telefonare alla prof. Maria Lucia Marchiaro in quella cittadina delle Langhe resa gloriosa dall’epica del suo scrittore illustre (ed ora quasi solamente doviziosa e sopita capitale enogastronomica). Maria Lucia Marchiaro appunto venne a costituire l’apice, il coronamento della mia lunga educazione e all’inglese, alla didattica di questa lingua, alla sua letteratura, alla fruttifera osmosi tra i due canali linguistici (neolatine versus l’anglosassone) e così via dicendo.
Il là, il battesimo decisivo, l’iniziazione prima non solamente all’inglese (padroneggiavo bene il francese che un’ottima insegnante di Grenoble, madame Gruber mi veniva impartendo privatamente fin dalla seconda elementare) ma al passaggio da uno all’altro dei due antitetici registri linguistici avvenne, come già sottolineato, per merito della prof. Cheluzzi la quale seppe, pur nelle misere tre orette settimanali, abituarci quasi fin dall’inizio a trans-ducere dall’una lingua all’altra le sequenze lessicali e morfologiche prese in blocco (magari prima smontate – le prime volte – tanto per rassicurarci, ma non più di tanto). Sembrava tutto talmente naturale, spontaneo quasi che non ho ricordi mai di un solo attimo di noia o della sostanziale, abituale, iniqua vessazione delle interrogazioni, delle scadenze a mo’ di ghigliottina dei compiti in classe. Credo che nessuno avesse mai timore dell’assurdità, della sostanziale artificiosità del voto. Si era invece instaurata una sorta di gara silenziosa tra noi studenti, non tanto a primeggiare, quanto e per quanto possibile, a progredire, ad affinare i mezzi espressivi (pur sempre nei limiti del poco, pochissimo tempo disponibile). L’unica ed esaltante sfida era con noi stessi, per la padronanza della lingua, per quelle sequenze lessicali così radicalmente nuove rispetto alla neolatina materna.
Questa presenza, la presenza di lei, la carissima prof. d’inglese era qualcosa di pervasivo e nello stesso tempo di intangibile, era percepibile dietro ogni nostro sforzo e mai e poi mai assolutamente col banalissimo ricatto del voto. Sempre discreta, appartata faceva sì che noi fossimo gli attori, noi ad agire o interagire mossi da qualcosa di intenso e di invisibile, materializzato in lei, qualcosa di inaudito, di profondo, quale fiume carsico. Lei percepiva, intuiva, presentiva e un bel giorno ti portava la raccolta di un poeta inglese che era assolutamente, evidentemente alla tua portata (fosse un Walter De La Mare o Tagore, attingendo così ai ricordi). Quelle poesie, quell’autore erano esattamente quanto stavi aspettando, da tempo stavi aspettando e l’alterità della lingua straniera si faceva strada dentro, lingua autre rispetto alla neolatina materna che diveniva come per incanto?, per magia? assolutamente, spontaneamente familiare, solco parallelo e concomitante, amplificante in qualche modo tutto il tuo registro espressivo. L’abituale sonorità del poiein neolatino era come innestata, trasferita e poi transustanziata dentro un altro universo del quale – né più né meno – tu eri inspiegabilmente ma palpabilmente in attesa.
I binari doppi, che spesso si sovrapponevano delle due neolatine che avevo in dotazione (italiano e francese) si aprivano su orizzonti nuovi, sullo straordinario delle allitterazioni e non più dei rimandi vocalici, sulla percezione nettissima delle sonorità completamente nuove giocate all’interno del lessico. Questi e altri meriti vanno ascritti a questa indimenticabile, sempre sollecita (senza apparire…), modestissima e tanto più grande insegnante.
La signorina Giulia Di Pietro stava nella villa quattrocentesca che fu del sodale del Machiavelli, Pier Vettori, in quella via di San Leonardo che si snoda dal Forte del Belvedere ai Viali ove Ottone Rosai aveva lo studio. Era traduttrice (free lance) per l’Osservatorio di Arcetri e il Museo della Scienza e mi fu caldamente raccomandata da amici per il mio training nella conversazione in lingua straniera, anche perché in possesso di una solida, vasta, assolutamente non libresca cultura letteraria. Il patto da me stabilito (traguardi erano l’esame di abilitazione all’insegnamento di lingua e letteratura inglese e successivamente quello di concorso a cattedre per i licei) era semplice e chiaro ovvero delle conversazioni assolutamente spontanee e non preordinate con l’obbligo per lei di interrompermi ogni volta che rilevava un errore, un imprecisione, un calco troppo mutuato dall’italiano e si trattava solo e unicamente di fornirmi immantinente l’espressione inglese più appropriata o corretta. Niente di più, niente di pedante e soprattutto niente che ostacolasse o distorcesse lo scorrere, quasi da fonte sorgiva l’armonico, duttile, variegato, spontaneo, naturale del discorrere. E mai vi fu probabilmente cornice più appropriata a quel nostro dialogare dentro una sala con uno splendido caminetto che aveva probabilmente assistito alle conversazioni tra il Vettori e il Machiavelli e su su fino ai tempi della colonia inglese di Firenze quando con comprensibile imbarazzo Giulia e il fratello Joe (Giuseppe) erano mandati dai genitori anzitempo a letto in quanto arrivava un ospite scomodo, magari da prendere con le molle, come per esempio quel tal D. H. Lawerence con la moglie Frieda…
D’inverno in quella sala illustre faceva molto freddo e la stufetta elettrica bastava appena per dare un po’ di calore alle nostre gambe (i termosifoni erano rigorosamente spenti nella stretta economia di sussistenza dei Di Pietro) ma il nostro conversare (in lingua inglese) mai languiva, anzi il freddo sembrava incentivarlo. Ogni tanto si affacciava Joe oppure passava lasciando una qualche osservazione semantica, o cogliendo un idioma ad hoc per offrircelo, o porgendo una preziosità lessicale. Giulia e Joe se ne sono andati, la loro casa così pregna di storia e di storie è ora di proprietà della SAI assicurazioni, il cancello che dava sul giardino (ora incolto e selvaggio) è stato divelto e al suo posto una robusta rete schermata, un orrendo colore rosso ruggine (acrilici) deturpa e annega la villa allora di un giallino sbiadito e sognante che lasciava emergere dettagli e struttura rinascimentali, ora soffocate nella repellente pittura a nuovo. E tuttavia sopra quella devastazione (modernista) tutt’ora aleggia nei campi circostanti fino all’immenso, millenario leccio sotto la cui ombra ci rifugiavamo in certe calure estive («vede Carlino – diceva la pacata voce di Joe – qua sotto si crea un vero e proprio microclima fresco… pensi ci sono ben quattro gradi di differenza rispetto a fuori…») un qualcosa di quei momenti irripetibili, di quei luminosi, distesi, sereni conversari intorno alle English things.
Allora la laurea in giurisprudenza (materia umanistica) dava accesso, previa preparazione su tutte le materie del corso di laurea in lingue (altra materia umanistica) al concorso per l’abilitazione all’insegnamento (e successivamente al concorso a cattedre) e così ebbi in sorte di poter essere io a scegliere come e da chi farmi aiutare, non sottostando più (e passivamente) a quanto veniva impartito nell’Universitas Studiorum. Fu una faticosa, volte caotica e anche severa disciplina che mi regalò in cambio un’assoluta autonomia nell’organizzare e improntare quei miei studi: per la prima volta non ero più una tavola rasa pronta a sopportare pedissequamente il rullo compressore (che tale era ed è in buona un qualsiasi corso di studi universitario) impartito da. Si rivelò dunque per me straordinaria fortuna quella legislazione scolastica, retaggio del fascismo e forse di un’epoca ancora precedente quando era sufficiente documentare (tramite esami scritti e orali) l’effettiva conoscenza della lingua dopo aver fornito una prova sufficientemente valida degli adeguati studi di supporto…

(Segue)