Fenoglio e la guerra (parte II)

Il comandante Nord (Piero Balbo)

Il comandante Nord (Piero Balbo)

PAOLO LAMBERTI

Dunque il partigiano vive il mestiere e la tecnica del soldato; del resto gli “azzurri” di Mauri sono le unità in cui più forte è l’impronta del vecchio esercito.  Ed ecco che da I Ventitre giorni della città di Alba a Il Partigiano Johnny si snoda il ricordo della contrapposizione tra i sostenitori d’una guerra più tradizionale, fatta di presidi e grandi operazioni, e coloro che puntano alla guerriglia diffusa ed inafferrabile.  È un tema che appassiona lo scrittore, e lo vede diviso tra l’irrisione per i tradizionalisti e la diffidenza per una guerriglia troppo indisciplinata e “rossa”.

La presa di Alba fu «la più selvaggia parata della storia moderna»[i], Johnny diffida dell’utilità della presa di Alba, la sua liberazione è sarcasticamente immortalata da uno dei suoi incipit epigrammatici, anche a scapito dell’esattezza storica (Alba la presero in un migliaio e la persero in circa 800): «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944»[ii]. Ma i partigiani non sono soldati modello, eroi; anzi, la narrativa di Fenoglio narra le sconfitte, i rastrellamenti, le fughe, le morti, il senso di una precarietà stracciona contrapposta ad un nemico soverchiante; significativamente, la Liberazione e la vittoria mancano. È probabilmente l’eco dell’esperienza del Regio Esercito, così squallidamente e sprezzantemente descritto in Primavera di bellezza: «ciabattante, malsano, lercio, sgangherata, degradati, imbestiati, ruinoso, naftalinoso» sono gli aggettivi della prima pagina del romanzo, che culmina in: «questo esercito è una schifezza: sì, sono riusciti a mandare a schifìo anche l’esercito». Che pure riappare tra i partigiani: la guardia del mitico Nord è chiamata «secondo il vecchio caro imprescindibile lessico, plotone comando divisionale»[iii].

Eppure in Fenoglio il fascino della divisa, del portamento soldatesco, è continuo, dall’esaltazione del «khaki, the very colour he was born in and for» degli inglesi[iv], alla figura epica e scintillante di Nord, quintessenza del fascino militare: «Nord…era così bello quale mai misura di bellezza aveva gratificato la virilità…He always wore the very uniform for the very chief ….vestiva una splendida, composita divisa di panno inglese, maglia e cuoio…Nord, inguainato in una breath-taking tuta di gomma nera con cerniere abbaglianti…intorno gli erravano le sue guardie del corpo, magnificamente nutrite e muscolate, armate fino ai denti e tutte vestite in khaki, ma con accessori tedeschi»[v].

Gli accessori, i mezzi della guerra tecnologica, mitragliatrici, carri, la feroce competizione per le armi che giunge sino al furto sono la materia prima dell’epica, in un contrappunto costante con il ristretto mondo partigiano e langhetto: «grosse, argentee formazioni di Liberators…veleggiavano grandiosamente da galeoni…dietro le quali i partigiani boccaperti esalavano l’anima. Poi ripiombavano gli occhi alla terra, guardando perplessi e depressi quel lillipuziano mondo che essi dovevano difendere»[vi]. Persino il nemico partecipa di questo fascino, i tedeschi soprattutto, ma anche i fascisti, solitamente disprezzati, tanto da essere identificati con la metafora del rettile o dell’insetto, ma a volte descritti come nemici formidabilmente armati ed addestrati.

Ma esiste il volto feroce della guerra, la consapevolezza di una violenza paurosa che trae la sua radice dal ricordo di quel trauma terribile che fu la I guerra mondiale: solo questo aspetto è presente nei racconti sui vecchi Fenoglio, attraverso la ripetuta narrazione del funesto rito del “mortorio” (La licenza, Il mortorio Boeri), negazione della vita e spreco di essa, che il fallito rapporto sessuale del coscritto Boeri, che non tornerà, sanziona.

La violenza scandisce la vita partigiana, non solo e non tanto durante i combattimenti, quanto nella sequenza di fucilazioni, torture, fughe, angosce di morte che accompagnano i morituri, di entrambe le parti; una morte fatta “sfigurati” dalle botte, semisvenuti, sporchi, incontinenti.  Se i fascisti paiono connotati da questa squallida realtà, essa attraversa con forza anche i partigiani, in una visione tanto realistica quanto antirituale, e mal accolta nella versione ufficiale della Resistenza: essi rubano, agli altri partigiani e ai contadini, sono violenti con i prigionieri, li “scorciano” spesso e senza pietà, contendendosi il ruolo di carnefice (si veda l’episodio del maestro-spia di Rocchetta negli Appunti partigiani).

Fenoglio sa che non si può combattere senza essere corrotti dalla ferocia, perché pietà l’è morta; tutti i suoi eroi conoscono momenti di furia cieca, anzi, passando da Johnny  a Milton («Milton, che è un’altra faccia, più dura, del sentimentale e dello snob Johnny», nella  lettera a Garzanti già citata) al Milton del Frammento di romanzo (intitolato da Isella L’imboscata), la violenza del protagonista e della storia aumenta costantemente, a scapito della sentimentalità, quasi Fenoglio col passare degli anni riconoscesse l’incancellabilità di questa esperienza, in perfetto parallelismo con l’incancellabilità di Auschwitz in Primo Levi. Questa consapevolezza suggerisce l’impossibilità di condurre i suoi eroi sino alla pace; solo Ettore, nei racconti derivati da La Paga del sabato, vedrà il dopoguerra, e non vi si adatterà; addirittura il Johnny  di Primavera di Bellezza morirà nell’autunno del 1943, quasi si volesse preservarlo dal contagio, mantenendone l’innocenza; probabilmente è proprio la perdita dell’innocenza una delle ragioni per cui i partigiani di Fenoglio non sanno immaginarsi fuori della guerra, sino al partigiano di Tek che desidera che gli inglesi «enroll a type like myself with them against the Japs»[vii].

Il terzo aspetto, quello del dovere, della dimensione etica, bilancia e dà senso alla violenza.  La cruda e realistica rappresentazione della Resistenza non è affatto una revisione dei suoi valori, della sua legittimità, anzi in Fenoglio essa tocca uno dei suoi vertici morali, al di là del suo quadro storico; quando Lajolo intitola il suo libro fenogliano Un guerriero di Cromwell nelle Langhe, rimanda ad un puritanesimo che, sia pure in assenza di Dio, mantiene il senso sacrale di una esperienza, sempre individuale, che rispecchia l’eterna lotta tra bene e male; la metafora dello scontro tra luce e tenebra è una delle più costanti nei testi: «Johnny  si sentiva come può sentirsi un prete cattolico in borghese o un militare in borghese: le armi razionalmente celate sotto il vestito, il segno era sempre su lui: partigiano in aeternum…se lascerò quella collina, sarà solo per salire su una più alta, nell’arcangelico regno dei partigiani»[viii].

È la terra a radicare questo senso di missione, la libertà ricercata nasce non dall’ideologia ma da essa: «Le colline quasi l’uccidevano con la loro desertità e miseria, ma anche…l’alto vento di collina gli batteva sulle guance secche e lo ventagliava e gli sussurrava di libertà, libertà, libertà…». Invece l’insofferenza per l’ideologia è evidente nell’incontro di Johnny  con Cocito e Chiodi, gli insegnanti liceali di Fenoglio: il primo è comunista e sostenitore del primato della politica, contro lo spontaneismo, il secondo gli oppone il valore della libertà; lo scontro non ha vincitore, ma un rude richiamo alla necessità di armi rimanda al bisogno di agire, di scrollarsi di dosso quel senso di squallore che aveva accompagnato l’esperienza fascista, anche prima della guerra (si veda I premilitari). Chiodi stesso scriverà, dopo la guerra: «Fenoglio fu uno scrittore civile perché fece vedere il tragico come interiorizzazione della necessitudo, cioè come il destino di una generazione che dovette assumere incolpevole una inesorabile eredità di colpa»[ix].

Ultimo aspetto, forse il più singolare, è quello dello snobismo degli eroi di Fenoglio, di Johnny soprattutto, ma anche di Milton: nasce dall’individualismo, dalla percezione che la scelta partigiana fu scelta elitaria, ma anche dalla puritana consapevolezza che ciascuna coscienza è sola, dal concetto di predestinazione.  Lo snobismo è la forma che dissimula la solitudine, ma anche la consapevolezza che il ritorno alla terra e la scelta di combattere non permettono di dimenticare che l’intellettuale non può comunque vivere la guerra con la naturalezza degli altri; se i neorealisti “umiliano” se stessi, come Pavese, per essere come gli altri, come il “popolo”, Fenoglio, che pure non apparteneva alla casta, protegge attentamente la sua diversità. Una questione privata è l’incarnazione dell’individualismo, tanto da aver suscitato critiche e giudizi di “lirismo” da parte di Falaschi, che legge in Fulvia echi del dannunziano Pitigrilli, mentre Calvino la paragona al poema cavalleresco; e Saccon si avvarrà dello snobismo per negare allo scrittore l’intenzione dell’epicità.

Eppure lo snobismo  è l’altra faccia dell’eccezionalità: Johnny è insieme eroe ed altro dai suoi compagni, l’anglofilia è la ricerca di un’altra comunità, ricerca vana perché se al comparire degli inglesi Johnny  «yearned to be one of them», poco dopo, con loro, «is yearning for Mango and Ghiacci»[x]; quella di Johnny  è solitary unlikeness; lo snobismo porta alla solitudine; Johnny tocca la sua perfezione nella solitudine dello sbandamento invernale; solo è Johnny  quando parte per le colline: «partì verso le somme colline…nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana…Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra»[xi].

Questo è il senso dell’epica moderna, trovare la grandezza “nella normale dimensione umana”; guerra e solitudine misurano l’uomo dinanzi all’unico metro, quello della morte. «L’universo della guerriglia è l’universo in cui diventa naturale la morte più innaturale, la morte per mano altrui…In quanto naturale e prevista, questa morte è anche quasi sempre illacrimata»[xii]. Non si può non essere sconfitti, e «la sola occasione di riscatto consiste nell’accettare col massimo rigore morale la propria parte di protagonista, pur predestinato alla sconfitta»[xiii].

La morte del combattente è identica a quella del contadino, se Agostino può dire «mi sembrava di tornare come un soldato…proprio dalla guerra»[xiv]. Si deve consentire con Beccaria quando parla di tratti epici: il narrare oggettivo, l’inesorabilità degli avvenimenti, la quasi totale assenza di giudizi e lirismo; e anche quando parla del modello religioso dell’ascesa e della purezza conquistata dopo le prove; non però quando parla di allontanamento dalla guerra e dalla violenza: la guerra in Fenoglio non è solo una prova da superare, è la forma più evidente dell’eccezionale, e l’eccezionale è il senso della vita.


[i] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, I ventitre giorni della città di Alba (a cura di D.Isella), Einaudi-Gallimard Torino 1992 p.7

[ii] Ibid. p.6

[iii] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Il Partigiano Johnny cit. p.572

[iv] Beppe Fenoglio, Opere, I,1 Ur Partigiano Johnny cit. p.7

[v] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Il Partigiano Johnny cit. pp.572, 649, 597

[vi] Ibid.p.596

[vii] Beppe Fenoglio, Opere, I,1 Ur Partigiano Johnny cit. p.295

[viii] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Il Partigiano Johnny cit. p.557, p.450

[ix] Pietro Chiodi, Banditi, Torino 1975 p.136

[x] Beppe Fenoglio, Opere, I,1 Ur Partigiano Johnny cit.  p.7, p.19

[xi] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Il Partigiano Johnny cit. p.473

[xii] Norberto Bobbio, Trent’anni di storia della cultura a Torino, Torino 1977 p.109

[xiii] Francesco De Nicola, Fenoglio oltre le Langhe: la poetica del rigore morale, in: AA.VV., Atti del convegno Piemonte e letteratura nel ‘900, Comune di S.Salvatore Monferrato – Cassa di Risparmio di Alessandria 1980 p. 609

[xiv] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, La malora cit. p.200