Anna Piatti, uno specchio per l’Africa

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Con questo contribuito vogliamo ricordare la missionaria laica Anna Piatti, bergamasca volontaria in Africa a vita, mancata nel luglio del 2019, a cui si ispira l’associazione Mani Amiche Onlus di Stezzano (BG) nata con lei nel 1965 e tuttora attiva nella promozione di progetti di sviluppo nel Sud del mondo e di integrazione. Anni Piatti ha pubblicato nel 2010 “La moglie del sole. Trent’anni di volontariato nella Repubblica Centrafricana” (EMI), una avvincente testimonianza della sua esperienza nel cuore dell’Africa a contatto con la gente, le gioie e le sofferenze di una vita semplice e povera. “Anna lavora nei campi con noi e conosce il sudore salato”, dice un anziano nel libro, che racconta l’esperienza di una donna abituata a faticare, cosciente dei diritti dei lavoratori, con la passione della dignità umana e della testimonianza cristiana. La sua è un’esperienza di inculturazione in cui assimila i migliori tesori della sapienza africana, conquistando il cuore di coloro con cui entra in contatto. E un capovillaggio così le scrive, nel tentativo di evocare il mistero della sua missione e della sua vita: “Anna non è nostra, è la moglie del sole”. L’intervista che segue, realizzata nel lontano 1991, durante un suo rientro in Italia, testimonia la sua straordinaria esperienza interculturale e anticipa temi e problemi di cui si è acquisita sempre maggior consapevolezza, sino ad oggi.

Ci sediamo nel salotto buono di casa. Pelle abbronzata, occhi taglienti e giacca rossa, Anna Piatti parla molto, con tonalità bassa e accenti francesi, conseguenza di vent’anni passati nella Repubblica Centrafricana.
Anna Piatti è una missionaria laica che la gente non sa bene come avvicinare: “Suora…”, “Signora…”, “Madre…”. E lei un po’ si diverte, risponde con lo stile asciutto ed essenziale degli anni ’60, quelli dell’esistenzialismo e dei primi travagli sociali: così cita le sue esperienze come contadina e operaia, l’impegno nella Gioc (Gioventù Italiana Operaia Cristiana) e nelle Acli.
L’Africa poi è una sapienza di vita che, attraverso segnali misteriosi e quotidiani, le ha fatto dono di rivelazioni profonde sul senso cristiano dell’esistere. E con passione incomincia a parlare di sé, ma di sé come specchio di un Vangelo africano…

D. Anna, quali erano le sue aspirazioni di ragazza?
R. Abitavo a Stezzano, eravamo diciassette in famiglia, si lavorava a mezzadria. Ad un certo punto sono passata alla fabbrica: avevo un posto di lavoro e avevo anche fatto qualche fidanzato. Ma ero inquieta, volevo qualcos’altro. Frequentavo la Gioc e le Acli e lì, oltre che dalla mia famiglia, ho ricevuto tanto: ho incontrato donne impegnate come laiche, donne credenti e credibili. Volevo andare in Africa, ma cercavano delle catechiste e a me questo non bastava. Con i Padri Scalabriniani ho fatto un tirocinio di sei mesi a Basilea, come assistente sociale, fra gli emigranti. Finalmente la mia domanda di partire per l’Africa è stata accolta. Così, nel ’63, ho incominciato un corso come infermiera al Policlinico di Milano. Poi sono andata in Francia a imparare un po’ il francese, perché ho la lingua lunga, ma non ho il dono delle lingue! Nel ’66 sono partita con i Padri Cappuccini di Genova per il Centrafrica, che lì chiamano l’ombelico dell’Africa.

D. Quali mansioni ha svolto?
R. Avevano chiesto una che sapesse fare animazione rurale. Io conoscevo bene la campagna, in famiglia si divideva già un pollo e una polenta in tanti. Per questo, non mi sono meravigliata della povertà che potevo trovare. Con la povertà non manca il necessario. È la miseria che alcune volte fa male: e la miseria si ha quando uno non sa ragionare con la propria testa. Comunque, quando ero operaia alla Zoffi vedevo arrivare le balle di cotone, quale meraviglia ora vederlo piantare e germogliare, alla stagione delle piogge, quando dal fiore secco vien fuori questa bava, che poi si vende… Mi ero accorta che i funzionari dello Stato rubavano sulla bilancia, perché io che pesavo 56 chili, su quella bilancia ne leggevo 48. Quando sono riuscita a smascherarli, volevano mandarmi a casa, tagliarmi la testa, ma penso che la verità va avanti, anche se lentamente.
Anna Piatti ricorda poi l’impegno per migliorare le condizioni igieniche degli indigeni, soprattutto il problema dell’acqua potabile. Abituata nell’infanzia a bere dai ruscelli di acqua corrente, non poteva accettare che gli indigeni bevessero l’acqua stagnante e pullulante di vermi che gonfiano il ventre. Così, eccola convocare un’assemblea di villaggio (“con cinquanta donne, trenta uomini, trecento capre, duecento mucche…”) per spiegare, con una lente d’ingrandimento, che l’acqua non è buona e che occorre scavare dei pozzi, e sentirsi rispondere che i vermi sono nel suo “occhio magico”.
Ma arriva anche la consolazione: “Un vecchio mi fa vedere il mango e mi dice: ‘Vedi questo mango? Prima di dare i frutti, ha messo le radici nella terra. E dopo dieci anni ha dato i frutti’. Anche per me sono passati dieci, quindici, vent’anni. E abbiamo fatto i pozzi, le scuole, le chiese, ma costruite con loro! Quelle che vogliamo costruire noi, e poi diamo in mano a loro, non sono gestite bene. Ho visto anche chiese di paglia, ma uomini di cemento; adesso abbiamo costruito le chiese di cemento, ma qualche volta gli uomini sono diventati di paglia”.
Oltre che in Centrafrica, Anna Piatti ha vissuto un anno e mezzo nel Ciad, un anno nel Camerun e ha trascorso quattro anni con i pigmei della foresta.
Nell’87 aveva deciso di non tornare in Africa a meno di esservi chiamata… dagli africani (“allora vorrà dire che noi missionari e laici abbiamo fatto un buon lavoro”). E qualcuno esaudisce il suo desiderio: il vescovo di Bangui, capitale del Centrafrica, che è presidente di un organismo internazionale, “Évolution Rurale-Développement Chrétien”, la chiama a lavorare a Bangui, in una zona urbana piena di baraccopoli, tante razze, tanti ladri… “Sicuramente si sta molto meglio nel villaggio – commenta Anna – è molto più tranquillo, ci si riunisce, si canta. Ma è dalla città che dipenderà lo sviluppo futuro, la conoscenza delle giovani generazioni. Bisogna lavorare anche qui”.

D. Anna, che cosa ha dovuto abbandonare dell’Occidente per vivere in Africa?
R. Sai quando metti un vestito pesante perché fa freddo e ti sei imbottito? Ecco, mi ero imbottita di tante cose, che ho dovuto abbandonare. Ricordo l’ultimo Natale in Centrafrica. C’erano dei ragazzi molto giovani che parlavano della festa, di Maria, di Giuseppe, ed erano un po’ increduli del mistero. Un anziano con la barba grigia, vestito della sua pelle nera, si è avvicinato loro, poi ha detto: “Joseph, sai che cosa succede quando pianti il granoturco?”. Quelli lo guardavano con aria di sufficienza. Ma lui continua: “Sai che la pannocchia di granoturco matura al sole? Il Dio del sole ha fatto maturare nel corpo di una donna cose di lui”. Ecco, a volte in Africa ho di queste rivelazioni…

D. Come si passa da una fede astratta a una fede operativa?
R. Nei miei primi anni di esperienza missionaria, quando moriva un bambino oppure un anziano, volevo dargli il battesimo, perché per me era importante che lo ricevesse. L’episodio che ti racconto mi ha chiarito molte cose. Assistevo una ragazza di dodici anni, agonizzante, che era stata morsicata da un serpente. Stava male, perdeva bava dalla bocca, allora ho invitato la mamma a chiamare il pastore. Questo avrebbe voluto dire fare quindici chilometri e lasciare la ragazza. Con molta serenità la donna mi ha risposto: “Ma tu non lo sai che Dio è nel cuore di lei?”. Ecco, io non avrei avuto tanto coraggio.

D. Che cosa conta di più nella vita?
R. Penso che, a un certo momento, bisogna anche sapersi accontentare. Non si può pensare di vivere sempre. Gli Africani hanno chiaro questo concetto, e ripetono spesso: “Il nostro villaggio non è questo, qui siamo di passaggio”. Eppure, siamo tutti tentati di ostentare i nostri piccoli poteri.

Un’esperienza ventennale della società africana ha portato Anna Piatti ad acquistare “sul campo” quelle conoscenze che, generalizzate dai media, acquistano in lei il senso di una testimonianza sulla pelle: ancora non si è abituata al fatto che gli Europei pagano agli Africani soltanto mille lire per un chilo di caffè o di cotone, sottolinea che è inutile mandare regali, ma che occorre coniugare il Vangelo con l’economia.
Anna forse si sente estranea in patria. In aprile è già ripartita per Bangui, Centrafrica.

(da Claudio Sottocornola, Il pane e i pesci, vol 2, CLD-Velar 2010)