Dans les forêts de Sibérie di Sylvain Tesson

Sylvain

Sylvain Tesson ha trascorso sei mesi di solitudine in una capanna di tronchi nella taiga siberiana, sulle rive del Lago Baikal, lontano da tutto.
Un bel giorno di aprile, di passaggio per lo sperduto borgo di Zavarotnoe, uno del posto gli affida due cuccioli di quattro mesi: Aïka, una femminuccia nera e Bêk, un maschietto bianco. Quel giorno, si aprono per lui le delizie di una nuova compagnia.
Ha tenuto un diario lungo sei mesi.
Di seguito, la traduzione – linguisticamente più fedele possibile al testo originale francese – degli ultimi tre giorni.

***

26 luglio

[...]

Sergueï passa a prendermi dopodomani. Lasceremo i cani a Iélochine; ci resteranno nell’attesa di trovare un nuovo padrone, in un’altra capanna della riserva.
Sono venuto qui senza sapere se avrei avuto la forza di restare, parto sapendo che ritornerò. Ho scoperto che abitare il silenzio è una cura di giovinezza. Ho imparato due o tre cose che molti sanno senza ricorrere alla reclusione. La verginità del tempo è un tesoro. Lo scorrere delle ore è più trepidante che lo scorrere dei chilometri. L’occhio non si stanca mai di uno spettacolo di splendore. Le cose, più si conoscono, più diventano belle. Ho incontrato due cani, li ho nutriti, un giorno mi hanno salvato. Ho parlato ai cedri, chiesto scusa ai pesci salmerini e pensato ai miei. Sono stato libero perché, senza l’altro, la libertà non ha più limiti. Ho contemplato la poesia delle montagne e bevuto del tè mentre il lago diventava rosa. Ho ucciso il desiderio di avvenire. Ho respirato il fiato della foresta e seguito l’arco della luna. Ho faticato nella neve e dimenticato la fatica in cima alle montagne. Ho ammirato la vecchiezza degli alberi, addomesticato delle cinciallegre, capito la vanità di tutto ciò che non è riverenza alla bellezza. Ho gettato uno sguardo sull’altra riva. Ho conosciuto settimane di neve silenziosa. Ho amato aver caldo nella mia capanna mentre la tempesta scatenava la sua rabbia. Ho salutato il ritorno del sole e delle anitre selvatiche. Ho strappato la carne dei pesci affumicati e sentito il grasso delle uova dei salmerini rinfrescarmi la gola. Una donna mi ha detto addio, ma delle farfalle si sono posate su di me. Ho vissuto le più belle ore della mia vita fino alla ricezione di un messaggio, e le più tristi dopo. Ho innaffiato la terra di singhiozzi. Mi sono chiesto se si poteva ottenere la nazionalità russa non per via di sangue, ma per via delle lacrime versate. Mi sono soffiato il naso nel muschio. Ho svuotato litri di veleno a 40° e mi è piaciuto pisciare davanti alla Bouriatie. Ho imparato a sedermi davanti a una finestra. Mi sono fuso col mio regno, ho sentito l’odore del lichene, mangiato l’aglio selvatico e incontrato degli orsi. La mia barba è cresciuta, il tempo l’ha svuotata. Ho lasciato il cimitero delle città e vissuto sei mesi nella chiesa della taiga. Sei mesi come una vita.
Fa del bene pensare che nella foresta del mondo, laggiù, c’è una capanna dove qualcosa è ancora possibile, situata non troppo lontano dalla gioia di vivere.
27 luglio

Una siesta sui ciottoli della spiaggia con i cani coricati sopra di me. Aïka e Bêk, maestri miei in fatalismo, miei consolatori, amici miei che non attendete altro che ciò che l’immediato vi riserva nella ciotola della vita, vi voglio bene.
Sole crudo, lago azzurro, vento nei cedri, risacca delle onde: nella mia amaca mi sembra di essere sulla costa mediterranea. Nella foresta levo il bicchiere un’ultima volta alla vita di Robinson. Scorgo un formicaio, ne picchietto il colmo con la mano. Gli insetti si difendono e bombardano il mio palmo di acido formico. La mia pelle riluce di fluido attivo. Me ne inietto una dose nei seni nasali mandando giù la vodka. L’effetto degli effluvi ammoniacali è folgorante. La foresta si veste di colori insospettati.
Smonto il kayak, preparo gli zaini. La mia vita si è svolta qui durante dei mesi. Io la riavvolgo. Ho sempre vissuto in mezzo ai sacchi. Le mie casse di viveri sono vuote. Mangio dei pesci. È finita. Domani, il ritorno.
28 luglio

Un’ultima visita in cima all’altura per dire addio al lago. Qui, ho chiesto al genio del luogo di aiutarmi a fare la pace con il tempo. Scendendo, Aïka snida una femmina di anatra eider. L’anatra sbatte l’acqua con la sua ala destra, simulando una ferita. Bêk cade nella trappola e la segue fino a non toccare più.
Aïka cerca il nido, lo trova e sgozza i sei anatroccoli prima che io possa intervenire. Finisco i corpicini coperti di piume a colpi di ciottolo.
A lungo, il lamento dell’anatra sulla riva.
Piange le migliaia di chilometri percorsi invano, piange i suoi frutti perduti. La vita consiste nel cercare di sopravvivere tra le morti delle persone care.
Sono bastate delle dentate istintive di una piccola carnivora perché un’immensa luce di solitudine si abbattesse sui Cedri del Nord.
Sono seduto sulla panchina di legno e aspetto la barca di Sergueï. Il sole picchia. Le casse e i sacchi sono pronti. I cani dormono sulla sabbia. E quell’anatra che piange nella luce.
La mattinata ha un gusto di morte, il gusto della partenza.
I cani alzano la testa. Un ronzio cresce, si conferma. È la barca. Un punto si ingrandisce all’orizzonte. Un punto finale.

(traduzione di Silvano Gregoli: si veda Il leopardo delle nevi)