L’armonia nell’arte antica

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FULVIA GIACOSA

Il convegno sull’arte del cameo promosso dalla gioielleria Boite d’Or di Cuneo con Cameo Italiano di Napoli e l’Accademia di Belle Arti di Cuneo ha visto una serie di interventi sulla storia dell’arte tenuti da docenti dell’Accademia cuneese.

Ai lettori di Margutte “giro” il mio intervento sull’antichità a guisa di ripasso di studi passati. Rivolto ad un pubblico eterogeneo, esso s’è concentrato su pochi concetti chiave (armonia, ritmo, canone) che rappresentano le costanti apollinee dell’arte classica, senza dimenticare che si potrebbe sceglierne altri se si volesse affrontare la vena dionisiaca altrettanto presente nel corso dei secoli antichi.

Chi era Armonia?

Il mito racconta che la dea era il frutto della relazione extraconiugale di Afrodite, moglie di Efesto, con Ares; Armonia va sposa a Cadmo, un mortale fondatore di Tebe. In occasione delle nozze, la madre della sposa le regala una splendida collana che aveva ricevuto in dono tempo prima dal marito Efesto. Il gioiello divino tuttavia cela, sotto l’apparente pregio di donare bellezza e giovinezza eterne, una profezia di sventure come in effetti accadrà ai due sposi: prima costretti all’esilio in Illiria, poi trasformati in serpenti. Scrive Roberto Calasso in Le nozze di Cadmo ed Armonia: «I doni degli dei sono avvelenati, incisi tutti dal marchio nefasto che è dell’invisibile quando diventa palpabile. Passando di mano in mano, trasudano il loro veleno. La collana dona da Afrodite …[provocò] per due generazioni un massacro di eroi».

Siccome nelle storie mitiche nulla è casuale, qui ci troviamo di fronte ad una dea che è figlia di due divinità contrapposte: Afrodite, dea dell’amore, e Ares, dio della guerra. Armonia è dunque un esempio della coniunctio oppositorum, principio unificatore tra entità divergenti. Essa inoltre unisce l’Occidente (nasce a Samotracia nell’Egeo) e l’Oriente (il suo sposo Cadmo ha origini fenice). E poiché anche i nomi greci sono portatori di significati, quello di Armonia ha origine nel verbo ἁρμόζω (comporre, accordare) chiarendo la funzione della dea che nel mondo romano sarà chiamata per l’appunto Concordia.

Il concetto di armonia era centrale nei pitagorici che lo legavano alla matematica e al numero: musica, poesia, architettura e scultura si fondavano su proporzioni numeriche, armoniche di per sé.

Strettamente legata all’armonia generata dal numero è la nostra seconda parola-chiave: ritmo che vale per la musica come per le arti. Fondamentale per le sculture frontonali, il ritmo informa anche l’architettura, i cui ritmi spaziali, determinati dall’alternanza di masse plastiche e vuoti, corrispondono in musica a note e intervalli. Pitagora aveva studiato gli intervalli armonici di ottava (diapason), quinta ((diapente), quarta (diatessaron). Essi vengono ripresi nei testi rinascimentale di architettura, in particolare nel De re aedificatoria di Leon Battista Alberti, il quale, sulla scorta di Pitagora, raccomanda l’uso dei primi numeri interi (1,2,3,4) generanti l’armonia della tetraktys, dei loro quadrati per le aree e dei loro cubi per i volumi. L’architetto applica queste regole ritmiche in tutti i suoi edifici, a partire dalla facciata di Santa Maria Novella a Firenze, basata sul modulo quadrato e organizzata su rapporti di ottava, quarta e quinta. Nel Cinquecento l’architetto Jacopo Sansovino insieme al compositore di musica Francesco Zorzi ristruttura San Francesco della Vigna a Venezia. È Zorzi a stabilire, in base alle regole della consonanza musicale, le misure della navata, larga 9 passi e lunga 27 (sostanzialmente un’ottava + una quinta) cosicché l’armonia spaziale è perfetta traduzione visiva di quella sonora.

Per quanto riguarda le sculture frontonali greche il ritmo è dato dalla loro disposizione entro lo spazio triangolare. Come nelle statue stanti anche qui si nota il passaggio dalla rigidità arcaica alla naturalezza classica. Nell’arcaismo tardo si hanno ancora una disposizione paratattica e una rigida simmetria (frontone ovest del Tempio di Athena Aphaia a Egina) per passare a una distribuzione più mossa di gruppi di figure, (frontone ovest del Tempio di Zeus a Olimpia) e giungere alla piena maturità soltanto con i lavori di Fidia nel Partenone, ai tempi di Pericle. Nei due frontoni le figure si legano tra loro in un flusso narrativo e formale continuo che consente una visione ritmica ed unitaria grazie alle masse e agli spettacolari panneggi.

Ultimo elemento chiave dell’armonia nelle arti è il canone. Il trattato di Policleto (V sec. a.C.) che aveva questo titolo è andato perduto ma le statue da lui realizzate ne sono l’esemplificazione. Già in età arcaica il canone era una delle regole fondamentali delle sculture che presentavano due costanti: equilibrio armonico e razionalità. Tuttavia mentre i kouroi arcaici, quasi sacrali nella loro fissità ed impersonalità, erano espressione dell’essere, nell’età classica le figure, sciolte nella naturalezza di un moto in potenza grazie a chiasmo e ponderazione, diventano espressione dell’esistere, pur continuando ad indicare un’esistenza idealizzata. Soltanto nell’ellenismo la figura umana diventa espressione dell’esserci (essere nel mondo, nel tempo, nello spazio), con accentuazione ulteriore del moto e varietà di pose ed espressioni.

Il canone, legato ai principi di taxis e logos, è “misura” razionale e, in tal senso, si sposa con l’antropocentrismo greco (l’uomo è misura di tutte le cose, diceva Protagora). La misura si configura in regole in tutti i campi: in musica corrisponde al nomos (i nomoi erano melodie fisse a seconda dell’occasione), in poesia al metron (unità di misura del verso che regola il ritmo poetico dei vari generi), in architettura al modulo (diametro di base della colonna). La caratteristica fondamentale del canone, che in scultura corrisponde alla misura della testa su cui proporzionare le varie parti del corpo, è la sua duttilità poiché è adattabile alle tradizioni locali (varianti doriche e ioniche) e coerente col gusto nel corso del tempo: ciò che rimane invariato è il principio di proporzionalità. Il già citato Policleto (bronzista di Argo, attivo tra 450 e 420 a.C.) aveva applicato il canone nel Doriforo bronzeo, di cui si hanno copie in marmo d’epoca ellenistica e romana, modificando il rapporto arcaico di 1/7 tra testa e corpo in 1/8.  A proposito dell’uso del chiasmo e della ponderazione, Argan fa un parallelo con la metrica classica e parla di arsi e tesi: il ritmo del verso, determinato dal piede, può essere ascendente o discendente e, quando 4 versi si presentano con arsi e tesi inverse, si ha la tetraktsys di cui abbiamo parlato all’inizio citando Pitagora. Nel Doriforo il chiasmo (dalla forma della lettera greca “chi”) distribuisce ad incrocio la posizione di arti superiori e inferiori mentre la ponderazione distribuisce i pesi: il ritmo ascendente coincide con la gamba destra su cui poggia il peso del corpo e con il braccio sinistro piegato a reggere la lancia (perduta), mentre quello discendente coincide con la gamba sinistra libera e il braccio destro disteso. Lo stesso meccanismo di ritrova nel Diadumenos e nell’Amazzone ferita con la quale Policleto vinse il concorso per il Santuario di Artemide a Efeso, battendo un giovane Fidia. Poco dopo, nel IV sec. a.C., Lisippo di Sicione, bronzista di successo e ritrattista ufficiale di Alessandro Magno, già nell’Eros con l’arco dà alla figura un più libero e sinuoso movimento, accentuando tensioni e distensioni chiastiche e torsione del busto poi riprese nella sua opera più nota, l’Apoxiomenos, che presenta un ulteriore allungamento del corpo. Tali scelte influenzeranno Michelangelo e i manieristi cinquecenteschi.

Lo stile classico torna in auge nel mondo romano in età augustea, evidente nei rilievi dell’Ara Pacis e nelle statue imperiali (Augusto di Prima Porta e Augusto in veste pontificale), tuttavia si innesta su contenuti tipicamente romani, legati alle nuove finalità che il mondo latino affida all’arte: narrazione storica per immagini, propaganda del potere imperiale, strumento per generare consenso (significativo il saggio einaudiano Augusto e il potere delle immagini di Paul Zanker, in cui si legge: «Poche volte nella storia le arti furono messe al servizio del potere politico in modo così diretto come nell’età augustea. Le immagini … parlano di un mondo felice, in cui un grande sovrano governa in pace un impero universale».

Un’ultima annotazione sulla glittica ellenistica e romana che ripropone le scelte formali della statuaria. Già a partire dal III sec. a.C. si sviluppa l’arte dei camei con la grande produzione ad Alessandria d’Egitto, per poi diffondersi a Roma. I soggetti più frequenti sono i ritratti dei regnanti a volte accostati a scene mitologiche e storiche. Se la Gemma Gonzaga, il Cameo con Menade danzante e opere di piccole dimensioni come i camei con le Nozze di Amore e Psiche e con l’Aurora sul carro sono ancora prodotti tipicamente ellenistici, i gioielli augustei riflettono quanto detto sopra. I più noti, spesso dono di dignitari di corte all’imperatore, sono opere dalla tecnica raffinatissima che presentano effigi di Augusto e famiglia: il Gran cameo di Francia (I sec. d. C.) rappresenta l’apoteosi di Augusto in alto, la grandezza terrena dell’imperatore Tiberio al centro, le popolazioni sottomesse in basso; il Cameo con profilo di Augusto (I d.C.) influirà sui camei neoclassici e napoleonici e il Gran cameo di Parigi, di Dioscuride, incastona il profilo di Augusto in un ovale di pietre preziose sul modello delle figure clipeate. Ma sicuramente il più famoso prodotto di glittica augustea è la Gemma augustea (c.10 d.C.), un rilievo su due strati, uno bianco l’altro marrone-bluastro, intagliati su di una pietra d’onice: creato in occasione del trionfo di Tiberio sui popoli germanici (in basso) raffigura in alto Augusto sul trono accanto alla dea Roma, incoronato da Oikoumene, la terra abitata, che esalta l’imperatore come garante della sicurezza di Roma e della funzione civilizzatrice dell’impero romano.