Di nuovo sull’Amore… come orizzonte di Verità

C. Sottocornola, Il giardino di mia madre e altri luoghi

C. Sottocornola, Il giardino di mia madre e altri luoghi

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

L’Amore… ecco una condizione che illumina ogni stato di vita, ogni momento buio, ogni svolta del destino. Me ne accorgo quando, intristito da qualche circostanza che mi pare contraria o da qualche rapporto che giudico con sospetto, mi lascio andare a quel che resta della mia volontà di bene per l’altro, l’atto che devo compiere e la vita in genere. Improvvisamente, le circostanze che si realizzano diventano rivelative di un diverso – e più imprevedibile, gioioso, rasserenante – ordine di possibilità. Le cose si rivelano ontologicamente calde, dense di valore e di bellezza, generatrici di speranza e di energia. Le ombre buie che si addensavano sulla mia vita scompaiono, e una luce dolce che rincuora rischiara i volti e le cose intorno a me.

La verità sembra presentarsi allora con una logica e una libertà che dipende anche da me, dagli atti di disponibilità e di benevolenza che pongo, e a cui in certo qual modo è legato il suo manifestarsi o – meglio ancora – il suo attuarsi… La verità, così, si fa grazie al mio agire che ne rende possibile lo svelamento, altrimenti impedito, occultato, soffocato.

È una grossa responsabilità l’attuarsi di tale condizione di verità, che non va identificata esclusivamente con l’ordine della morale, ma con quello conoscitivo in genere, come vuole il Vangelo di Giovanni – “Chi ama è nella verità, chi non ama è menzognero” – in quanto le cose rivelano il loro Logos (una “grammatica” dice Vito Mancuso) nel momento in cui gli atti lo rendono presente,  attuandone e sviluppandone tutto il “potenziale”, come una vita è in certo qual modo manifestazione del suo DNA ed ogni sua crescita in vigore ed energia ne è una testimonianza, come ogni atto autenticamente creativo è una rivelazione dello spirito e della sua libertà, come un sacramento è “segno efficace” quando ne siano date tutte le condizioni richieste.

Tanto Logos, verrebbe da dire, quanto Amore. Ma è importante dire che ciò non comporta sempre luce e armonia immediate, ma anche contrasto, lotta e, qualche volta, la consapevolezza che – se luce c’è – questa è – nonostante ogni intenzione di bene – occultata. E allora i nostri atti devono fendere come fari la nebbia che avvolge ogni cosa, devono testardamente tenere acceso un fuoco esangue che qualcuno o qualcosa vorrebbe spegnere.

Ricordo – proprio nelle nebbie della mia giovinezza (e senza pretendere all’oggettività assoluta, ma nell’ordine dell’impressione) – un curato e un parroco. Una baita di montagna con tanti adolescenti e giovani, un curato che attendeva la visita del parroco, e sembrava un po’ ironizzare, minare il terreno sotto di lui al cospetto di quei giovani, forse perché lontano dalla sua formazione, o forse perché percepita come lesiva della propria leadership. Ebbene, al di là delle ambiguità o delle freddezze del curato, rammento la visita di quel parroco, calorosa, cordiale, fraterna, sdrammatizzante, capace di conquistare tutti ringraziando per l’accoglienza e ospitalità, dichiarando la bellezza di quel pomeriggio indimenticabile, e strappando così a degli adolescenti sospettosi un autentico moto di simpatia e al curato diffidente la promessa di un’amicizia duratura.

L’Amore attua, rivela, perdonando realizza e cambia anche il passato. Come la fine di un film ne modifica e determina il senso complessivo.

È incredibile quante cause giudiziarie siano dovute, più che a un desiderio di giustizia e di bene, a semplici e ostinati rancori che vorrebbero far pagare all’altro magari una lieve infrazione che potrebbe essere rimessa, perdonata, dimenticata. E rispetto a cui ci si vuole rivalere trascinando lunghi processi che, alla fine, appesantiscono la macchina della giustizia, laddove veramente essa sarebbe insostituibile, e rimpinguano le tasche degli avvocati, che si moltiplicano come cavallette in un Paese, dove non c’è condominio che non abbia la sua brava causa in corso.

L’unico comando evangelico è quello dell’Amore, che non conosce deroghe perché – secondo tale fenomenologia che lega indissolubilmente i due ambiti – non ne conosce la Verità. Ma quanti lo insegnano oggi, in una civiltà malata di tecnicismo, consumismo ed efficientismo? Si conosce solo l’amore del cacciatore per il tordo, come voleva Sant’Agostino, che è poi un amore di sé, e non l’amore che apre all’ “altro da sé”, qualunque fisionomia esso abbia, dal filo d’erba a Dio, passando per tutti i nostri innumerevoli prossimi.

Sì, non è facile ritrovare questo orientamento della volontà, laddove anche il tempo è ormai risucchiato nel vortice dell’efficienza, dell’accelerazione delle possibilità, della scansione e quantificazione degli impegni, e sostare, conversare, indugiare con gli altri è guardato con sospetto o addirittura eluso con fastidio.

No. Abbiamo perso il tempo dell’Amore e non possiamo che ritrovarlo mettendo sotto accusa il nostro senso di Onnipotenza (quello che attraversa la civiltà occidentale moderna) per riscoprirci limitati e dipendenti gli uni dagli altri, e dall’Altro, riaprendoci così alla relazione e, più ancora, al servizio.

Quello di Gesù che, nell’Ultima Cena, prima della sua Agonia e Morte, prende un asciugamano e svolge un servizio tanto umile, che la società del tempo non lo attribuiva nemmeno a uomini liberi. Perché l’Amore – nella sua dimensione più integra e alta – è quel “bene dell’altro” e “servizio all’altro” per il suo bene, che oggi nessuno riesce più a rintracciare entro l’accezione edonistica e narcisistica di tale concetto, ove l’Amore è Amore di sé, sentimento, senso o intelligenza compiaciuti.

Si può chiamare come si vuole, ma è innegabile che vi è nell’uomo – e forse, anche attraverso di lui, nel cosmo – un principio di arroganza e disordine, di superbia e violenza, che ci allontana da questa disposizione originaria e primigenia al bene, all’armonia, all’amore gratuito e oblativo. Disconoscere ciò vuol dire rendere inspiegabile, e dunque altamente e insolubilmente contraddittorio, il reale, con il suo immenso bagaglio di menzogne e sopraffazioni, cinismo e inganno, degrado e distruzione. E dunque la spiritualità di varie religioni, e in particolare della tradizione cristiana, ha rintracciato nella condizione-simbolo di una colpa o peccato d’origine la via d’accesso alla risoluzione di questa altrimenti irresolubile aporia  (l’essere dell’uomo per l’amore; l’essere capace dell’uomo della massima negazione dell’amore). E ha intravisto un ambito, quello della libertà originaria, come capace di determinarsi sia per l’Altro, riconosciuto come correlato essenziale e, soprattutto, come condizione e fondamento dell’agire e dell’essere, sia contro l’Altro, e quindi nel rifiuto di tale correlato, condizione e fondamento.

Chiunque vede che da questa chiusura, da questo avvitamento, da questo accecamento originario, che in certo qual modo nelle sue implicazioni agisce dentro di noi in singoli moti o atti puntuali delle nostre storie personali, procede ogni difficoltà per l’Amore vero, che pertanto deve praticare ogni sforzo di purificazione e ascesi per arrivare a quella originaria integrità, dato, compito e meta finale, che ci è assegnata quale senso profondo del nostro esistere e delle sue alterne vicende

Angeli e uomini in carne e ossa, re e profeti, demoni e santi non sono che lo scenario epico e grandioso di una lotta in cui ne va di una sola cosa: la qualità del nostro amore e, attraverso di esso, la condizione ontologica del mondo, la possibilità stessa della Gloria…

(Da C. Sottocornola, “Stella Polare”, Marna 2013)