Il “bagliore infinito” della poesia nelle “Ultime rose” di Remigio Bertolino

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GABRIELLA MONGARDI

Ultime reuse – Ultime rose di Remigio Bertolino, puntoacapo edizioni 2021, non è quello che sembra, cioè una raccolta di poesie suddivisa in sezioni quasi tutte bilingui, ma sono ben sette libri in uno: quattro raccolte poetiche (Il nero fiorire d’aprile, Il ghiaccio degli specchi,Tempo di collegio, Ultime rose), due poemetti (Al Pizzo, Notti di balera) e la prosa Qualche considerazione sul “fare” poesia, in quanto ciascuna sezione ha una sua compiutezza e autosufficienza e potrebbe costituire una plaquette a sé stante.

Le esaminerò quindi una per una partendo dalla prosa – una prosa che non è se non poesia sciolta dalle “stanghe” del verso, tanto sono intense e pregnanti le immagini di cui è intessuta.
Nei due testi che la compongono, Bertolino – come gli antichi trovatori provenzali – ci dà le razos della sua poesia, cioè la “ratio” intesa come ragione profonda della scrittura e insieme come “discorso sul metodo”. «In sostanza bisogna lasciarsi ëmborborì, riempire di vita, di ricordi, di bellezza, di orrore, di luce e di ombra – scrive – e dopo anni di religiosa attesa forse scoccherà la scintilla di un verso… È uno sprofondare nelle spirali dell’anima, un affidarsi ai gorghi dei sogni, ai labirinti dell’inconscio. La parte razionale subentra appena inizia questa stenografia dell’anima, questo dettato di “voci” interiori. Un lungo e appassionato lavorio. Lime leopardiane, scalpelli, seghetti e asce, se il caso». Ma quello con la poesia è innanzitutto un rapporto amoroso: «Come si attende l’innamorata sotto un lampione […] così io scorgevo la musa nel velame di brume e nevischio», e ancora: «Non possedevo che povertà. […] Ero come un mendicante, vivevo di misere elemosine». Viene in mente Platone, che nel Simposio chiama Eros “figlio di Poros e Penìa”, di ingegno e povertà – come la Poesia.

Vale per Bertolino quanto Genette afferma della letteratura: «La letteratura è una tentazione permanente, una vocazione continuamente rinviata a più tardi, e che si adempie in questa dilazione», in questa tensione a trascrivere, a tradurre in lingua umana il “bianco poema inattingibile” della neve. Come per Leopardi, anche per lui “lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in core” – e allora da un lato rende immortale la sua lingua materna, il dialetto di Montaldo, di ascendenza provenzale, trasfigurandolo da lingua della quotidianità dell’infanzia a lingua d’arte, “antica e peregrina”; dall’altro gli affianca l’italiano, sua seconda lingua e quindi inevitabilmente per lui “peregrina”, straniera: una lingua sola non basta, alla poesia…

Nelle sue considerazioni sul fare poesia Bertolino sembra volersi fare maestro di poesia, aprire un’ideale “bottega” per passare ad altri il testimone rivelando loro i segreti del mestiere: sicuramente fornisce una preziosa “guida alla lettura” del libro, il “filo di Arianna” che collega in profondità le varie sezioni tra loro, e permette di riconoscerne la forma di rosa: il giro più esterno di petali è dato dai testi in italiano che aprono e chiudono la raccolta; la corolla intermedia è rappresentata dai due poemetti bilingui; il giro interno, dalle poesie che compongono le sezioni “Il ghiaccio degli specchi” e “Ultime rose”; il cuore, dalle tre liriche di “Tempo di collegio”: non per niente, l’ultima parte della prima prosa rievoca “le sere uggiose di collegio” e “il quaderno di versi segreti” nascosto nel libro di Storia…

Partiamo dunque da Tempo di collegio, “ore in gabbia” che solo l’amicizia riscalda e la fantasia spalanca ai sogni del “pellegrino” – una gabbia che è però stata l’incubatrice, il semenzaio della poesia, come l’autore aveva già rivelato nella raccolta Lettere d’inverno (nino aragno editore, Torino 2016): ma qui le poesie sono più dense e concentrate, Bertolino ha applicato  coerentemente la legge che “alla poesia è più affine il levare che l’aggiungere, il giustapporre, l’espandere”.

Ma il libro si apre con un’altra gabbia, quella delle “case rinchiuse come fortezze”  per la pandemia, in quel nero fiorire d’aprile del 2020, da cui non c’è possibilità di evasione nel sogno. Il poeta è un ipersensibile sismografo, che coglie tutta l’irreparabilità del terremoto da cui siamo stati travolti e la denuncia indirettamente, con pudore e angoscia; è colui che prende su di sé il dolore del mondo e lo patisce sulla sua pelle, nelle sue viscere, nel “biancore / delle nostre mani / crocifisse”: così, in queste liriche utilizza quasi sempre la prima persona plurale perché si fa carico dell’angoscia di tutti, parla a nome di tutti. Il suo è il discorso claustrofobico di un prigioniero che guarda all’esterno una natura diventata totalmente straniera, “spettrale”: lo sguardo fa la spola fra dentro e fuori, passando dalle stanze dove “dal cielo nero / del soffitto / i ragni tessevano / l’angoscia dei giorni” alle “vele bianche” dei ciliegi; indugia a cogliere la “lacrima di topazio” del tarassaco, le “ellissi / di gioia delle rondini”, il “puro alabastro / dell’ultima neve” sulle montagne, ma non ne trae conforto.

Alle case in cui siamo stati confinati dalla quarantena del 2020 si contrappongono quelle diroccate e vuote della borgata protagonista del poemetto Al Pizzo: “occhi ciechi di finestre, / vitalbe, / nidi di bianche serpi / sul balcone”; “Tocca con dita fredde / letti abbandonati / il vento / e sulle ragnatele / fa splendere la forfora / dei calcinacci” – sono state la peste e la guerra a ridurle così, non c’è niente di nuovo sotto il sole, e niente di eterno… Si possono solo accarezzare “sul muso / le vecchie pietre / allungate al sole” – e carezze sono anche le immagini che il poeta crea: “L’aia si stende / come una tovaglia / al sole che sbadiglia / languido”; “Sono capre bianche / i muri a secco / al pascolo dell’oblio”, ma nulla possono contro l’oblio.

Simmetricamente e antiteticamente l’altro poemetto, Notti di balera, disseppellisce dall’oblio, con l’aiuto di Dante, i tipici luoghi di ritrovo giovanili degli anni Sessanta, i dancing, antenati delle moderne discoteche. Anche questo poemetto, come il precedente, è composto da cinque “quadri”, ma l’atmosfera qui non è elegiaca e dolente, bensì ironicamente infernale, con velati rimandi al canto dantesco dei lussuriosi (e al Flauto magico di Mozart): in uno spazio “d’ogni luce muto” c’è chi si ubriaca, chi prepara le panie di “vischio” e i “semi di miglio” per catturare le “colombe”; balenano pantaloni a zampa d’elefante, gonne affusolate, la musica dei Bee Gees: se c’è rimpianto e nostalgia per gli anni della giovinezza, è tenuto a bada dal distacco dell’artista e dalla disciplina dello stile.

Siamo così arrivati al giro più interno di petali di questa rosa, dove più intenso e penetrante è il profumo della poesia: le sezioni Il ghiaccio degli specchi e Ultime rose.

In un poeta “speculare” come Bertolino (le poesie in italiano non sono forse “specchio” di quelle in dialetto?) non poteva non comparire l’emblema dello specchio, che immediatamente lo affianca a due sommi poeti del Novecento, Jorge Louis Borges e Silvia Plath.
Lo specchio di Bertolino è scrigno sigillato di un passato inaccessibile («dormono sotto /  la tua lastra di ghiaccio / immagini di un tempo», su cui invano si china il poeta: lo specchio è “abisso di tempo, / pozzo senza memoria, / gorgo di volti”; le sue “labbra d’argento” sono “chiuse a lutto” e da esse non trapela nulla se non una “nebbia fitta”. Agli specchi rigidi e freddi costruiti dall’uomo sono però accostati quelli naturali, le “gore” in cui si specchiano le primule e l’abbeveratoio che rispecchia un angolo di cielo, come se il poeta cercasse fuori, nella natura, un sollievo a “pensieri che si fanno / notte / sempre più fonda”, nel chiuso della stanza.

L’alternanza dentro / fuori segna anche la sezione che dà il nome all’intero libro, Ultime rose, dando risalto alla “finestra” come diaframma di confine tra le due dimensioni e sfociando in un “invito al viaggio” in un’altra dimensione, di cui le rose sono le misteriose chiavi. Così a poco a poco, da una lirica all’altra, lo spazio perde tutta la sua concretezza: la cucina scaldata dalla stufa, i tetti di neve, i fienili, il grido del gallo lasciano il posto a “un mondo sospeso in una ghianda di luce” , fuori del tempo. In questo vortice di lenta, inesorabile metamorfosi viene meno ogni àncora, ogni punto di riferimento e il cuore trema nel vento “come i fili della luce quando le rondini sono partite” – ma dal vuoto affiora una visione, una visione d’amore: perché l’amore è l’ultima rosa, come suggerisce la citazione J.R. Jiménez posta in esergo alla sezione.

Mia rosa di Natale
splendi come un prato di brina
quando la sottoveste
scivola pian piano
dalle tue spalle
come queste tenebre
dalla cerchia delle Alpi.

All’alba,
tramontiamo come i grappoli
delle stelle
che abbiamo abbracciato
nel giro della notte.

Ma le faville
del fuoco ormai spento
sono tutte vive
dentro i tuoi occhi.

Composta di tre strofe sempre più brevi, in lenta dissolvenza, la lirica vibra di una musica segreta, di un intimo dinamismo sinestesico da cui sgorgano le immagini, potenti e delicate, della “sottoveste che scivola pian piano dalle spalle”, del buio che cala “verso la cerchia delle Alpi”, dei “grappoli di stelle che abbiamo abbracciato nel giro della notte”. È un esempio perfetto di quello che nelle sue considerazioni sul “fare” poesia Bertolino aveva definito “una sorta di big bang”: «Quando la materia costretta allo spasimo erompe, sprigiona un’energia possente, irraggia un bagliore infinito su quella che era una cavità buia e inerte». Questo è il mistero – e il miracolo – della poesia di Remigio Bertolino, la “sicura ricchezza” che essa ci dona.