Dati:
1. Nel 2013 (anno di nascita della rivista che ospita queste righe) a Parigi veniva inaugurata una splendida mostra sugli Etruschi, ospitata dal Musée Maioll nella deliziosa rue de Grenelle, dal titolo “Etrusques. Un Hymne à la vie”.
2. Nel 1939 Alberto Savinio, fratello di De Chirico, scrittore, musicista e pittore, dava alle stampe “Dico a te, Clio”, tradotto in italiano dall’editore Sansoni nel 1946 (oggi in Adelphi). Lo stesso autore aveva paragonato il suo scritto a un giardino per la chiarezza, la leggerezza, l’amenità che mi sono conquistate nell’età matura.
Proviamo a far dialogare il primo e il secondo dato per cercare una sintesi a tutto tondo su uno dei più misteriosi ed affascinanti popoli antichi.
1. La mostra, ricca di 250 opere molte delle quali provenienti dai grandi musei d’arte antica italiani e stranieri, privilegiava la vita quotidiana degli Etruschi, solitamente ricordati quasi solo per la produzione funeraria, che infatti non poteva mancare nell’esposizione insieme alla coroplastica monumentale; ma ad esse si aggiungevano, anzi rubavano loro la scena, le abitazioni, l’artigianato ceramico, i vetri, l’oreficeria (monili, spille, bracciali, collane d’ambra e d’oro), le scene di banchetto, di danza, nonché quelle dedicate all’eros. Inoltre la mostra allargava lo sguardo sia geograficamente (dal Po al Tevere e sui fitti scambi con i popoli mediterranei – Egizi, Fenici, Cartaginesi, Greci -), sia temporalmente con testimonianze dal IX sec. a.C. (i semplici agglomerati di capanne dell’età villanoviana) al I secolo a.C. (quando, dopo un lungo declino, finisce del tutto l’autonomia delle città) passando per il periodo d’oro delle città-stato (VI e V sec. a.C.). Soprattutto la mostra toccava per intera la sfera della vita, da cui il titolo: i costumi (a partire dai banchetti e dal ruolo sociale delle donne rappresentate pari all’uomo), l’amore (assai libero nell’Etruria antica), gli affari e i commerci, lo sport e i divertimenti, la scrittura, la religione (con le modalità divinatorie: auguri, aruspici, libri fulgurales) oltre naturalmente all’arte, intrisa di influssi orientali.
2. La Clio cui si rivolge Savinio è – com’è noto – la musa dell’epica e la custode della storia, figlia di Zeus e Mnemosyne. Avverte lo scrittore nell’incipit: Clio: κλείω: chiudo. La storia racchiude le nostre azioni e le depone via via nel passato. Una perfetta organizzazione di vita farebbe sì che tutte le nostre azioni, anche le minime e più insignificanti, diventassero storia: per togliercele di dosso, per non farcele più sentire sulle spalle. L’uso di consegnare a un diario le nostre azioni giornaliere è una regola di igiene. … Ci si dovrebbe abituare da piccoli a tenere un diario, siccome ci si abitua a pulirci i denti. La civiltà perfetta è quella che tutto tradurrà in storia, e ci consentirà di ritrovarci ogni mattina in condizione di novità, liberi del passato. … Nell’ultimo sguardo che daranno i nostri occhi, nell’ultima luce che darà la nostra intelligenza, quello sguardo, quella luce non al passato saranno rivolti, posto definitivamente dietro alla porta chiusa, ma all’avvenire. E l’avvenire, come avrete capito, signori, è la morte, inazione per eccellenza e suprema purità. Savinio guarda alla storia non scritta, alle azioni che le sfuggono, ma contempla anche la possibilità di un attimo straordinario in cui l’uomo vede le azioni annientate, i fatti che non esistono più, le vicende scomparse; e conclude: E se il massimo destino delle vicende umane, se la sorte più nobile di noi e dei nostri pensieri fosse non la storia, ma il fantasma della storia?
Nelle pagine dedicate a Cerveteri e Tarquinia incontra il popolo delle tombe e della morte, così come lo si conosceva negli anni Trenta; soltanto gli scavi del secondo Novecento ci hanno fatto conoscere anche il popolo della vita che la mostra parigina ha privilegiato. Tra ricordi diretti del viaggio con amici e figli su una “Topolino” scoperta e divagazioni nella letteratura e nell’arte Savinio ci racconta l’Etruria più nota, mentre la mostra parigina ci fa scoprire una seconda Etruria, signorilmente godereccia che relega la presenza della morte nella sfera scaramantica: insieme ci insegnano qualcosa su una delle più “moderne” civiltà del passato.
L’immaginario mentore dell’itinerario non poteva essere che Charun, demone etrusco che traghetta le anime nell’Ade e ne impedisce il ritorno: nella ceramica e negli affreschi antichi è un omaccione barbuto munito di martello con cui chiude i chiavistelli delle porte dell’Ade; è il “conducente” che sveglia Savinio una mattina e gli dice che è ora di partire. Sulla vena malinconica prevalente affiorano tratti di sano ed ironico distacco proprio da quella morte che ripete la quotidianità della vita. Così, ad esempio, tra le tombe di Cerveteri all’autore par d’ascoltare una discussione tra due sposi che devono decidere quale tomba acquistare proprio come capita a chi deve comprar casa mettendo in campo pregi e difetti delle varie soluzioni; e al custode chiede a quali condizioni si può venire ad abitarci quando verrà il momento e quello gli risponde “non c’è che venire con un po’ di soldi in tasca”.
A Tarquinia lo colpisce la gioiosità del vivere dipinta sulle pareti dove tutto si fa leggero e intimo: pochissime di queste tombe hanno più di una camera, e la promiscuità della camera comune noi non potremmo sopportarla neppure da morti. Qui si vive in mezzo al miracolo della pittura che fa da “fodera” agli ambienti con scene dolci, liete e persino divertenti, sguardi volti a un’amenissima superficie. Giochi, banchetti, amori, elegantissimi danzatori e fanciulle agghindate dai profili perfetti (come la Velia della tomba dell’Orco), animali domestici e selvatici: infinite divagazioni poetiche di artisti che sapevano dipingere con mano leggera sopra un intonaco sottile, come chi volge l’occhio strabico al cielo e scrive seguendo il volo della fantasia ... con una semplificazione che precorre la pittura di Paul Klee.
Di questo popolo fiero e a tratti crudele (in specie quando cattura i suoi nemici) ma anche riservato come chi, invitandoci a casa, chiude le porte delle stanze intime, Savinio coglie gioie e malinconie. Certo fra le tombe di Cerveteri prevalgono pensieri cupi. E mentre si sente rimescolare come un minestrone dal mestolo alla notizia che i solchi di questa strada tufacea, sulla quale tu posi il piede calzato di vacchetta, sono stati scavati tremila anni orsono dai carri, sembra invidiare il “modo etrusco” per vincere il pensiero della morte: prenderla di petto e farne la principale occupazione della vita, ricorrere al sorriso e all’ironia (la metafisica del comico interviene a buon punto a mitigare la metafisica del tragico. … Il riso fa l’uomo forte.) Da buon surrealista quale fu, Savinio vede negli Etruschi un’anima romantica, orizzontale e centrifuga non verticale e centripeta come quella classica. Ne elenca il gusto per l’assurdo, la deformazione della realtà, l’inversione dei valori, l’umorismo nero, magismo, surrealismo, tutto il diabolico gioco della “metaphisyca naturalis”. … A questi metafisici e al pericolo da costoro rappresentato, Roma oppose la propria logica. … Tra logici e metafisici non c’è possibilità di compromesso. Roma debellò gli Etruschi, si adoprò con particolare pervicacia a oscurare la loro lingua … E ci riuscì così bene che oggi ancora la lingua etrusca è una lingua chiusa. Cerveteri è il paese di Utopia, non una terra inaccessibile ma la terra della morte, accessibile a tutti, dove si è al riparo per sempre da qualsiasi mutamento, rischio, sorpresa. Tuona la guerra sul mondo. Resta con noi e ti troverai benone, gli par di sentire.
Hic manebimus optime.